Trump. L’arma (a doppio taglio) dei dazi
Le misure protezionistiche promosse dal nuovo inquilino della Casa Bianca rischiano fortemente di non produrre i risultati che il presidente spera. Ma addirittura generare effetti contrari con danni vistosi sia per l’economia Usa e sia per l’economia globale. Per quattro motivi. Questione già tutta scritta nella teoria economica di Ricardo e nella storia degli Stati Uniti. Nella stagione drammatica che portò al crollo del ’29 e prima del New Deal con l’iniezione del ricostituente keynesiano.
14 marzo 2025
USA. L’incredibile politica economica
di Gianfranco Fabi

“Alzare un sasso per lasciarselo cadere sui piedi”. Una delle più note massime di Mao calza a pennello per giudicare le prime mosse del neo-presidente americano, fatte di annunci e di scelte operative, con i dazi per ora per Canada, Messico e Cina, e contrassegnate comunque da tanta velleità e scarsa valutazione dei rapporti causa/effetto.
Per l’Unione europea Trump ha annunciato che imporrà tariffe doganali del 25 per cento. Un annuncio ancora privo di dettagli: i dazi, ha detto, saranno applicati “sulle auto e su tutto il resto”. Un annuncio che è sembrato rispondere più a una tattica di comunicazione che ad una strategia di politica economica magari nel solco degli obiettivi MAGA (Make America Great Again).
Ma gli effetti rischiano di essere il contrario di quanto enfaticamente proclamato. Per quattro ragioni.
La prima.
I dazi sulle importazioni fanno ovviamente aumentare i prezzi dei beni interessati con effetti negativi sull’inflazione interna. Gli agricoltori americani vedranno aumentare del 25% il costo dei fertilizzanti canadesi e non potranno che aumentare i prezzi dei loro prodotti. E l’inflazione non è una bella cosa soprattutto per chi cerca il consenso popolare.
La seconda.
È inevitabile che i paesi interessati rispondano con la stessa moneta (come hanno fatto immediatamente Messico e Canada) con effetti quindi di frenata sulle esportazioni Usa e quindi sull’andamento della stessa economia statunitense.
La terza.
Le grandi multinazionali americane sono controllate finanziariamente dalla madre patria, ma possono avere la sede in Irlanda, i centri di ricerca in India, la produzione in Germania: imporre dazi non fa che danneggiare queste catene del valore.
La quarta.
Gli europei sono, insieme alla Cina, grandi possessori di attività finanziarie americane: dai bond governativi che finanziano il debito pubblico, ai fondi di investimento, dalle azioni quotate a Wall Street fino alle monete virtuali chiamate anche bitcoin. Un freno a questo flusso di denaro (più di 13mila miliardi di dollari nel 2023) metterebbe in crisi tutto il sistema finanziario Usa. E questo potrebbe avvenire anche senza una decisione politica, ma per scelte spontanee di piccoli o grandi operatori finanziari come è avvenuto con il crollo delle vendite delle auto elettriche Tesla di Elon Musk nei primi mesi di quest’anno.
La realtà complessa del mercato globale: il caso dell’automotive
Ecco quindi che l’aggressività di Trump sul fronte del commercio non tiene conto di un sistema economico globale che peraltro non è fatto solo di scambio di beni, ma anche, e sempre di più, di servizi e di prodotti virtuali come il software o i programmi tv tipo Netflix.
La realtà del mercato globale è peraltro evidente proprio nel settore automobilistico, un settore in cui gli intrecci sovranazionali sono particolarmente rilevanti, sia nel campo della componentistica che dei prodotti finali. La presenza di fabbriche di auto straniere negli Usa è significativa.
Toyota e Honda hanno decine di stabilimenti sparsi in molti stati così come le coreane Hyunday e Kia. La Bmw ha un grande impianto (più grande di quelli europei) a Spartanburg in Nord Carolina dove sono prodotti i Suv che vengono esportati anche in Europa e nel resto del mondo. Mercedes produce a Tuscaloosa in Alabama. E Stellantis può contare sul marchio e gli impianti della Chrysler acquisita dall’allora Fiat nel 2014. Ma tutti questi impianti, così come le stesse grandi case americane, lavorano sulla base di componenti provenienti dall’estero e in particolare da Messico e Canada oltre che dalla Cina. Forse bisognerebbe che qualcuno spiegasse a Trump che anche gran parte delle auto prodotte in America costeranno di più a causa delle sue restrizioni al commercio.

L’economista David Ricardo e la teoria del vantaggio comparato
E sarebbe utile anche utile ricordare al presidente americano qualche elemento fondamentale della teoria economica insieme agli insegnamenti della storia più o meno recente. Sul fronte della teoria economica poco più di duecento anni fa, era il 1817, un famoso agente di Borsa dal nome di David Ricardo, pubblicava la sua opera principale: “I Principi di Economia Politica e dell’Imposta”.
Un’opera in diretta contestazione delle teorie, sostenute in particolare da Thomas Malthus, sull’esigenza di alzare barriere protezionistiche per difendere le produzioni agricole nazionali. Ricardo sviluppò la teoria del vantaggio comparato che è rimasta e rimane l’argomentazione principale dei sostenitori della libertà del commercio tra i diversi paesi.
La teoria del vantaggio comparativo sostiene infatti che le forze di mercato spingono tutti i fattori di produzione verso il loro migliore utilizzo. Per questo la libertà del commercio internazionale costituisce un vantaggio per tutti i paesi: ognuno può aumentare la propria produzione interna e accrescere importazioni e consumi (e quindi benessere per i propri abitanti) specializzandosi nei settori in cui vi è maggiore redditività. Un esempio classico di vantaggio comparato può essere visto nel commercio tra due paesi: prendiamo per ipotesi il Portogallo e la Gran Bretagna. Il Portogallo è più efficiente nella produzione di vino e la Gran Bretagna nei prodotti tessili. Entrambi i paesi potrebbero produrre i due beni ma il costo opportunità di produrre vino in Portogallo è maggiore rispetto alla Gran Bretagna. Attraverso il commercio, entrambi i paesi possono godere di più vini e prodotti tessili di quanti ne potrebbero produrre e vendere individualmente.

Rischio di un calo pesante del Pil mondiale
Guardando alla storia americana cent’anni dopo Ricardo, alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, sembra di leggere in controluce quanto sta avvenendo in questo periodo. Negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, l’amministrazione democratica aveva infatti stabilito un sistema di dazi particolarmente bassi, ma nel 1922 la nuova maggioranza repubblicana al Congresso (anche se Trump non era ancora nato) approvò il Fordney-McCumber Tariff Act (dal nome dei suoi promotori) che prevedeva un aumento della tariffa media sui beni importati di ben il 64%. In un primo tempo l’economia Usa sembrò risollevarsi, ma quasi all’improvviso arrivo la più famosa e grave crisi dell’economia moderna, la crisi del ’29. La recessione senza precedenti contribuì alla spinta a un nuovo rialzo delle barriere commerciali, nella speranza che una maggior protezione doganale potesse favorire la ripresa dell’economia americana. Nel giugno del 1930 il Congresso approvò lo Smoot-Hawley Tariff Act, che nella sua versione finale innalzava ulteriormente i dazi su ben 887 merci.
La tariffa media sui prodotti importati venne alzata di un ulteriore 16% rispetto a quella già molto alta del 1922 e raggiunse il livello più alto negli Usa dal 1830. Gli effetti non furono quelli sperati, la crisi si aggravò fino alla svolta di Franklin D. Roosevelt con il suo “New Deal”, una politica keynesiana di forte spesa pubblica, di spinta alla fiducia della popolazione e di progressiva apertura ai commerci.
L’esperienza storica dimostra ampiamente come le politiche protezionistiche di un paese portano rapidamente a risposte altrettanto protezionistiche di chi viene colpito dai dazi. Con un processo di progressive chiusure che non possono che causare una sempre più grave crisi economica.
Secondo Valdis Dombrovskis, commissario europeo agli Affari economici, i dazi di Trump non solo sono ingiustificati, ma potrebbero provocare una recessione di portata storica: “C’è il rischio che si verifichi una frammentazione economica globale e che il Pil mondiale possa calare del 7%”.
I dazi quindi non aiuteranno nemmeno un’economia americana che all’inizio di questo 2025 sta mostrando i primi evidenti segni di rallentamento. L’inflazione rimane elevata, i tassi di interesse restano alti, la disoccupazione riprende la corsa, la crescita sembra rallentare. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno il Pil è cresciuto del 2,3% rispetto al 3,1 del trimestre precedente.
“Potremmo avere qualche piccolo problema nel breve termine, ma la gente lo capirà” ha affermato recentemente il presidente. Ma i problemi non sono solo quelli delle eccessive importazioni e quindi del passivo della bilancia commerciale. A complicare le cose ci sono fattori interni, come l’influenza aviaria che ha costretto a sacrificare milioni di galline con i prezzi delle uova, un elemento essenziale nell’alimentazione all’americana, schizzati in alto. O come le migliaia di disoccupati in più per i tagli al personale delle amministrazioni federali.

Il vero incubo si chiama Cina
Il precedente quadriennio di Trump alla Casa Bianca non è ricordato come un periodo di grandi successi, pur tenendo conto che l’ultimo anno è stato condizionato dalla pandemia. Anche allora tuttavia i dazi sono stati insieme i cavalli di battaglia e l’arma spuntata del presidente fin dai primi giorni del suo mandato. Allora non hanno sconvolto l’economia né quella americana, che ha continuato a veder crescere il debito pubblico, né quelle della Cina e dell’Europa, condizionate dagli effetti sempre più evidenti del calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione. E dimostrando tuttavia che il vero fattore di crescita, in qualità e quantità, è l’innovazione in tutte le sue forme. E su questo fronte la Cina sta muovendo grandi passi. E infatti proprio Pechino è il vero fronte aperto che turba i sonni del nuovo inquilino della Casa Bianca.