Splendore e decadenza delle partecipazioni statali

Quella delle aziende italiane sotto il controllo pubblico è una storia di poche luci e molte ombre. Di sopraggiunte criticità con il boom fuori controllo dei debiti. Ma non è sempre stato così. C’è stato un tempo, specie dopo la Seconda Guerra Mondiale, dove una certa lungimiranza dovuta all’intuizione di due grandi economisti Alberto Beneduce e Donato Menichella ha permesso la formazione di un sistema di partecipazioni statali sotto il controllo dell’Iri che determinava la nascita del cosiddetto “Miracolo italiano”. Poi la progressiva decadenza. L’esplosione del debito pubblico. Le privatizzazioni monche. L’interesse spasmodico della politica. La soluzione più ragionevole? Una buona volta lo Stato dovrebbe uscire dalla gestione delle imprese ed esercitare solo il ruolo fondamentale di garante.


21 giugno 2024
Stato “prenditore”
di Gianfranco Fabi

C’è stato un periodo, in particolare negli anni ’70, in cui la vita quotidiana degli italiani si incrociava tutti i giorni con le aziende di Stato. La spesa quotidiana era acquistata nei supermercati Gs e molte marche alimentari (Alemagna, Bertolli, Cirio, Mellin, Motta, Star, Pavesi, De Rica, Surgela) facevano capo alla Sme del gruppo Iri. Per telefonare era obbligatorio servirsi di una società del gruppo Stet. Le banche erano in gran parte pubbliche, sia le grandi banche di interesse nazionale (Credito Italiano, Banco di Roma, Banca commerciale italiana), sia le Casse di risparmio diffuse sul territorio. Per l’automobile completamente pubblica era l’Alfa Romeo, ma anche chi acquistava una Fiat sapeva l’acciaio era prodotto dalla Finsider. Per far benzina c’era l’Agip controllata dall’Eni che era entrata anche nel settore dell’informazione con il quotidiano “Il giorno”. Per viaggiare non c’erano alternative alle aziende di Stato si poteva andare sulle Autostrade o usare l’aereo (Alitalia) o il treno non ancora ad alta velocità, ma già allora (Ferrovie dello Stato) a totale controllo pubblico come dice il nome. La Posta dipendeva addirittura da un ministero apposito. E per la televisione si poteva scegliere tra primo e secondo canale, entrambi comunque della Rai. Il mondo delle partecipazioni statali non si faceva mancare nulla. C’era Finmeccanica che controllava molte imprese nel settore della difesa. E c’erano conglomerate diventate con gli anni il simbolo dei rapporti perversi tra politica ed economia. Si tratta dell’Efim (Ente partecipazioni e finanziamento industria manifatturiera) e della Gepi (Società per la gestione e partecipazione industriali) che acquisirono numerose piccole e medie aziende destinate al fallimento nei settori più diversi, dai surgelati all’alluminio, dagli elicotteri al vetro, dalle locomotive all’armamento ferroviario. Senza dimenticare le Terme e le acque minerali di Recoaro. La logica era quella di salvare i posti di lavoro sotto la spinta congiunta di partiti e sindacati. Con una spartizione politica alla luce del sole: le grandi industrie e le banche erano controllate dall’Iri, la cui guida spettava tradizionalmente a un democristiano, mentre l’Eni era un feudo socialista e per l’Efim era indicato un presidente di area socialdemocratica.

L’incontrollata esplosione dei debiti

Gli anni ’70 hanno rappresentato la parte più alta della parabola delle partecipazioni statali, una parabola avviata all’inizio degli anni ‘30 del secolo scorso e che ha visto progressivamente una crescita come entità economica e controllo politico, ma insieme per inefficienza economica ed infine per incontrollata esplosione dei debiti. E proprio negli anni ’70 è iniziata la progressiva ritirata del controllo pubblico, una ritirata prima lenta e che ha avuto un’accelerazione negli anni ’90 con l’emersione delle distorsioni di una politica che non aveva esitato a spingersi nel sistema della corruzione e delle tangenti.

Eppure, può sembrare paradossale, ma ai tempi della prima guerra mondiale furono tre economisti di provata fede liberale a proporre un diretto intervento dello Stato nel controllo delle attività economiche, soprattutto, a quel tempo, nel settore militare. Maffeo Pantaleoni scrisse nel 1915 un articolo con un titolo senza compromessi: “Lo Stato azionista”. Il giovane Luigi Einaudi l’anno dopo sollecitò la nazionalizzazione delle industrie militari. E nel 1917 Pasquale Jannaccone spiegò come solo il controllo dello Stato sull’industria siderurgica avrebbe potuto garantire una più sana gestione coordinando gli investimenti nelle miniere, nei trasporti, nelle linee ferroviarie, nella politica fiscale e doganale.

La vera svolta avvenne tuttavia all’inizio degli anni ’30 soprattutto a causa della crisi economica che da Wall Street si era rapidamente allargata a tutto il mondo, una crisi che si soprapponeva a quella italiana la cui struttura economica, anche se ancora caratterizzata da un vasto settore agricolo, non era ancora uscita dalle ricadute della guerra.

Alle basi del “miracolo economico”

Il forte intreccio tra banche e industrie aveva progressivamente, ma rapidamente portato sull’orlo del fallimento l’intero sistema economico. Si deve a due grandi economisti, come Alberto Beneduce e Donato Menichella, l’avvio di un sistema di partecipazioni statali con al centro l’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, un sistema che, pur con imponenti finanziamenti statali, garantiva comunque il rispetto delle regole di un’economia di mercato, aperta, fin dove possibile, alla libera iniziativa e alla concorrenza.

Furono scelte lungimiranti perché sono state alla base anche della ricostruzione del Secondo Dopoguerra negli anni passati alla storia come quelli del “miracolo economico”. “L’impresa pubblica – osserva Sandro Trento ne “Il capitalismo italiano” ed. Il Mulino – ebbe una sua stagione dell’oro che assicurò al paese risultati eccellenti in termini di sviluppo di settori importanti dalle telecomunicazioni, all’energia, alla siderurgia, alle autostrade”.

Privatizzazioni virtuose a metà

L’era delle privatizzazioni ha avuto il suo culmine tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso quando iniziò un rapido e spesso confuso declino sotto la spinta di tre fattori: 1) la gestione delle imprese sotto il controllo diretto della politica si stava allargando senza una strategia moltiplicando l’inefficienza e le scelte clientelari; 2) il debito stava crescendo sempre più velocemente sotto la spinta di una spesa pubblica fuori controllo; 3) il divieto di aiuti di Stato da parte dell’Unione europea imponeva una razionalizzazione delle partecipazioni statali per salvaguardare concorrenza e mercato unico.

Ci sono state privatizzazioni almeno in parte virtuose, come quelle delle grandi banche e delle casse di risparmio, e privatizzazioni “cattive”, come per le telecomunicazioni e le autostrade che hanno dato un buon gettito finanziario allo Stato, ma che hanno dato luogo a speculazioni e benefici tutti privati.

Le grandi banche hanno aperto la strada ad un azionariato diffuso mentre la creazione delle fondazioni bancarie, grazie alle scelte di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, ha permesso di salvaguardare la presenza e le iniziative sociali nei territori restituendo alle ex Casse di risparmio una libertà di azione che ha facilitato la nascita di grandi gruppi di livello europeo come Banca Intesa e Unicredit.

Per tante altre realtà la politica non è riuscita, se mai ci ha tentato, a far compiere un vero salto di qualità alle imprese interessate. Pensiamo alle Autostrade con la tragedia del ponte Morandi, alla siderurgia con le vicende senza fine dell’Ilva di Taranto, all’Alitalia con la continua altalena tra pubblico e privato, alla Rai sempre soggetta al controllo dei partiti.

Uno Stato di garanzia

Anche l’attuale governo di destra-centro parla di privatizzazioni, ma è semplicemente un’illusione. L’obiettivo sarebbe infatti quello di ricavare venti miliardi in tre anni dalla cessione di partecipazioni in aziende in cui lo Stato possiede la maggioranza del capitale. Ma di vero passaggio dal controllo pubblico a quello del mercato c’è solo (forse) il caso del Monte dei Paschi di Siena. Per gli altri grandi gruppi pubblici, dall’Enel all’Eni, dalle Poste a Leonardo, si prospetta solo la cessione di piccole quote tali da non compromettere il controllo pubblico.

E’ quest’ultimo il grande tallone d’Achille dell’attuale politica industriale.

L’interesse dei cittadini-consumatori non si dovrebbe fare garantendo il controllo dei partiti sulle nomine di presidenti e consiglieri di amministrazione, ma assicurando un confronto aperto in un mercato efficiente in un mercato in cui lo Stato non dovrebbe avere compiti di gestione, ma di garanzia perché non si creino situazioni di monopolio e privilegi.