Pink Floyd e Genesis, il lato oscuro della luna e l’Inghilterra svenduta: cosa rimane?

Due capolavori del Rock compiono mezzo secolo

L’eccellenza del progressive e della psichedelia in un anno, il 1973, affollato da tante grandi uscite. Cosa resta oggi di due album iconici – The dark side of the moon e Selling England by the pound –  che cinquant’anni fa segnarono il passo di un certo rock?
Proviamo a scoprirlo.


19 maggio 2023
di Walter Muto

Milano celebra i Pink Floyd con la copertina di the Dark Side of the Moon in piazza Duomo

Mi devo subito scusare con i lettori, perché in questa occasione il rischio che questo scritto da articolo si trasformi in ‘saggio breve’ è molto elevato. Ci sono stati cinquant’anni per indagare, scrivere cose, fare congetture su due album che hanno lasciato un segno forte nella storia della musica e, davvero, è stato detto e scritto di tutto.
E ormai tutto è raggiungibile con pochi click, semmai il problema è assestarli bene. In ogni caso, per inquadrare un attimo il periodo, vediamo con chi hanno dovuto sgomitare Genesis e Pink Floyd in quel 1973.
A livello internazionale uscivano Houses of the Holy dei Led Zeppelin, ma anche Desperado degli Eagles, Tubular Bells di Mike Oldfield, ben due album dell’esordiente Bruce Springsteen, e poi tornando al di qua dell’oceano,  Aladdin Sane di David Bowie e Goodbye Yellow Brick Road di Elton John.
Ma consultate questa playlist commentata oppure quest’altra che comprende anche dieci album italiani – fra i quali Il nostro caro angelo di Lucio Battisti e Storia di un impiegato di De André, fra gli altri – ed avrete almeno un’idea di quanta e quale musica sia uscita fra il gennaio ed il dicembre di cinquanta anni fa.

Genesis, 1974 banda con Peter Gabriel

Due facciate senza interruzioni
È in questo contesto che emergono i due album di cui parliamo oggi, The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd e Selling England by the Pound dei Genesis, sbrigativamente catalogabili entrambi nel genere assai seguito in quel periodo e chiamato progressive rock.
In breve, le caratteristiche principali: la forma canzone si dilata, esce dagli standard (ricordiamo, a titolo di esempio, che Bohemian Rhapsodyuscirà ben due anni dopo) e si interfaccia musicalmente con armonie e melodie provenienti dalla musica classica, talvolta baroccheggianti, che sviluppano canzoni più lunghe della norma o si articolano in suite, a volte senza interruzioni per l’intera facciata di un album (ricordiamo per i più distratti che la forma di diffusione della musica all’epoca era affidata essenzialmente ai vinili, di circa mezz’ora di durata per lato nel caso degli album).
E proprio su due facciate senza interruzioni si appoggiano i dieci brani dell’album dei Pink Floyd, registrato negli studi della EMI ad Abbey Road (vi ricorda qualcosa?) da Alan Parsons fra il maggio 1972 ed il febbraio 1973, in una sessantina di giorni di lavorazione.
Grazie ad un nuovissimo registratore a 16 tracce il gruppo, coadiuvato dallo staff tecnico dello studio, si spinge verso una esperienza immersiva in cui i suoni della band si mescolano ad esperienze di quella che all’epoca veniva chiamata ‘musica concreta’: voci registrate (da speakers casuali a cui Roger Waters mise in mano delle domande scritte su dei foglietti), il battito del cuore che apre e chiude l’album, stazioni, sveglie, orologi ed il celeberrimo suono di monete che va a comporre il pattern ritmico in sette quarti di Money.
Senza potere né voler entrare in troppi dettagli, l’album presenta canzoni rimaste immortali, ben architettate, con testi che parlano, in tono piuttosto caustico, della realtà sociale del tempo, alienazione e solitudine, con una nota particolare per The Great Gig in the Sky e la sua parte vocale per la quale Roger Waters non diede indicazioni alla cantante Clare Torry se non: “non ci sono parole, riguarda la morte”.
Oppure il grande inno contro la guerra rappresentato da Us and Them.
Dovendo e volendo andare oltre, è questo un album di grande sperimentazione sonora, fra quelli dei Pink Floyd il disco che ha venduto di più, ancora oggi (mutatis mutandis, visto che non si vende più nulla) inossidabile e presente nelle classifiche.
Sicuramente un lavoro importante, ma se posso inserire la mia prima constatazione personale, dal punto di vista della perizia strumentale diverso da altre esperienze progressive, se si possono a buon diritto annoverare Waters, Gilmour e soci in questo genere.
Molti infatti li assegnarono al cosiddetto rock psichedelico. Personalmente, uscendo da questo album, ricordo il primo ascolto di Shine On You Crazy Diamond (contenuto nel successivo Wish You Were Here) come una rivelazione.
Ma per me The Lamb Lies Down On Broadway dei Genesis, uscito nel 1974 (fra Dark Side e Wish You) era stato un viaggio ancora più incredibile fra visione, musica, ed acrobazie strumentali da seguire con attenzione.
E lo è tuttora ogni volta che ci torno.

La cover del Disco SELLING-ENGLAND

La palestra dei concept album
E così passiamo a Selling England by the Pound, album ritenuto da molti la cima compositiva per i Genesis ma – se vogliamo stavolta partire dalla pars destruens – lavoro che ricevette anche molte critiche al momento dell’uscita.
Era un album molto ricco musicalmente, forse però (rischio presente in tutto il progressive), un po’ troppo cerebrale, potremmo dire difficile da seguire. E poi – molti dissero e scrissero – i testi usavano troppi riferimenti alla pop culture britannica per poter essere accessibili a tutti.
In ogni caso, le soluzioni musicali erano affascinanti e brani come Firth of Fifth restano nella storia del rock, come pure i dieci minuti e passa di The Cinema Show ed in particolare il memorabile assolo finale di synth in sette ottavi.
Singolare anche lo scontro fra bande rivali, raccontato in forma teatrale con tanto di vocine dei personaggi – tipico di Peter Gabriel – di The Battle of Epping Forest, che prelude al concept album successivo, il già citato The Lamb Lies Down On Broadway.
La teatralità di Gabriel, talvolta non molto apprezzata dagli altri membri della band, più attenti alla musica (anche per la difficoltà delle esecuzioni!), era in ogni caso ingrediente fondamentale delle memorabili esibizioni live, con tanto di costumi, schermi e light show complicatissimi da gestire per l’epoca. Molto articolati anche i testi, che nel caso di The Lamb si snodano, in un doppio concept album, a narrare la storia di un ribelle newyorkese che incarna una vita ai limiti, morte e rinascita raccontati in un formidabile mix di immagini, tratte da miti greci, bibbia, Broadway nei mid 70’s e sardonico humour britannico. 
Selling England by the Pound potrebbe in qualche modo esserne considerato la palestra, pur non essendo tecnicamente un concept album. Ma dei fermenti ci sono, come la personificazione di Britannia nell’iniziale Dancing With The Moonlit Knight o il teppista di The Battle of Epping Forest, forse – congettura mia – preludio, prova generale del Rael di The Lamb. Ma sarebbe riduttivo considerare questo album solo così.
Gli scenari sonori disegnati dalla band sono ora maestosi, ora più delicati, affidati a quel caleidoscopio di elementi già sperimentati negli album precedenti e addirittura riducendo con i già citati dieci minuti di The Cinema Show e i quasi dodici di The Battle of Epping Forest, la suite di ventitrè minuti Supper’s Ready, contenuta nel precedente Foxtrot.
La batteria dell’immenso Phil Collins (influenzato, a suo dire, da nuovi ritmi attinti dalla Mahavishnu Orchestra, lascio a voi le ricerche) ed il basso (ma anche bass pedal e chitarra a 12 corde) di Mike Rutherford sostengono la voce di Peter Gabriel e le trame chitarristiche di Steve Hackett. Amalgamano il tutto il pianoforte ed i synth di Tony Banks, da poco dotatosi di un nuovo modello di Mellotron, la formidabile tastiera con i campioni di archi e fiati catturati su nastro.
Per concludere in maniera del tutto incompleta queste brevi note, non dimentichiamo l’esordio alla voce solista di Phil Collins nella deliziosa ballata More Fool Me, ma anche I Know What I Like, uno dei più grandi successi commerciali della band.
Ma non dimentichiamo neppure che i Genesis si rifiutarono di apparire alla celeberrima trasmissione televisiva Top of the Pops, dove pure erano stati invitati, a seguito proprio del successo di quest’ultima canzone. Ognuno rifletta.

I PinkFloyd

Le domande più grandi degli esseri umani
Cosa potrei aggiungere io se non il mio piccolo, personalissimo viaggio intorno a questi due album, come si dice oggi, iconici.
Ho voluto ri-immergermi nell’ascoltofatto oggi – di versioni entrambe rimasterizzate in digitale e quindi più ‘pulite’ degli originali, o meglio di come si era in grado di ascoltarle tempo addietro ed ho voluto trarne alcune brevi considerazioni.
Innanzitutto ascoltando oggi questi album si capiscono molto di più le parabole creative di band come i Radiohead, ma anche i Coldplay e molti altri che per brevità non cito.
L’esplosione creativa di quei primi anni ’70 ha dato il via a tutta una serie di altre esperienze musicali che da lì sono partite, per approdare a mondi lontanissimi ed iniziare nuovi percorsi e nuove contaminazioni di generi.
A questo proposito si pensi anche solo alla carriera solista di Peter Gabriel o all’evoluzione tematica e filmografica di The Wall.

Ultimo Tour dei Genesis poi interrotto per il Covid

Erano poi quelli anni in cui la musica si ascoltava con attenzione, facendosi condurre anche per sentieri impervi.
Sono gli anni – cambiando ambito – in cui alcuni esponenti di rilievo della musica jazz diventano quasi delle rockstar, inventando quello che allora veniva denominato jazz-rock o fusion, si pensi ai Weather Report o a Miles Davis, su tutti. O qui da noi si consideri l’emergere – per la verità anche aiutato dall’appartenenza politica – di una band comunque di grandissimo livello come gli Area.
Qui il discorso è un po’ diverso, essendo nei brani molto poco affidato all’improvvisazione, ma in parte simile, presentando le canzoni lunghe parti strumentali, che venivano considerate sostanziali e non da skippare al più presto come accade talvolta in un ascolto frettoloso.
La musica, insomma, aveva grande importanza e nei dischi – l’ho sperimentato di nuovo ascoltando attentamente i due album in cuffia – ci si andava a cercare anche le cose nascoste, i passaggi strumentali raffinati o – soprattutto nel caso dei Pink Floyd – i rumori aggiunti, tipo quella specie di macinino all’inizio di Wish You Were Here, o le monete già menzionate di Money, o le frasi rubate e poi montate ad arte, come quella che conclude Dark Side of the Moon, detta niente meno che da Gerry O’Driscoll, il portiere degli studi di Abbey Road: “There is no dark side in the moon really. Matter of fact, it’s all dark. The only thing that makes it look alight is the sun”.
Ed ecco l’ultimo aspetto, che andrebbe approfondito di più con un po’ più di tempo e spazio: le canzoni di questi due album mettono il dito in una piaga antica ed ancora attuale, quella delle contraddizioni della società britannica.
Lo abbiamo già detto, talvolta risultano poco comprensibili ai non inglesi, se non opportunamente documentati.
Ma qua e là mettono il dito anche sulle domande più grandi degli esseri umani, su amore e morte e sui grandi temi che da sempre fanno da pungolo all’uomo a tutte le latitudini.
Il tutto in grande musica che, cinquant’anni dopo, può essere ancora il fulcro di un grande viaggio.
A meno che non si decida deliberatamente di rimanere nell’oscurità del già saputo e già sentito. Perché la Luna è tutta oscura, quello che la fa brillare è la luce del sole. Come la nostra curiosità, mai doma nell’investigare, scoprire cose nuove o riscoprirne di antiche. Buon viaggio!