Paul Auster, lo scrittore che sapeva prendere per mano il lettore

Il silenzio come presenza si rintraccia in molte delle opere dello scrittore statunitense recentemente scomparso. Una delle voci più amate. Voce vitale della Grande Mela, scrittore – maestro nell’arte di raccontare storie. Influenzato da Franz Kafka, Samuel Beckett, Miguel De Cervantes, Erik Vonnegut e Albert Camus. Sapeva raccontare la storia contemporanea, la solitudine, il legame, il caso e la vita. Come ha vissuto lui, nato da ebrei di origini polacche e austriache, buon investigatore delle mille vite, attento alla svolta e e ai suoi indizi.


24 maggio 2024
Il grande romanzo americano
di Eugenio Giannetta

Paul Benjamin Auster a New York @Getty Images

Ogni qualvolta mi sia imbattuto in lettori che non avevano ancora mai provato la vertigine di rotolare tra le pagine di Paul Auster, come prima reazione ho provato invidia. Placato il sentimento, ho provato a ragionare insieme a quei lettori il motivo per cui Paul Auster sia stato così grande. Nel tempo, credo di aver costruito un mio personalissimo decalogo di motivi, che vado a esporre: prima di tutto, Paul Auster, sapeva prendere per mano il lettore. Questa caratteristica di “guida” nella scrittura è evidente soprattutto in due suoi libri, che val la pena ricordarlo, in Italia sono pubblicati da Einaudi: in “Trilogia di New York” Auster veste i panni del detective in una città che è un non luogo in cui perdersi e ritrovarsi. È in quello spazio, in quel vuoto, che Auster prende per mano il lettore. I grandi scrittori hanno questa capacità. Nelle “Occasioni”, ad esempio, Montale inizia uno dei mottetti con i tre punti di sospensione: «… ma così sia».
In quella sospensione c’è tutto ciò che avrebbe potuto essere, in quel “ma”, ciò che è stato fatto. Come un investigatore, Auster, indaga con una scrittura fuori dal tempo, lascia piccoli indizi da scovare tra i personaggi, nei loro sentimenti umani, talvolta così profondi da divenir taciuti.
Il silenzio come presenza avviene nell’altra storia esemplare della sua capacità di prendere per mano il lettore, ovvero “4 3 2 1”, il suo romanzo moltitudine, perché a volte per raccontare una vita non basta una sola storia. Da questo presupposto si dipanano quattro sentieri, quattro vite possibili, eppure reali, di Archie. Campione dello sport o inquieto giornalista, attivista o scrittore vagabondo, le sue traiettorie sono diverse ma tutte, misteriosamente, incrociano lei, Amy. Auster si chiede: che persone saremmo oggi se quel giorno non avessimo perso quel treno, se avessimo risposto al saluto di quella ragazza, se ci fossimo iscritti a quell’altra scuola, se… Ogni vita nasconde, e protegge, dentro di sé tutte le altre che non si sono realizzate, che sono rimaste solo potenziali. Accade persino che una di queste vite termini prematuramente, Auster allora rende omaggio, la prosegue nell’assenza, continuando a conteggiarne i capitoli fino a fine storia.

Joel Meyerowitz New Yorlk Street photography

Il testamento letterario

Auster, e questo è il secondo punto del decalogo, a proposito di storia, sapeva raccontare la storia contemporanea. Spesso nei suoi libri si parla di diritti civili e Sessantotto, di proteste universitarie ed eventi topici della storia, come l’assassinio di Kennedy. Sapeva narrare in prima persona come pochi. E in questa affermazione c’è un lato ironico, che gli apparteneva attraverso personaggi rocamboleschi, talvolta beffardi. In un’epoca – la nostra – in cui impera la narrazione in prima persona, sdoganata perlopiù dal meccanismo dei social, quando lo scorso 30 aprile Auster ci ha lasciati orfani della sua voce, una delle più amate e conosciute della letteratura statunitense, sui social tutti hanno fatto a gara per ricordarlo.
In tanti l’hanno citato proprio a partire dal memoir del 1982 che in qualche modo lanciò la sua carriera, “L’invenzione della solitudine”: «Un giorno c’è la vita… poi, d’improvviso, capita la morte». Esattamente, capita, ma qualche volta la si può anche aspettare, la morte, come dimostra nel suo ultimo libro, “Baumgartner”, una sorta di testamento letterario in cui la finzione si sovrappone in qualche modo alla biografia, e dove ci è concessa la consolazione della sua presenza nell’assenza, perché anche questo sapeva fare: «Tra i vivi e i morti – scrive – c’è un legame». Sempre in “Baumgartner”, poi, Auster dimostra quanto sapesse anche insegnare ‘sulla scrittura’, sull’arte dell’attesa che spesso richiede, sul tempo necessario alla maturità: «Le parole sulla pagina sono così familiari ormai da essere come morte, e a rileggerle subito si sarebbe travolti da tali ondate di disgusto da sentirsi tentati di distruggere il manoscritto in un momento di rabbia o disperazione. Per non impazzire, per salvare il salvabile dal disastro combinato, bisogna costringersi a fare un passo indietro e lasciar stare quel maledetto, distaccandosene al punto tale che, quando si oserà riprenderlo in mano, sembrerà di vederlo per la prima volta».

Joel Sternfeld The High Line

Ogni volta è come la prima volta

La sensazione di prima volta è un’altra delle caratteristiche che porta la sua lettura, per esempio capita nelle riletture. Nel finale di “Invisibile”, tra i suoi grandi libri, inspiegabilmente e spesso tra i meno citati, scrive: «Quel rumore sarà sempre con me. Per il resto della mia vita, ovunque mi troverò, qualunque cosa starò facendo, sarà sempre con me». A rileggerla, questa frase, sembra ogni volta la prima volta. Ora che Paul Auster non c’è più, quel rumore è come se fossero i battiti della sua macchina per scrivere, impressi tra le pagine come battiti di molti cuori che si animano dalle sue parole, dai suoi personaggi, ma anche da qualcosa di apparentemente inanimato, come le ultime cose: è il caso di un libro come “Nel paese delle ultime cose”. Di nuovo vi è un’indagine, di nuovo un’assenza presente e un incipit memorabile: «Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano più. Posso raccontarti di quelle che ho visto, di quelle che non esistono più, ma temo di non averne il tempo. Tutto sta accadendo così velocemente ora, che non riesco a tenervi dietro».
Auster sapeva anche scrivere biografie: l’ha fatto con “Ragazzo in fiamme, vita e opere di Stephen Crane(molto amato anche da Chaim Potok), scrittore, giornalista e corrispondente di guerra, citandone lettere e testimonianze, ricostruendone vita e opere. Un altro dei suoi elementi chiave, l’abbiamo accennato parlando di “4 3 2 1”, è poi il tema del caso: questa caratteristica attraversa quasi tutti i suoi libri, quasi fosse una sua filosofia, un mantra; tra tutti, un esempio è “Leviatano. C’è un’immagine in Leviatano in cui parlando di un personaggio scrive: «Andava alla deriva, galleggiando in un mare di giorni tutti uguali e, a quel che riuscivo a capire, gli era indifferente farcela o meno a tornare a riva». Qui c’è tutto il lasciarsi trasportare dal caso, da ciò che accade, dal flusso.

Paul Auster insieme a sua moglie Siri Hustvedt

I suoi libri restano tra noi

Ultimo punto di questo decalogo immaginato, assolutamente non esplicativo della sua opera, ma figlio di uno spaccato personale di lettore appassionato, è la presenza dell’esperienza artistica nei suoi scritti. Un’esperienza mai ingombrante, inserita tra le righe spesso come riflessione a latere: un esempio tra i tanti, all’interno della sua vasta opera, potrebbe essere “Il libro delle illusioni”, che in esergo riporta una rappresentativa citazione di Chateaubriand: «L’uomo non ha una sola e identica vita; ne ha molte giustapposte, ed è la sua miseria». Tuttavia, talvolta può essere anche la sua fortuna. Il “libro delle illusioni” attacca così: «Tutto lo credevano morto».
In qualche modo, invece, Auster continua a vivere nei suoi libri, nei suoi personaggi, riempiendo ancora una volta di presenza l’assenza, questa volta, la sua. Tutti lo credono morto, ma i suoi libri restano, sono tra noi.