Silvia Avallone: “Dobbiamo perdonare il fatto che non tutto si aggiusta”

Un grande romanzo: “Cuore Nero” (Rizzoli). Una trama forte, i personaggi che sono cambiamenti e non definizioni. Il male, la disperazione, la solitudine, la relazione, “la complessità di male irreparabile e di ricostruzione del bene. Emilia è figlia, fidanzata, ragazza talentuosa, non solo ex detenuta”. Parla l’autrice Silvia Avallone. Che ci porta dentro a una storia dove l’abisso non è l’ultima parola. Perché nel libro c’è una parola che pulsa, libera sempre: perdono.


4 ottobre 2024
Orizzonte letteratura
Conversazione con Silvia Avallone a cura di Nicola Varcasia

Silvia Avallone è una delle più importanti scrittrici italiane. Dal clamoroso successo di “Acciaio, nel 2010, a “Cuore Nero” (Rizzoli, nella collana La Scala), uscito qualche mese fa, i suoi romanzi appassionano, colpiscono e fanno “pensare al largo”, come amiamo dire a .CON. Il nostro dialogo con l’autrice ruota attorno alla parola perdono. Una parola nascosta, oggi sottaciuta e quasi perseguitata che, invece, in “Cuore Nero”, è centrale.

Come si è avvicinata alla scrittura?

Mi sono appassionata appena ho cominciato a leggere, alle elementari, soprattutto attraverso la poesia. “Novembre di Pascoli è stata la mia prima folgorazione letteraria. Dopo averla imparata a memoria ho scritto la mia prima poesia e, da lì, non ho mai smesso di leggere e di scrivere.

Quando invece ha capito che sarebbe diventata una professione?

Non l’avevo mai pensato, finché non mi sono ritrovata a scrivere “Acciaio, nello studentato Morgagni di Bologna, a due esami dalla laurea e la tesi. Improvvisamente, ho pensato che valesse la pena rischiare il sogno folle. Anche perché il sogno normale di insegnare italiano alle superiori era ugualmente molto complicato per una studentessa fuori sede come me, arrivata in città grazie a una borsa di studio. A cominciare dalla scuola di specializzazione.

Così ha preso il coraggio a due mani.

Ho pensato: mi gioco il tutto e per tutto, al massimo torno in provincia e mi ricostruisco. Però, intanto, ci provo. Quindi, con una foga emotiva non indifferente ho scritto “Acciaio”. Dalla sua pubblicazione in poi, è nato un percorso che non avrei mai immaginato prima.

E la laurea in lettere?

L’ho presa dopo l’uscita del libro, che ho accompagnato per un anno in giro per l’Italia. Poi sono tornata a Bologna, non più nello studentato, ma in un appartamentino preso in affitto con il mio futuro marito. Avevo capito che era il momento di tornare coi piedi per terra e rimettersi a studiare.

Passiamo dalla sua storia alla cronaca. I due recenti casi di Paderno Dugnano e Traversetolo ricordano l’Emilia di “Cuore Nero”. Giovani autori di delitti, in apparenza senza movente, sopravvivono al male commesso e si ritrovano in cella.

Io sono molto felice se il personaggio di Emilia può risultare uno strumento per avvicinarsi alla lettura della realtà. Uno dei tanti, però. “Cuore Nero e i suoi personaggi non nascono dalla lettura di articoli o dalle notizie dei telegiornali. È molto difficile riuscire a raccontare una storia nella sua complessità a caldo, di fronte a qualcosa che è appena accaduto. Servono tempo, una conoscenza profonda, anni. La cronaca lavora sulla pancia, la paura, lo sconcerto. Tutti sentimenti umani, naturali che, però, non ci aiutano e devono anche esaurirsi presto.

Perché?

Perché poi l’umanità ha bisogno di una consapevolezza profonda, di un lavoro di scavo e di ascolto diverso, che chiama in causa tutta l’anima, tutto il cuore e anche la testa.

Da dove nascono, allora, “Cuore Nero” ed Emilia?

Dalla letteratura, dalle letture del liceo, come i “Promessi Sposi o “Delitto e Castigo. Cioè da romanzi che funzionano al contrario dei giornali. I media hanno sempre bisogno di dare una definizione, di raccontare l’istante. Invece, la letteratura vuole prendersi tutto l’orizzonte. Pensiamo a Fra’ Cristoforo, il personaggio schiettamente più buono e più generoso del romanzo. Eppure, è stato un assassino. Diciamo è stato, non è. Leggendo a 15 anni i “Promessi Sposi ho capito per la prima volta quanto fosse complessa una persona e quanto tutti noi siamo storie, non momenti. Cambiamento, non definizioni.

Senza spoilerare troppo, come ha fatto a immaginare che il cammino di Emilia potesse ripartire da un padre che non la molla?

Anzitutto, bisogna sempre portare il male a sé, perché è una possibilità che abbiamo tutti. Il male non appartiene ai mostri, è parte di noi, così come il bene. Non è facile affrontare i lati più oscuri della nostra interiorità per risolverli o addomesticarli, specialmente in una società come la nostra, dove si dà un grande credito all’esteriorità. Ma noi siamo anzitutto interiorità. Il bene richiede altruismo, lungimiranza, coraggio: bisogna aiutare ed educare al bene, uscire dalla solitudine e cementare la solidarietà. Il male è la scelta più banale. È così facile lasciarsi prendere dalla rabbia, dal rancore, dall’invidia, da tutto ciò che ci porta verso il basso e l’immiserimento. Quella pancia di cui parlavamo prima è molto potente.

Dorothea LAnge Washington Yakima Valley vicino a Napato uno dei bambini di Cghris Adolph parte del progetto FSA

Anche Emilia compie il suo gesto in preda a un sentimento del genere.

La sua disperazione proviene da un senso di solitudine, di non risolto, di chiusura verso gli altri, dal non cercare aiuto. Sono tutte azioni banali, sbagliate, che comunque fanno parte di una realtà con cui ognuno di noi deve fare i conti. Perciò, quando ho desiderato confrontarmi con il Male, quello con la M maiuscola, ho cercato di portarlo vicino a me attraverso la scelta di una ragazza. Avevo bisogno di un personaggio da sentire amico e che mi portasse a non avere paura di lei mentre scendevo dentro il suo abisso. Io stessa ho raccontato Emilia senza sapere fino alla fine cosa avrebbe compiuto esattamente.

Perché?

Non volevo farmi prendere la mano dalla paura e dal giudizio, fermarmi solo alla colpa dei suoi sedici anni, ma tenere insieme la sua evoluzione, la complessità di male irreparabile e di ricostruzione del bene. Emilia è figlia, fidanzata, ragazza talentuosa, non solo ex detenuta.

Tornando a suo padre?

Sapevo che una parte di lei – una cicatrice rimarrà sempre – si sarebbe salvata grazie al fatto che suo padre non l’ha mai abbandonata. Io penso, anche da genitore, che sia questo il nostro ruolo: uno stare accanto che significa accompagnare verso la libertà i nostri figli. Non giustificare l’errore o l’orrore che possono compiere. Non aver paura del male che hanno provocato. Ma prendercene carico nella misura che ci spetta in quanto genitori, anche se a volte sembra di portare una croce enorme. Perché Riccardo [il padre di Emilia, ndr] non merita la croce che porta, però la porta. E questo si chiama amore.

Bruno, l’altro personaggio principale di “Cuore Nero, che è anche l’io narrante, a un certo punto si chiede: «Che cos’è il male? Non saper perdonare». Che cos’è per lei il perdono?

Quando Bruno, dopo aver accolto la confessione di Emilia, pensa a questa frase, sta in qualche modo commentando quello che già aveva detto lei. Cioè aver compiuto il male perché non ha saputo perdonare né la vita, che le ha tolto la madre, né se stessa, per essere stata vittima di bullismo, ragion per cui non si piaceva. A 16 anni non si è ancora adulti ed è molto difficile riuscire a perdonare se stessi e la vita. Però vale per tutti.

In che senso?

Dobbiamo perdonare il fatto che non siamo le persone che vorremmo, che abbiamo delle crepe, degli abissi. Perdonare la vita che ci ha tolto delle persone care o che non ci ha permesso di realizzare alcuni desideri. Perdonare il fatto che non tutto si aggiusta. È difficile, però è la base per riuscire a essere davvero felici di essere qui, nel mondo. Ogni ulteriore perdono, secondo me, nasce da questo.

Ma non tutto è uguale.

Certo, alcune persone si ritrovano a dover perdonare qualcosa di enorme e io, di fronte a quelle enormità, da scrittrice, nutro rispetto, mi metto in ascolto. Non ho delle soluzioni, cerco sempre di portare le questioni vicino a me. I nostri genitori, compagni e figli non devono essere quello che noi vogliamo, devono essere amati per ciò che sono, con tutti i loro difetti, con ciò che non ci piace e non ci piacerà mai di loro. L’amore è questo perdono.

Un altro che riesce ad accogliere Emilia è il Basilio, un maestro molto sui generis. Chi è per lei?

Mi piace ricordare che Emilia si salva grazie a tre uomini: suo padre, Bruno e, appunto, il Basilio. Tre uomini che si prendono cura di una donna in una maniera enorme, vasta e coraggiosa. In questa cura io vedo il loro più grande insegnamento. Quindi, se devo pensare a dei maestri di vita, non solo di scrittura, penso alle persone che mi hanno accolta e insegnato questa accoglienza.

Ad esempio?

Non saprei da dove cominciare: i miei genitori, le insegnanti di scuola. Più di recente, le tante persone amiche che ho incontrato per scrivere “Cuore Nero”, come le educatrici, le assistenti sociali e le insegnanti del carcere minorile di Bologna. Io sono stata anche molto fortunata nelle amicizie, nell’aver avuto accanto, sin dal liceo, delle persone con cui poter parlare sempre a cuore aperto, senza mai dover recitare, nascondermi o far finta che va tutto bene.

Anche nel libro è presente l’insegnamento dei pari.

Noi ci salviamo soltanto dentro una relazione di fiducia, in un incontro autentico con gli altri. Nella solitudine nessuno si salva, soprattutto se si sente ripetere che tanto è un fallito. Vale a maggior ragione per persone come l’amica Marta, nate nella famiglia o nella periferia sbagliata. Persone che da quando vengono al mondo si sentono ripetere che il loro è un destino di marginalità. Nessuno può crescere senza una mano tesa, senza persone che ti guardino e dicano: “C’è del buono in te, facciamolo fiorire. Impegniamoci. Anche tu meriti un posto nella nostra società. Al centro. Non ai margini”. I margini non dovrebbero esistere.

Dorothea Lange Migrant Mother 1936

Quanto c’entra Dio in “Cuore Nero”?

Io non sono credente, nello stesso tempo, però, mi piacerebbe esserlo e quindi tengo sempre la porta aperta. Mi piace scoprire, cambiare, sapere di non sapere. Amo lasciarmi prendere e sorprendere dalle tante cose che possono accadere. Di sicuro, ho un senso molto alto del sacro della vita umana, ma anche del mondo, dell’essere qui. Questo è un prodigio grande e davvero nessuno di noi lo deve sprecare. Sicuramente “Cuore Nero si apre tanto a una dimensione religiosa anche perché, di fronte a certe domande sul bene e sul male, non possiamo accontentarci del qui e ora. Dobbiamo aprirci a un mistero più grande, a un orizzonte più vasto.