Paolo Cevoli: chi non ride è perduto

A ottant’anni da quel 25 luglio 1943 che segna l’inizio della fine del Fascismo, l’artista ci conduce in un insolito viaggio letterario: Il sosia di lui. Aneddoti vissuti in prima persona da papà Luciano si mischiano ad episodi (veri o inventati) che ridicolizzano il Ventennio, senza minimizzarne la tragedia. Così passano in rassegna i buoni e i cattivi di ogni tempo: non solo gli ospiti di Villa Mussolini nella Riccione del Ventennio


21 luglio 2023
“Lui” e noi
Conversazione con Paolo Cevoli a cura di Nicola Varcasia

Paolo Cevoli

Dal populit all’Ovra. Dall’olio di ricino alla campagna d’Africa. Passando per le bonifiche delle paludi pontine, a bordo di treni che arrivano puntuali. Naturalmente lasciando le bici slegate perché (quasi) nessuno ruba. Per arrivare ai neologismi italioti di D’Annunzio, tipo bar-quisibeve. Fino al 25 luglio del 1943 (giusto ottant’anni fa).
E oltre. Fino a Montevideo, in Uruguay. Dove non c’è né il monte né, a ben vedere, il video. E dove non sanno tenere in ordine nemmeno un’officina. Perciò ti fanno venire voglia di tornare a casa. A Riccione. Per chiedere perdono. Anche per quello che non hai fatto. Nel frattempo, lungo agili capitoletti si ride molto, si piange il giusto e, in generale, ci si sente come dei gran pataca. Nel libro Il sosia di lui (Solferino, 2023) c’è praticamente tutto. E “lui”, chiaramente, è Benito Mussolini. Talmente chiaro, che Pio Vivadio detto Nullo, meccanico con tendenze anarchiche cresciuto dalle suore tra preghiere obbligatorie e galline con la memoria lunga, nel 1934 viene arrestato dalla polizia segreta del Fascismo (l’Ovra, appunto) a causa di una straordinaria somiglianza con il Duce: la cavia perfetta per vestire i panni del dittatore nelle occasioni ufficiali in cui il gran capo ha altro da fare.
Tipo incontrare Claretta Petacci al Grand Hotel di Rimini (o forse no) o visitare una colonia estiva. Per il resto, nove anni di prigione, tante botte e olio di ricino, dosi crescenti di poesie di Leopardi spulciate da un libro regalategli da Nives (ma, se vi va, col permesso certificato dell’autore, potete chiamarla Beatrice) in uno dei tanti tragicomici episodi narrati nel libro. E un finale manzoniano.

Paolo Cevoli – nello spettacolo Il sosia di lui

Dieci anni fa il monologo che avvia tutto

Non resta che chiedere all’autore stesso, Paolo Cevoli, dove abbia trovato il coraggio di scrivere un libro che, con una certa nonchalance, tira in ballo Mussolini, per riderci parecchio su.
Cominciamo dalla copertina, che ricorda clamorosamente quella di un best seller, dal tono parecchio più impegnato, di Antonio Scurati: «A parte la mia faccia… fa un po’ il verso», conferma. Il Iibro in realtà nasce prima, da un monologo di dieci anni fa, dove Cevoli interpretava, appunto, il sosia di “lui” che raccontava la sua storia. Ok, ma perché? «Il mio babbo, Luciano, da piccolo faceva il raccattapalle nella villa Mussolini». Di per sé basterebbe come motivo ma, proprio nel campetto di tennis di quella villa di famiglia a Riccione, abitata dal Duce tra il ‘34 e il ’43 e che oggi è diventata un museo, si sono scritte pagine tristi della nostra storia. Anche se il «Mussolini sburone» le chiamerà vincenti.
Perché “lui”, chissà come, vinceva sempre, anche a tennis, anche contro i più forti. Tranne una volta. Ma questo lo si scoprirà leggendo «l’improbabile vicenda di questo omino che si trova suo malgrado a vestire i panni del Duce».

La copertina del libro Il sosia di LUI – Edizioni Solferino

I buoni e i cattivi: la storia di sempre

Arrivando al punto, capiamo che la vicenda storica su cui tutto ruota è decisiva, ma neanche troppo: «La domanda sostanzialmente è sui buoni e sui cattivi, su chi è buono e chi è cattivo, tanto è vero che anche Pio a un certo punto dice: “io sono buono non ho fatto mai male a nessuno”, in realtà fa una cosa molto brutta immedesimandosi nella sua controfigura, in questo ruolo di dittatore».
Non possiamo ovviamente dirvi quale sia questa cosa, però riusciamo a strappare all’autore una dichiarazione di poetica: «Cerco di fare sempre questa comicità narrativa, non solo fatta di battute, ma di storie. Perché un conto è fare battute, un monologo o un libro che è una collection di battute, un conto è raccontare una storia. Una storia, avendo in sé una drammaturgia, segue un cammino». Nel caso di Pio Vivadio il cammino porterà a un cambiamento: «Addirittura c’è proprio un momento, non dico di conversione, dove però il personaggio cambia il suo modo di concepire la vita».
Non è un testo autobiografico, sebbene il carattere rispecchi quello dell’autore che, come si sa, è anche, per certi versi soprattutto, attore: «Io cerco sempre di vestire i panni di chi racconto, come nello spettacolo sulla storia del cuoco dell’Ultima cena o del garzone di Michelangelo o del cameriere di Rossini. Mi immedesimo in queste persone come se facessi un salto nel tempo e nello spazio. Mi chiedo: se io fossi stato quello, che cosa avrei fatto?».
La cosa, però, diventa un po’ più complicata quando si vestono i panni di “lui”: «Aver già fatto questa immersione nel 2012, quando non c’era neanche tutta la moda di parlare del Ventennio che c’è adesso, interpretarlo mi faceva effetto. Scriverlo è stato più facile perché c’è sempre più distacco».
Se cercate un leit motiv nel libro, oltre alle botte e all’olio di ricino, ne troverete altri due, presenti in ogni possibile variazione sul tema. Lasciamo al lettore un paio di secondi per indovinare.
«Il motore in Romagna è una passione e nel libro c’è n’è tanta, di meccanica». In effetti, dalla littorina all’idrovolante, all’Alfa Romeo Spider tutto il racconto è costellato da episodi a motore. «E poi ci sono tante donne… è una miscellanea di figure femminili»: dalla materna Sabbioni Elvira alla matrona della casa chiusa, fino alla «musa Beatrice-Nives», vien fuoritutta una tipicità romagnola: «C’è un termine meraviglioso, “Adzora”, che è la contrazione dialettale della parola reggitrice ed esprime il primato della donna nella società matriarcale contadina». Ma nel libro, resti chiaro, non c’è traccia di nostalgie.

Paolo Cevoli con Valentino Rossi ©La Gazzetta dello Sport

Le cose semplici non affondano nel fango

Sono il vero ed il verosimile ad incontrarsi in questo insolito romanzo: tantissimi episodi e personaggi sono veri, come la giornalaia orgogliosa e libera, il controllo dei cibi e bevande, la maestrina in villa o la Messa di Pentecoste. Altri sono palesemente inventati, come il carceriere nonché ex compagno di classe Carugnaza. Altri episodi sono una via di mezzo, che è poi la via per ridere e farsi sorprendere da alcuni passaggi molto riflessivi, quasi alla Van der Meersch di Corpi e Anime, come quello in cui emerge «la vera illusione dell’assoluta originalità» di una vacanza in riviera. Sia prima dello spettacolo sia prima di scrivere il libro, Cevoli ha spulciato una «montagna di libri scritti da riccionesi e molti aneddoti mi sono stati raccontati da testimoni oculari. Poi dieci anni fa c’era ancora il mio babbo… la storia della partita a tennis me l’ha raccontata lui». A un certo punto sentirete il duce chiedere al garagista: «Mi impresti la macchina?», quello, spiega l’autore, lo ha riferito un amico di suo padre. Ogni capitoletto è una partita al gioco di scoprire cosa è vero e cosa no: «Tanto è vero che in alcuni episodi ti chiedi… sarà vero?». Inutile dire che nel Fascismo tragedia e farsa sono andate a braccetto. Ma questa non è colpa di Cevoli.
Anzi, lo stesso sguardo disincantato che cerca il sorriso anche sotto il fango (di un regime, di una natura ferita) lo ritroviamo sui canali social dell’attore che, nei giorni successivi all’alluvione che lo scorso maggio ha colpito quella stessa Romagna narrata nel libro, si è messo gli stivali ed è andato in giro a raccontare le storie degli abitanti della zona: «Io cerco di raccontare delle storie di felicità anche lì dove c’è tanto fango… prendo la gomma dell’acqua, tiro via il fango e faccio vedere».
Senza raccontarlo, il finale manzoniano è un po’ questo. Dopo la grande avventura, o la grande tragedia, c’è un quotidiano che riprende, dove è bello mostrarsi per ciò che si è e si prova. A cominciare dalle cose semplici, tipo ridere e piangere: «A quelli che dicono “difficilmente io rido” o “io non ho mai pianto in vita mia” dico: c’è qualcosa che non ti funziona: esternare penso che sia una forma di libertà. Quando tu ridi o piangi c’è come un ideale di uomo. Se posso stare con della gente che mi fa ridere… prediligo. Poi, al di là delle tante trovate magari stupide che si vedono in giro o sui social che però fanno ridere, a me piace di più ridere di cose che dopo mi scaldano il cuore».
Alcune di queste storie Paolo Cevoli le presenterà a Milano il 25 settembre. Prima però, godiamoci il ritorno a casa di Pio Vivadio e, carugnaze permettendo, l’estate in riviera.