Una generazione sulla soglia con l’urgenza di incamminarsi

Nella nuova raccolta di poesie intitolata “Dove sono gli anni”, Gian Mario Villalta entra e prova a superare, attraverso interrogativi e tentativi di afferrare affetti, memoria e sguardo in avanti, ciò che ha prodotto smarrimento nella generazione nata negli anni Sessanta e limitrofi.

L’autore va dentro alla frammentazione, la scruta e per così dire la memorizza. Ammettendo la difficoltà di vivere il presente, pur nel riconoscerne l’impossibilità a fuggirlo in via definitiva.

Ecco che il suo stare sulla soglia non è allora rinuncia ma metodo di ricerca di un di più di senso. Già evidenza nella lingua che utilizza con maestria. Un percorso formale, il suo; che è appunto movimento. Là dove il suo cesellare le parole traduce in bellezza la verità, anche dolorosa, dello scavare. Sono parole che recuperano il tempo. Parole che ricreano


di Francesco Napoli
21 ottobre 2022

 

C’è una generazione, quella nata negli anni Sessanta e negli immediati dintorni, che può essere letta ormai nel suo insieme, con tutta l’attenzione dovuta e, aggiungo, adesso anche con la lente bifocale storico-critica.

Si tratta di una generazione, come scrive Gian Mario Villalta nell’ultimo suo libro Dove sono gli anni (appena pubblicato da Garzanti), che con un certo «smarrimento» si è ritrovata «tra fine anni Settanta e primi Ottanta (…) a vivere qualcosa che poi la memoria – tra il prima e il dopo – non avrebbe saputo in che modo riconoscere». E tralasciando ora la prospettiva della “cronaca” o della “storia”, detto sempre con Villalta, quel che interessa e la prospettiva “letteraria”, e specificamente poetica, di questa generazione sulla “soglia”. E tralasciando la prospettiva della «cronaca» o della «storia», detto sempre con Villalta, quel che interessa è la prospettiva letteraria, e specificamente poetica, di questa generazione sulla «soglia».

Quesiti rivelatori

Sono consapevoli di un passato, accolto con adeguato ossequio reverenziale, fatto di maestri ancora saldamente novecenteschi (Zanzotto come Bertolucci, Luzi come lo stesso Montale, senza dimenticare Caproni e altri ancora) – non ‘scuole’ perché già la fine del Novecento storico, nel 1975, ne aveva in sostanza decretato la dissoluzione – gerarchie e percorsi editoriali ben acclarati, con la carta quale mezzo di trasmissione prevalente e riconoscimenti attesi da provenienze per lo più esogene.

E, con questo bagaglio più o meno ingombrante, sono altrettanto consapevoli di incamminarsi lasciando alle spalle quella soglia, continuando però a scrutarla, in un paesaggio in rapida evoluzione, a principiare dalla trasmissione della poesia, fin troppo amplificata dalla Rete (portatrice di esplosione narcisistica e furberie comunicative) e un accredito, una laurea, che nessuno più sa bene chi può assegnare, di certo giustamente non accettata per via autoreferenziale.  

E cammina, questa generazione, anche in un sentiero molto stretto dove la Poesia sembra aver smarrito non solo un ruolo ma anche un’identità, dove lo stesso sostantivo sembra svuotato di senso e troppo spesso assimilato a quel che possiamo meglio definire sentimento poetico.

Così, il principio di frammentazione incipiente al ’75 del secolo scorso diventa definitivo. Rimandando a un più analitico lavoro in corso a riguardo, mi è sembrata occasione alquanto propizia far capo alla questione appena posta con la lente bifocale di cui agli inizi di questo intervento proprio da “Dove sono gli anni” di Gian Mario Villalta, classe 1959.

Il titolo della raccolta, asseverativo certo ma che in filigrana cela quesiti ancora irrisolti, è rivelatore anche di come lo sguardo del poeta si ponga secondo un preciso punto di vista, dalla soglia per l’appunto, per poi guardare al passato della memoria cercando «dove sono tutti quegli anni» con lo sguardo in avanti. Con un’urgenza ben delineata, enunciata anche al rimpianto amico fraterno e poeta Mario Benedetti nella sezione a lui dedicata, Villalta avverte di «quanto distante è sempre stato/ per me il presente» con un’affinità, una sintonia anche poetica, oltre che umana, che porta poi il poeta a farsi portavoce, se non continuatore, dell’amico scomparso («Sono io, oggi, qui, le tue parole»).

Una riflessione a rebours compiuta nella solitudine della propria condizione per cui «resti da solo come solo sei sempre stato,/bruciata la casa che dovevi bruciare/ dove sei nato» e per la quale comprende bene di doversi affidare a un tu, maschera dell’io, per esplorare al meglio la distanza.

E lo fa con qualche incertezza («potresti così tu non essere/ più tu che lo chiedi, ti avventuri, tu/ che diventi tu che lo scrivi») forse anche perché “per dire io non c’è un altro posto/ al centro di questo suburbio/ di opinioni, di scelte”.

Questa ricerca scaturisce da una condizione che muta senza mai cambiare di fatto, «Sei diverso senza essere diventato mai altro:/ quello che la maglia a righe, che l’acqua di casa/ gorgoglia», con una eco del fancìullino pascoliano che permea quasi per intero il percorso poetico di Villalta, quella del “bambino/ pieno di luce sulle sue spalle” (“Visita” in “Vanità della mente”, una raccolta del 2011). Da questa prospettiva si genera una poesia-memoria intinta nella geografia, umana e interiore del poeta, radice formativa ancorata anche alla conformazione di un territorio aspro e duro, che si ammanta di un’impronta elegiaca sapientemente riprodotta in una lingua coraggiosa nell’adottare un lessico a tratti desueto e sorprendente, reificato e ricalibrato su rinnovati orizzonti referenziali.

Ma si palesa anche lo smarrimento già menzionato se, in fondo, confessa di non sapere «dove sono …/ tutti quegli anni».

Alla ricerca di un plus di senso

L’opera si impianta su una struttura formale solidamente geometrica, con una prima parte eponima suddivisa in 15 movimenti o stazioni, ognuno dei quali è formato da cinque componimenti proposti in continuità e da un sesto separato da una pagina «che reca il simbolo della spirale».

Ne segue una seconda, “La solitudine della specie dominante”, anch’essa geometricamente composta in tre sezioni ciascuna con 6 componimenti.

C’è un’architettura evidente in questa disposizione così studiata come se anche da questa scelta formale possa derivare un plus di senso. E, a questa disposizione, si somma un altro imponente lavorìo. È sulla lingua che Villalta concentra il massimo sforzo creativo ed espressivo.

Nella tessitura linguistica a lungo cesellata, ossessivamente perseguita, spicca un multilinguismo tutto proprio, filiazione zanzottiana senz’altro ma non solo, che caratterizza in particolare i componimenti a chiusura dei primi 15 movimenti. In queste chiuse di sezione spicca l’adozione connessa a dialettalismi e/o anglismi che rivelano il suono di una memoria di uomini e luoghi, ma anche un interrogarsi sulla musica della parola e, per certi aspetti, un tentativo di far sconfinare la propria lingua in territori limitrofi poco praticati e, per questa ragione, di ancora maggior impatto.

Per Zanzotto la poesia è non solo espressione di sé ma conoscenza attraverso l’esposizione e la riconquista di sé nella lingua. E proprio quest’ultima è quella che anche Villalta, memore del maestro, cerca di ricreare sospingendola ad estremi mirabolanti e ben riusciti di senso e suono. Ricreare la lingua da quella standard è un modo tentato per dare nuova linfa all’intera comunità degli uomini ed è bene ricordare come proprio la costante riflessione e azione in questa direzione rappresentano una ineguagliabile cifra del magistero zanzottiano, peraltro appreso e reso qui ancora molto vivo.

La parola che si fa ancora nome

Forte poi il richiamo alle figure famigliari e alla natura della sua terra friulana, sotterranei, ma neppure tanto, rivoli dell’intero percorso fin ad oggi svolto con nette suggestioni pasoliniane.

E sembra allora far gioco a Villalta quel tono elegiaco, pedale insistito di gran parte dell’opera, con una versificazione ad andamento quasi virgiliano in quella riconoscibile trama ad esametri che si vela e si rivela allo stesso tempo per l’attenzione maniacale alla forma-verso che qui si spinge, a mio avviso, con maggiore intensità, quasi rassicurante, e in maniera compiuta.

Ed è la parola poetica di Villalta a risuonare per elevare il tempo e il nostro essere nel tempo, «parole che nella testa mai smettono/ di scavare». Un fare poesia, questo di Dove sono gli anni, che mette amorosamente in contatto con il tempo già vissuto dichiarando a chiare lettere una ricerca di appartenenza, non solo con quelle figure famigliari appena ricordate che si stagliano nette quasi fossero parte del respiro ben più ampio ma con il mondo tutto.  Oggi che l’immagine prevale ormai sulla parola, quella parola che per il poeta si fa ancora nome, stordendoci oltre la decenza, la poesia (e l’arte più in generale) per Gian Mario Villalta deve assumersi la responsabilità di esplorare ancora non la stretta immanenza, non l’istante che segue l’istante ma ritrovare la parola adatta a ridonarci un più equilibrato rapporto con il proprio tempoperché da sempre il tempo venera/ la lingua mortale»).

Ed ecco perché diventa imprescindibile anche recuperare un’intima complicità con la rischiarante parola appena composta, ecco perché, confessa a riguardo Villalta, «Dopo l’invio ho spento. Volevo stare con le parole/ come una coda di cometa nel buio/ della fibra».


Immagini:

– (1) Gian Mario Villalta ©Francesco Terzago
– (2) Copertina G. Villalta Dove sono gli anni ed. Garzanti
– (4) 4 ©Elio CIol – La Sinfonia del vento, Chions 1965
– (5) 5 ©William Albert Allard – Mother daughter lanting