Occidente: un declino inevitabile?

Che l’Occidente viva contraddizioni che ne indeboliscono la missione di soggetto garante della libertà della persona è sotto gli occhi di tutti. Non mancano tifosi interessati al suo tramonto definitivo. Ma le cose stanno proprio così? Oppure «c’è spazio in un Occidente scettico e deluso per apprezzare la libertà di cui ancora godiamo e reimparare ad usarne la potenzialità?». Un contributo.


13 ottobre 2023
Una resa pericolosa
Walter Ottolenghi

©GettyImages

Una storia vissuta

Ancora autentico pischello, a metà degli anni ’70 vengo ammesso per la prima volta al meeting trimestrale tra analisti e economisti delle principali banche della comunità europea di allora, che da poco includeva anche la Gran Bretagna. L’incontro si svolgeva a Milano e il mio capo osa la mossa di imbucarmi attorno al tavolo di un appuntamento che poi diventerà per me abituale, itinerante tra le diverse capitali economiche d’Europa, a turno.
Clima pesantissimo, quella volta. Il nostro Paese aveva impegnato le riserve auree a garanzia del prestito concesso dalla Germania federale per evitare il fallimento del nostro stato (default, nell’asettico gergo tecnico).
Tutta l’Europa era comunque sotto schiaffo per le conseguenze della prima crisi energetica innescata dalla guerra dello Yom Kippur, in buona compagnia col resto del mondo. Queste, assieme ad altre concause (Vietnam, crollo del sistema dei cambi fissi, estremismo politico e sindacale) aveva messo l’Occidente di fronte alla brusca fine di 30 anni di crescita ininterrotta. Il resto del mondo, produttori di petrolio mediorientali esclusi, se la passava anche peggio.
Smarrimento tra i partecipanti. La chief analyst della principale banca tedesca se ne uscì con questo intervento: “Abbiamo ricostruito i nostri paesi dopo la guerra, abbiamo dato a tutte le famiglie la casa, l’automobile, il frigorifero e il televisore. Cosa possiamo inventarci ancora per far ripartire i consumi e l’economia?”. Nessun delegato era in grado di presentare uno scenario elaborato dal proprio team che gettasse uno spiraglio di luce sul futuro.
Eppure nello stesso momento in qualche scantinato tra Copertino e dintorni alcuni ragazzotti stavano trovando il modo di utilizzare i chip di nuova generazione per aprire nuove strade per gli strumenti di elaborazione dei dati. Nemmeno loro, probabilmente, immaginavano che ne sarebbe derivata una rivoluzione tecnologica epocale, che portò un’impennata della produttività, dell’innovazione, della circolazione delle idee, in poche parole della creatività che rilanciò l’economia nei decenni successivi, grazie a nuovi modi di progettare, di produrre e di consumare.

©Joel Meyerowitz

50 anni dopo

Oggi, dopo aver sperimentato che difficilmente la decrescita è felice, perché il suo primo effetto è la crescita della miseria, il nuovo refrain di molti osservatori è la diagnosi, malcelata speranza per alcuni, dell’inevitabile declino dell’Occidente. Con il sorgere di un nuovo ordine mondiale dominato da portatori di più gagliarde energie. Non si fatica certo a riscontrare una recrudescenza del cupio dissolvi nei nostri milieu intellettuali. E la cancel culture ne è una manifestazione emergente, ma non esclusiva.
Il declino è allora una pagina già scritta del nostro presente e del nostro futuro?
Il destino sembrerebbe segnato, se non fosse che la storia, anche recente, non ci avesse dimostrato che i cambiamenti più significativi semplicemente avvengono, come sono avvenuti, senza che nulla lo faccia davvero presagire. A cose fatte, naturalmente, si sprecano le interpretazioni e le analisi di tutti i segni premonitori, solo che chi li aveva visti se li era evidentemente tenuti per sé, per oscure o perverse ragioni.

Le scintille creative

Siamo allora in balia dell’ignoto, della nostra sprovvedutezza, della nostra supponenza? 
Non necessariamente. Gli uomini e la loro libertà rimangono protagonisti della Storia, solo che questa libertà, individuale e collettiva, per dare frutto deve coniugarsi con l’umiltà di uno sguardo leale alla realtà, non distorto da pregiudizi di teorie preconfezionate o, peggio, di ideologie e disegni di potere.
Tra le maglie necessariamente larghe delle reti dei fabbricanti di consenso e degli strateghi del risiko planetario le scintille creative riescono sempre a trovare il modo di sfuggire, grazie a uomini liberi che alimentano il cambiamento, spesso senza neanche rendersene conto. Dissidenti dal sistema dominante, innovatori del pensiero e delle scienze e tutti quanti vivono la dimensione della gratuità nelle loro relazioni e nelle loro azioni.
Cose non contemplate da alcun sistema di organizzazione del potere, qualunque esso sia. Nessun potere sembra in grado di generare da solo il cambiamento. Può tentare di accelerarlo o di frenarlo. Nel primo caso a volte riesce. Nel secondo quasi mai, o in modo incompleto e transitorio, anche ricorrendo alla violenza fisica, a menzogne e a raggiri.
Se il meeting degli anni ‘70 tra professionisti della ricerca economica aveva lasciato frustrazione e delusione (mi aspettavo contributi illuminanti), la realtà si sarebbe dimostrata portatrice di ben altro. Sviluppi successivi per i quali ancor oggi non sono del tutto chiare le implicazioni sulla nostra civiltà, ma che comunque hanno messo in movimento tante risorse di cui si ignorava la potenzialità e, insieme, accresciuto le nostre responsabilità individuali e collettive.
Nessuno poteva lontanamente prevederlo, eppure tutto questo c’è. La banalità di questa osservazione è ingannevole. È in realtà significato della grandezza di un’energia che periodicamente e con l’irregolarità di una scossa tellurica interviene nella storia per imprimere svolte epocali, non necessariamente percepibili e identificabili nelle loro fasi iniziali. Questo non toglie nulla al valore dell’opera di quanti per impegno professionale o per passione si dedicano all’analisi delle umane vicende, nella loro contemporaneità o nella loro evoluzione storica, per trarne sintesi che possano costituire punti di riferimento per le nostre scelte. Sono contributi preziosi, come il sestante e la bussola per un navigatore. Tuttavia non sono in grado di dirci cosa troveremo al di là delle colonne d’Ercole del saputo nostro o dei più saggi tra noi.

La statua del pensatore in Parigi (per La porta dell’Inferno) di Auguste Rodin

Colonne d’Ercole o doglie del parto?

Ci sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia? Non dovrebbe essere una novità. La profondità esistenziale di questo prestito shakespeariano può anche essere volgarizzata con la considerazione che negli ultimi decenni la “nostra filosofia” ha dovuto cedere il passo a tante “più cose”. Buone o non buone, secondo il nostro limitato punto di vista. Comunque sempre “di più” rispetto a quello che avremmo potuto aspettarci e che ci eravamo preparati in qualche  modo ad affrontare. Ci hanno costretto a cambiare, a fare i conti con una nuova realtà, in qualche modo a crescere. Si sono inserite nel nostro percorso e hanno dato un’accelerata. Dunque, in fondo, sempre buone anche se in una prospettiva che travalica la nostra stessa attesa. Come le doglie del parto sofferte dal mondo, mi diceva in gioventù un famoso sacerdote ambrosiano.
L’11 settembre 2001, il Covid, la guerra in Ucraina. Ma anche lo sviluppo di tante aree del mondo che sembravano condannate a una miseria senza fondo, la fine delle dittature in Europa… In fondo è l’eredità di queste e tante altre situazioni inattese che ci consegna il nostro oggi, dove la parola d’ordine che ne riassume la peculiarità è però diventata “declino”, con il disincanto di fronte a tante aspettative mal riposte.
Così, mentre raccogliamo i cocci della globalizzazione, clamoroso e babelico boomerang sfuggito di mano ai suoi prometeici fautori, dobbiamo fare i conti con gli imperdibili personaggi che si sono alimentati delle sue pingui spoglie, oggi in cerca di una “intesa” per sancire il definitivo declino dell’odiato Occidente.
Da parte sua, l’Occidente sa benissimo declinare anche da solo, se proprio ci si mette. Peccato che un suo severo declino trascinerebbe con sé tutti gli altri, in un perfetto contrappasso per la fallita globalizzazione, in un declino di cui farebbero le spese maggiori le aree più povere del mondo.
La morsa colonialista sino-russa che sta iniziando a stringere l’Africa è un segnale fortemente premonitore di quello che potrebbe capitare su scala più vasta, così come il tentativo di espansionismo della Russia verso ovest (Ucraina) la porta, oltre a condurre una guerra lacerante, ad abbandonare al suo destino un alleato periferico come la debole Armenia.
L’oriente quindi mostra i muscoli, con alterne fortune, mentre l’occidente si dibatte tra perdita di credibilità della rappresentatività politica (astensionismo e populismo), inverno demografico e comportamenti asociali (entrambi questi, in realtà, condivisi dalla Russia). Aggiungiamoci l’handicap dello smarrimento di fronte al proprio retaggio culturale, oggetto di infiniti alterchi tra radicalismi e nazional-populismi e nessuna voglia di affrontare con serietà la questione. L’occidente mantiene i vantaggi di un sistema istituzionale che, finché tiene, garantisce argini contro lo strapotere degli stati e contro le incursioni statali nel governo della moneta. Cose che favoriscono una relativa stabilità nell’economia e nelle relazioni internazionali all’interno dell’area, oltre che una maggiore potenzialità creativa dovuta alla libertà di ricerca e scambi culturali e alla libertà d’iniziativa.

©Steve McCurry

Rispondere al declino

Detto questo, da dove può cominciare la nostra risposta alla deriva del declino? C’è spazio in un Occidente scettico e deluso per apprezzare la libertà di cui ancora godiamo e reimparare ad usarne la potenzialità? Vasto programma, verrebbe da ironizzare. Eppure una risposta chiara ci viene da chi in anni ancora recenti o ancora oggi nella Russia contemporanea ha dovuto fare i conti con una realtà dove le leve del potere, accentrate nelle mani di pochi e non particolarmente benevoli personaggi, arrivavano a condizionare perfino gli spazi più privati della vita.
Risposta elementare, ma dura, però liberante: iniziare da un uso liberato della parola.
Privo di reticenza e ricco di verità e lealtà verso il suo significato. Parlare in questo modo getta un ponte solido verso l’altro. La manipolazione della parola, la sua strumentalizzazione ad un disegno non comunicato apertamente è il primo e più comune atto di violenza che possiamo commettere. Da esso deriva ogni manipolazione e strumentalizzazione dell’altro e, ultimamente, uno svilimento dell’io che si comunica, un autolesionismo che rende incapaci di rapporti veri. Una rete di relazioni tra soggetti dalle ali tarpate che non riesce a sviluppare la fecondità che potrebbe avere.
Quanto del declino demografico deriva da un’incapacità di relazioni libere, cementate da un affidamento reciproco basato su una lealtà totale? In altre parole, l’incapacità di amare fino in fondo? Non si tratta, ovviamente, di colpevolizzare nessuno, ma di constatare come il progressivo assottigliarsi del significato delle relazioni porti allo spezzarsi dei fili che tengono insieme la rete di scambi di significati di cui abbiamo bisogno per sopravvivere e per far vivere.
Con un’intensità ovviamente diversa lo stesso può dirsi delle relazioni che tengono insieme i rapporti economici, sociali, politici, produttivi di benefici comuni al massimo del potenziale solo in presenza di scambi basati su chiarezza e lealtà.
Banalità? Utopie? Parole, soltanto parole come cantava Mina?
Un famoso presidente della repubblica, non italiana, in un suo discorso pubblico osava dire:
“…All’inizio di tutto c’è stata la parola. È un miracolo, al quale dobbiamo il fatto di essere uomini, ma nello stesso tempo è un’esca, una prova, un’insidia e un castigo. Le parole sono importanti. Sono importanti dappertutto. Memori di ciò, dovremmo tutti lottare contro le parole piene di ferocia, e anche indagare sulla superbia contenuta in certe parole apparentemente pacifiche. Questo, evidentemente, non è solo un compito linguistico. L’invito alla responsabilità delle parole e per le parole è un compito profondamente morale. Come tale, non è ancorato al di qua dell’orizzonte del mondo che noi possiamo raggiungere: ma è là, dove sta quella parola che era in principio di tutto. E che non è parola umana.” (Václav Havel, Una parola sulla parola, 1989).
Era un programma o un manifesto politico? Piuttosto l’articolo fondativo di ogni convivenza morale. Così come di ogni scienza e coscienza, di ogni tecnica e di ogni legge. Che non può fare a meno di uomini liberi: senza libertà vissuta ogni moralità è a rischio.
Il vantaggio residuo dell’Occidente rispetto alle aree del mondo che sembrano sfidarlo sta forse nel fatto che nella sua opera di smantellamento della parola è a uno stadio meno avanzato di altri. Per quanto ancora?