Silvano Petrosino: “L’unica cosa che si può perdonare è l’imperdonabile”
Parlare di perdono rischia di essere un tema assai scivoloso. Che potrebbe trascinare a una sfilata di luoghi comuni e, quando va bene, buone intenzioni. Come succede quando si parla di pace. “Perdonare l’imperdonabile” è la vera sfida per l’umano davanti alle vicende della vita molto serie. Per il resto è sufficiente parlare di scuse
18 ottobre 2024
Una parola da liberare
Conversazione con Silvano Petrosino a cura di Nicola Varcasia

Silvano Petrosino è un professore di filosofia, filosofo egli stesso. Grande studioso di autori come Levinas, Derrida e Lacan. Ha riflettuto molto sul tema dell’abitare e sulla natura del linguaggio. Con grande disponibilità e gusto del paradosso, ha accettato di riflettere con .CON sulla parola perdono, proseguendo idealmente la discussione inaugurata nello scorso numero 55 con la scrittrice Silvia Avallone.
Professore, dove alberga, oggi, la parola perdono?
Su questi temi bisogna stare attenti perché sono molto scivolosi, pieni di luoghi comuni e di buone intenzioni. Nessuno è contro il perdono, ci mancherebbe, ma non bisogna farsi prendere dall’entusiasmo e dalle buone intenzioni. Anzi, più i temi sono caldi, più è necessario uno sguardo freddo.
Come sulla pace?
Possiamo partire anche da qui. Non c’è dubbio: non c’è alternativa alla pace, perché l’alternativa alla pace si chiama guerra. Siamo tutti d’accordo. Se c’è una possibilità per l’uomo, in generale, è quella di vivere nella pace. E non c’è dubbio nemmeno sul fatto che il fondamento della pace sia la giustizia.
È un attimo dopo che iniziano i problemi?
Certo, anche l’insistenza sulla giustizia si trasforma spesso in un lugo comune, che peraltro, proprio perché “comune”, esprime una certa verità. Eppure, l’esperienza c’insegna che l’ingiustizia esiste: l’altro ti fa un torto e tu fai un torto all’altro. Tutta la questione, se si vuole essere seri, è capire perché – e quando – il perdono aiuta o permette di superare l’ingiustizia.

Quali sono le condizioni?
Anzitutto, bisognerebbe essere molto più cauti nell’uso del termine “perdono”. Non sempre è necessario ed utile fare riferimento ad una nozione così nobile ma al tempo stesso anche così densa e complessa.
Ad esempio?
Per intendersi, se mi dovevi 10 euro o hai usato male la mia moto è inutile tirare in ballo la parola perdono, basta dirsi: “Va beh, lascia perdere”, “Non insistere”; la nostra quotidianità è ricca di questi episodi minimi, se così mi posso esprimere, ed è stupido complicarsela tirando ogni volta in ballo il perdono.
Ma quando i fatti sono gravi?
A questo livello, più profondo, sono interessanti le lezioni di Derrida e anche di Jankélévitch. Il perdono è solo dell’imperdonabile, scatta e rivela tutta la sua la sua gloria e la sua grandezza di fronte all’imperdonabile. L’unica cosa che si può perdonare è l’imperdonabile, altrimenti è sufficiente parlare di scuse. È di fronte all’imperdonabile – “tu hai ucciso mio figlio” – che scatta la questione. Gli Hutu e i Tutsi hanno sterminato i figli l’uno dell’altro. Qui non si può più dire “lascia perdere”. Se hai ucciso mio figlio, io non lascio perdere; è inutile che mi si dica “dai, forza, coraggio”.
Se non è questione di buoni sentimenti o di coraggio, allora cos’è?
Qui arriviamo alla radice della questione. Avanzo questa ipotesi: nel perdono non trasformo il torto che tu mi hai fatto nel criterio di giudizio con cui guardo tutta la nostra storia.
Nel concreto come può accadere?
Prendiamo l’esempio più semplice, ovviamente per modo di dire. Un tradimento tra marito e moglie. Si tratta di un’esperienza dolorosissima, tra persone adulte che hanno scelto di vivere la vita insieme. Il perdono consiste esattamente nel non trasformare quel tradimento nella lente con cui guardare e giudicare tutta la storia vissuta prima e quella che verrà dopo. Altrimenti, non resta che l’opzione: “io ti distruggo, ti devo distruggere”.
Chi ci aiuta in questo?
C’è una frase formidabile del profeta Isaia: “Non ho detto alla discendenza di Giacobbe: cercatemi in un’orrida regione” (45:19-21). In realtà qui è Dio che parla – le Sacre Scritture sono piene di preghiere che Dio rivolge all’uomo – e dice: ti prego, non cercarmi in un’orrida regione.
Perché?
Se lo cerchi nell’orrida regione non puoi che maledirlo. È come se Dio dicesse: “Ricordati che io ti ho messo in un giardino”. L’orrida regione è il deserto di Gesù quando viene tentato o quando si trova nell’Orto degli ulivi. Ed è lo stesso deserto che tutti noi incontriamo, ad esempio, per ritornare a ciò che dicevamo più sopra, quando siamo traditi da nostra moglie o da nostro marito, ma anche da una nostra amica o da un nostro amico.

Che indicazione ne traiamo?
Attenti a non trasformare l’ingiustizia e la sofferenza subite in una giustificazione per compiere il male. Resistere a questa tentazione è molto difficile, ma quando ciò accade si è un po’ come in paradiso: chi è in grado di perdonare l’imperdonabile, ad esempio di perdonare colui che gli ha ucciso il figlio, finisce per trovarsi, magari senza neanche saperlo, quasi in paradiso. Vista in senso astratto, la questione che si agita al fondo del perdono mi sembra essere questa.
Nella vita concreta?
Ci sono delle situazioni in cui il contesto aiuta a sostenere l’insostenibile. Nel caso di prima, i figli potrebbero aiutare, magari arriva il sincero pentimento del partner, e poi ci sono gli amici e così via. Ma, rispetto all’uccisione del figlio o di altre ingiustizie gravi, tutto resta molto complicato.
Qual è l’alternativa?
Logicamente, non c’è alternativa al perdono. Altrimenti non resta che la vendetta: se tu hai ucciso mio figlio, io uccido tuo figlio o ti uccido. È il grande tema della vendetta come tentativo di raggiungere un po’ di giustizia nell’ingiustizia. Coloro che subiscono un’ingiustizia di solito dicono “Deve pagare”, un’espressione perfetta perché dà un po’ di sollievo. Certo, è illogico, e soprattutto non serve a nulla, ma la logica follia che alimenta la vendetta non deve essere ridicolizzata. Si tratta, per l’appunto, di una follia, ma al tempo stesso anche di una logica.
Questo perdono può essere una virtù laica?
Può esserlo, nella misura in cui una persona ha la percezione, l’intelligenza, il cuore e l’audacia di cogliere il mistero che è la vita. La morte è un grande mistero, ma non ha confronto con il mistero della vita. Solo che non ce ne rendiamo conto, perché per noi la vita e l’esistenza sono del tutto ovvie. Chiunque di noi, credente o non credente, tende a non stupirsi più della vita. Come ho letto di recente, noi ci chiediamo sempre il perché del dolore, ma non ci interroghiamo mai sul perché della gioia.
Lei ha studiato il tema della struttura dell’uomo come desiderio. Che legame c’è con l’esigenza di un perdono per se stessi?
Tutti attendiamo di essere amati, riconosciuti, perdonati. Chi lo negherebbe? Al tempo stesso, bisogna riconoscere che questo desiderio è un’attesa che non deve trasformarsi in una pretesa. Anche se non sono amato, non devo maledire la vita.
Siamo una società che cova il rancore?
Ciò che ha colpito il centurione sotto la croce di Gesù, probabilmente, è stato il fatto di vedere qualcuno che, nella sofferenza, nella solitudine e nell’ingiustizia continuava a benedire. Gesù avrebbe avuto tutti i motivi per maledire. Addirittura, il padre. Perché in croce era solo. Come tutti noi di fronte alla morte. Eppure, Gesù continua a perdonare, a consolare le donne che incontra sulla via dolorosa e a consegnare sua madre e Giovanni l’uno all’altra. Al ladrone dice di non preoccuparsi e gli promette il Paradiso, con un gesto che include anche l’altro che lo insultava.
Tutto quasi impossibile anche da dire.
Citando Lacan, rimango dell’idea che, in senso rigoroso, il desiderio dell’uomo non sia niente di nominabile. In questo senso, così almeno credo, il desiderio dell’uomo va al di là dello stesso desiderio di riconoscimento, dello stesso desiderio di essere amato.

La categoria del perdono potrà mai ritrovare spazio nei conflitti di oggi?
Lo dicevamo all’inizio, non c’è alternativa alla pace, ma bisognerebbe evitare di cadere nella trappola untuosa che circonda questa incredibile parola arrivando così a soffocarla e a renderla irriconoscibile. Lévinas, famoso in tutto il mondo per essere il filosofo dell’alterità e dell’etica, a un certo punto dice che l’altro è l’indesiderabile.
Che cosa intende?
È facile, anzi conveniente, ospitare chi è sano, giovane, intelligente, preparato e magari anche bello; molto più difficile è ospitare chi non lo è. Bisogna riconoscere che vivere con l’altro è difficilissimo, proprio perché nella maggior parte dei casi egli smentisce, o forse meglio smaschera, con insistenza l’immagine che ci siamo fatta di lui. E allora che cosa facciamo, ci uccidiamo? Bisogna imparare a vivere, a convivere, con l’indesiderabile. L’alternativa è distruggerlo, che è quello che si fa oggi.
Lo scenario sembra inevitabile.
È comunque illusorio pensare di poter rimanere i più forti per sempre. Prima o poi arriverà qualcun altro – ed è la mia paura peggiore – che farà l’opposto. Per questo bisogna uscire da ogni buonismo e affermare che non c’è alternativa alla pace.