Uno sguardo di misericordia

La terribile vicenda di Paderno Dugnano. L’omicidio della povera Sharon. Due fatti da non liquidare come cronaca nera. Perché farne subito notizie le riduce, quasi ne elimina il perché che ci fa umanamente rabbrividire. E non ci possiamo rassegnare pur sapendo che il male è di questo mondo. D’accordo, la mancanza di un perché è la cifra di questo tempo. Eppure la ragione non si accontenta di un’assenza di ragioni. Ci vorrebbe un qualcosa che ci scuota. Un fatto affettivo che apra al perché. Così umano nella sua rivoluzionaria elementarità 


20 settembre 2024
Editoriale
di Roberto Persico

Courtesy @Roy Santanu

Ci sono fatti prima che diventino notizie che, più di altri, fanno venire i brividi. Un uomo esce di casa con un coltello in mano e lo infila nella pancia della prima che passa. Pare addirittura che, mentre lei gli domanda “perché?”, lui risponda chiedendole scusa. Un ragazzo esemplare, descritto dagli amici come “solare”, “cordiale”, uccide a coltellate il padre, la madre, il fratellino.
Certo, il male nel mondo c’è sempre stato, e sempre ci sarà. La storia dell’umanità comincia con Caino che ammazza su fratello Abele, e così è proseguita, e così proseguirà. Però ci sono notizie che fanno rabbrividire più di altre. Perché?
La risposta non è difficile: «La mancanza di motivazione è ciò che accomuna gli ultimi due terribili fatti di cronaca che hanno sconvolto l’opinione pubblica», scrive Mauro Magatti sul Corriere della Sera. Su La Repubblica Francesco Merlo propone di accettare l’inspiegabilità: «i vecchi cronisti sanno che la cronaca nera non si commenta», gli abissi dell’animo umano sono più profondi di ogni nostro scandaglio. Una posizione che ha una buona dose di saggia umiltà, di sano rispetto. Ma la ragione non si accontenta di un’assenza di ragioni, e in tanti hanno cercato di trovarne. Magatti – autore fra l’altro di un bel libro sull’autorità, La porta dell’autorità, Vita e Pensiero – prosegue osservando che «la mancanza di un perché è una cifra del nostro tempo» e che «l’ambiente digitale da una parte isola, riducendo le esperienze concrete in cui apprendiamo la fatica e la bellezza dello stare con gli altri e del farci accettare per quello che siamo». Matteo Lancini, uno che per gli adolescenti spende la vita, osserva su La Stampa che «c’è bisogno di puntare tutto sulla relazione», perché è quando la relazione viene meno che si apre lo spazio per i gesti violenti. Susanna Tamaro, sempre sul Corriere, punta giustamente il dito contro «Il culto del bambino perfetto. Il bambino nasce perfetto e a noi, suoi devoti, non rimane che contemplare estasiati la sua perfezione: liberi tutti perché il male non esiste e non dobbiamo fare nessuno sforzo per contrastare queste oscure e ataviche pulsioni che vivono costantemente dentro di noi». L’idolatria dell’istinto, la tirannia del desiderio – potremmo parafrasare – hanno tra i loro effetti questi gesti “incomprensibili”. «Il problema non è riducibile a quello che accade nelle famiglie ma al collasso generalizzato della legge della parola», chiude il cerchio Massimo Recalcati, ancora su La Repubblica, certificato dalla «stagione della guerra che stiamo collettivamente vivendo».

«Sì è bravo, ma…»

In tutte queste osservazioni c’è una scheggia, un accento di vero. Ma a me pare ne manchi un aspetto fondamentale, che si ritrova invece nel significativo documento pubblico espresso da Comunione e Liberazione. Provo a dirlo a partire dalla mia esperienza: dalla frequentazione con tante famiglie – brave, bravissime, assolutamente benintenzionate – di amici, dai colloqui con tantissimi genitori in decenni di insegnamento. Nella convivenza con tante bravissime famiglie, nei colloqui con tanti bravissimi genitori, la parola che echeggia di più a proposito dei figli è quasi sempre un “ma”, un “però”: “Sì, è bravo, ma (e via con quel che si vuole: non tiene in ordine la stanza, non si impegna abbastanza a scuola, non aiuta in casa, non non non non…). Lo ha detto un ragazzo durante un’assemblea di classe, in cui insegnanti e genitori cercavano di capire perché una classe di ragazzi intelligenti non si impegnasse nello studio: “Ma prof, non si rende conto che noi non andiamo mai bene a nessuno?” Come si fa a vivere con questa percezione addosso, “non vado mai bene a nessuno”?

«Senza chiederti prima di cambiare»

Ritrovo questo punto nel pezzo del professor Franco Nembrini sul numero del mensile Tracce di settembre. A un certo punto cita la lettera di una ragazza: «Lei chiede: “Cosa faccio io davanti a questo? Io chi sono davanti ai miei coetanei convinti di non avere un valore?”. Questa è la definizione che voglio segnalare: convinti di non avere un valore. La terribile sofferenza che registro nasce dalla percezione di non avere nessun valore. Ma il valore nella vita non te lo dai. Te lo dà uno che ti guarda con uno sguardo di misericordia: è questa la parola giusta, la parola inevitabile. Uno sguardo di misericordia. Uno che ti guarda e tu capisci che darebbe la vita per te, senza prima chiederti qualcosa in cambio, senza chiederti prima di cambiare».
Una madre, un padre, un insegnante che ti guardino così, che ti accolgano per tutto quello che sei (che accettino di stare davanti a «qualsiasi parola, anche la più disturbante», chioserebbe Lancini). Un sogno? Un’utopia?
Un fatto possibile, conferma Nembrini: «Leggo da un’altra lettera che ho ricevuto: “Stamattina stavo facendo colazione e come tutte le mattine arriva mia madre. Tutte le mattine, appena entra, una serie di insulti: e il voto e la scuola, la cartella, il ritardo, arriva il pullman… Stamattina… è entrata e mi ha sorriso. La mamma mi ha sorriso. E sapete cosa mi ha detto? ‘Mario, che bello che tu ci sia, come sono contenta’. Da diciassette anni aspettavo di essere guardato così”. È tutto qui il problema: questo sguardo che tutti abbiamo ricevuto in qualche modo, e che è la consistenza dell’adulto».

Courtesy C Diego Loffredo Istagram @diegoloffredo74

Una vera correzione

PS: Sento già l’obiezione, l’ho sentita mille volte: “Ma allora vuol dire che va bene tutto, che gli lasci fare tutto quello che vogliono…”. Non è così. «Quando si consente a un adolescente di verbalizzare il proprio stato d’animo non vuol dire che gli si dà ragione solo perché lo si ascolta», osserva ancora Lancini. Un episodio minimo. Negli ultimi anni ho insegnato in un CFP della bergamasca. Un concentrato dei casi più difficili che si possano immaginare. Una mattina sto chiacchierando sulle scale d’ingresso con un paio di loro. Uno butta un mozzicone per terra. Lo guardo male. Lui sa bene che amo i fumatori ma odio i mozziconi per terra. Ha un attimo di incertezza. “Non c’è problema”, gli dico, “se non lo raccogli tu lo raccolgo io”, e faccio per avviarmi. “No, no, prof, lo raccolgo io!”. Solo un’affezione vera rende possibile anche una vera correzione.