Sanremo che non fu: quando il silenzio diventa voce

Storie di Festival. Ovvero: quando le assenze sono state più presenti delle presenze.
I casi di Massimo Troisi e Fabrizio De André. Due vicende emblematiche. Così diverse così uguali. Perché i loro silenzi hanno significato molto. Una riflessione sull’efficacia del silenzio e su quel che comunica un vero artista. Una lezione che vale molto anche oggi. Un tempo dove tutto si macina e poco o nulla rimane.


28 febbraio 2025
Fronte del palco
di Lorenzo Buggio

Era quasi inevitabile che il mio articolo di febbraio parlasse di Sanremo. Tranquilli, però: non intendo soffermarmi sull’edizione di quest’anno, sugli scandali più recenti o sul vincitore. Voglio invece raccontarvi la storia di due artisti che, pur non essendo mai stati protagonisti sul palco dell’Ariston, hanno lasciato un segno indelebile.

L’amarezza di Massimo Troisi

Facciamo un passo indietro, agli anni ’80, un periodo segnato da forti contrasti politici e tensioni sociali in Italia. È il 1981 e un giovane regista e attore viene invitato come ospite a Sanremo per presentare la sua prima opera. Un’occasione che in pochi avrebbero rifiutato, anche a costo di qualche compromesso. Ma Massimo Troisi – sì, è di lui che parliamo – scelse diversamente. Avrebbe dovuto portare sul palco un monologo dedicato a una tragedia recente: il terremoto in Irpinia.
Tuttavia, all’ultimo momento, gli organizzatori del Festival decisero di censurarlo, impedendogli di affrontare l’argomento. Intervistato prima della serata, rispose con la sua consueta ironia: “Mi hanno detto di poter parlare di tutto, tranne che di religione, politica, terrorismo e terremoto, perché sai, il paese sta in una situazione così… e allora adesso sono indeciso tra una poesia di Giovanni Pascoli o di Carducci“.
Le sue parole strapparono una risata al pubblico, ma nascondevano una profonda amarezza. Troisi, successivamente, tornò in albergo, fece la valigia e se ne andò. Scelse il silenzio. O forse, lasciò che fosse proprio il silenzio a parlare per lui.

Fabrizio De Andrè

Il “cantico” di De André

Anche un altro grande artista decise di non salire mai sul palco dell’Ariston: Fabrizio De André. A differenza di Troisi, però la sua fu una scelta consapevole e definitiva. Celebre è una sua dichiarazione: “Andrò a Sanremo solo quando mi permetteranno di portare Il Cantico dei Drogati.” Quella canzone, come molte delle sue, metteva di fronte a una realtà scomoda, difficile da accettare. Parlava di emarginazione, di dolore, di un’umanità che molti preferivano ignorare. Erano anni in cui la censura non si imponeva sempre con divieti espliciti, ma con l’indifferenza, con la scelta di dare spazio solo a parole leggere, a intrattenimento privo di peso.

Massimo Troisi breve intervista a Sanremo 1981

Parole, parole, parole

Perché raccontare questa storia? E perché farlo adesso? Vale la pena riflettere su una domanda fondamentale: perché scegliere il silenzio?
Oggi, più che mai, far sentire la propria voce è facile. Abbiamo a disposizione mille strumenti: social media, immagini, parole. Eppure, in un mondo in cui tutti parlano, il silenzio può diventare un atto di rottura. Oggi siamo circondati da personaggi pubblici pronti a commentare qualsiasi cosa, a esprimere opinioni su ogni argomento, a condividere ogni pensiero. Ma quante di queste parole rimangono impresse nella memoria collettiva? Quante prese di posizione ricordiamo dopo qualche mese, o anche solo dopo poche settimane? Troisi e De André fecero una scelta controcorrente.
A più di quarant’anni di distanza, il loro silenzio continua ad essere raccontato, discusso e persino citato sui social. Forse proprio perché, in un’epoca in cui tutto scorre rapidamente, il loro gesto ha saputo lasciare un segno più profondo di tante parole.

Il valore dell’arte

Da qui nasce una riflessione più ampia: che valore ha l’arte? L’arte è la traccia che l’essere umano lascia nel mondo, una memoria collettiva fatta di parole, immagini e suoni. Creiamo per esistere, per raccontarci, per dare senso a ciò che viviamo. Ma cosa accade quando l’arte si riduce a puro intrattenimento, a un prodotto di consumo rapido destinato a essere dimenticato?
Baudrillard, ne “La sparizione dell’arte” (1988), sostiene che l’arte si sia dissolta nella realtà, trasformandosi in una ‘materializzazione semiotica’. Il vero rischio, secondo lui, non è tanto la mercificazione dei valori estetici, quanto la loro riduzione a semplici segni museografici, svuotati di significato, fino a diventare una ‘simulazione depressiva, ripetitiva’. Non è la ripetizione in sé a destare preoccupazione—opere come le “Campbell’s Soups” di Andy Warhol dimostrano come un’immagine replicata possa mantenere una forte carica simbolica—ma la proliferazione di immagini prive di un vero messaggio, “in cui non c’è niente da vedere”.
Se la musica, il cinema e la letteratura smettono di interrogare il presente e di scuotere le coscienze, rischiano di perdere il loro senso più profondo.

Quel che si sceglie di dire

Sanremo è un grande spettacolo, un evento che da decenni unisce milioni di persone davanti alla televisione. Ma può essere più di questo. Può rimanere un momento di festa e leggerezza, certo, ma può anche diventare uno spazio di riflessione, uno strumento per lasciare un segno. Perché l’arte non è solo svago: è anche testimonianza, è la capacità di dire qualcosa che rimanga, che continui a risuonare nel tempo. Questo, però, non significa che la leggerezza sia un difetto. La musica può far sognare, distrarre, aiutare ad affrontare momenti difficili. Ma può anche fare molto di più: può far pensare, dare voce a chi non ce l’ha, lasciare un segno nel tempo. Baudrillard ci mette in guardia contro l’arte ridotta a un mero flusso di immagini prive di significato, destinate a perdersi nel rumore di fondo della società.
Troisi e De André, con il loro silenzio, ci ricordano che la rilevanza non è data dalla quantità di parole, ma dal valore di ciò che si sceglie di dire. E a volte, è proprio il silenzio a comunicare le cose più importanti.