Marta Ottaviani: “Ecco cosa succede nella Turchia che ribolle”

L’arresto preventivo del sindaco di Istanbul ha provocato numerose proteste in gran parte del Paese. Significa che in terra ottomana c’è una società civile ancora viva nonostante il pugno di ferro del regime di Erdoğan, al potere da 23 anni. Piazze piene che chiedono una svolta democratica. Si tratta di un processo difficile, ma non impossibile. In una realtà complessa dove il potere del presidente è più fragile di quel che si pensi. E tale fragilità si misura oggi anche se non soprattutto con uno scacchiere internazionale in fibrillazione. Laddove Erdoğan sta giocando la sua partita misurandosi con le sue ambigue alleanze. In Terra Santa, nei rapporti con Mosca, nelle relazioni con l’amministrazione Trump. Intervista esclusiva alla giornalista e scrittrice profonda conoscitrice di vicende turche. In uscita il 18 aprile il suo libro “Istanbul. Cronache graffianti dalla città degli imperatori” (edito da Paesi edizioni srl)    


11 aprile 2025
Domanda di democrazia
Conversazione con Marta Ottaviani a cura di Andrea Avveduto

Le piazze chiedono una democrazia piena. La vera sfida è capire come questo processo potrà realizzarsi”. Marta Ottaviani, giornalista, scrittrice e tra i massimi esperti in Italia di Turchia, non è certo il tipo da farsi ingenue illusioni. Il suo ultimo libro, in uscita il 18 aprile, si intitola “Istanbul. Cronache graffianti dalla città degli imperatori” (edito da Paesi edizioni srl) è un ritratto puntuale della situazione attuale. E da grande conoscitrice e alla luce di quanto sta accadendo in terra “ottomana”, sa bene quanto sia complesso portare un cambiamento dopo 23 anni di Erdogan. Anche se un percorso, tra tante incognite, è iniziato.

L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, era prevedibile o è stato un fulmine a ciel sereno?
Mi aspettavo che Erdoğan trovasse un modo per metterlo fuori gioco, ma questa mossa “preventiva” è inedita. Non è la prima volta che İmamoğlu viene ostacolato: già alle ultime presidenziali non poté candidarsi per un’accusa pendente di insulto alla magistratura. Ricordiamo che nel 2019 a Istanbul si votò due volte: la prima, İmamoğlu vinse di misura contro il candidato dell’AKP, Binali Yıldırım.
Erdoğan fece ripetere le elezioni, accusando l’Alta Commissione Elettorale (YSK) di aver obbedito al Presidente. Questo gli costò una denuncia. Il risultato? Nella ripetizione del voto, İmamoğlu stravinse con 5 punti di scarto. Una sconfitta pesante per Erdoğan, un segnale che qualcosa nel suo sistema si stava inceppando. Alle amministrative del 2024, İmamoğlu ha trionfato di nuovo, con circa 8 punti di vantaggio, un vero plebiscito, nonostante abbia amministrato Istanbul con molti vincoli: fondi tagliati da Ankara e la difficile gestione della pandemia.
La sua riconferma è stata interpretata, a ragione, come la consacrazione di un leader capace di sfidare Erdoğan su scala nazionale. Perciò mi aspettavo una mossa da Erdoğan, ma questo “tagliare le gambe” prima ancora di una candidatura ufficiale è nuovo e preoccupante. Molti commentatori turchi vedono un parallelismo con la Russia, e concordo. La grande, fondamentale differenza, però, è che le manifestazioni di questi giorni dimostrano l’esistenza di una società civile ancora viva in Turchia. E non è poco.

Questo arresto preventivo conferma che İmamoğlu era davvero un’alternativa credibile a Erdoğan?Assolutamente sì. İmamoğlu ha cavalcato molto questa immagine, tenendo comizi in tutto il paese come un candidato in pectore, attirandosi anche delle critiche. La sfida con Erdoğan è stata diretta e c’è un aneddoto gustoso rispetto a questo: entrambi sono originari della regione del Mar Nero. Un giorno, İmamoğlu doveva tenere un comizio a Rize, da dove viene la famiglia di Erdoğan; nella notte, il Presidente fece montare una sua gigantografia nella piazza, ed esiste una foto surreale di İmamoğlu che parla con il faccione di Erdoğan alle spalle. Anche la sua presenza attiva nel sud-est del Paese dopo il grande terremoto è stato un chiaro segnale di ambizioni nazionali, interpretato immediatamente come un guanto di sfida.

Erdoğan può permettersi una mossa del genere senza gravi conseguenze, minando ulteriormente la democrazia turca?
La domanda è se pensa di poterlo fare. C’è una dicotomia tra la percezione di Erdoğan e la realtà dei 15 milioni di voti per İmamoğlu, che includono anche elettori non tradizionalmente del suo partito. Probabilmente Erdoğan si crede intoccabile, sebbene sia più debole di un tempo. Significativamente, pochi giorni dopo l’inizio delle proteste, il suo Ministro degli Esteri Hakan Fidan (ex capo dei servizi segreti) era a Washington a parlare con Marco Rubio. Prova che a molti Erdoğan fa comodo dov’è, specialmente considerando i legami complessi con l’amministrazione Trump, anche rispetto alla Siria.

Come si inserisce questa fragilità interna di Erdoğan nel complesso scacchiere mediorientale, data la sua politica ambigua tra Hamas, Israele, Siria…
Erdoğan è estremamente pragmatico nelle alleanze internazionali, al di là della retorica ideologica. Un esempio comico ma eloquente: da maggio scorso, la Turchia avrebbe dovuto boicottare Israele. Invece, ha continuato a inviare merci, forse aumentandole, semplicemente scrivendo “Palestina” come destinazione sui documenti, pur consegnando agli stessi destinatari israeliani. Trump forse lo teme proprio per questo pragmatismo spregiudicato, simile al suo. Intanto, le proteste si allargano: 51 province su 81 sono scese in piazza.
Le uniche province dove non ci sono state manifestazioni sono a maggioranza curda, perché Erdoğan sta negoziando un accordo storico con Abdullah Öcalan: un regime carcerario più blando (o la scarcerazione, anche se difficile) e il riconoscimento costituzionale atteso da decenni dai curdi, in cambio del loro voto per la riforma costituzionale che permetterebbe a Erdoğan di ricandidarsi.
Ha agito su due fronti: neutralizzare l’avversario politico İmamoğlu e assicurarsi i voti curdi. Con un inciso da tenere a mente: una buona rappresentanza curda presente alle proteste di Maltepe ricorda al Reis che l’accordo non è ancora concluso, anzi, ed è bene essere pronti a ogni eventualità.
C’è anche un altro aspetto: questo accordo con i curdi serve anche a prevenire una saldatura tra curdi turchi e siriani, specie ora che Al-Jolani in Siria sembra aperto al dialogo con i curdi siriani. Erdoğan, che non è sciocco, vuole anticipare tutti, offrendo un accordo alle sue condizioni. Paradossalmente, sia Erdoğan che i curdi sono oggi più deboli: Erdoğan ha avuto bisogno dei nazionalisti del MHP per governare, e persino loro hanno recentemente aperto ai deputati curdi. Fonti turche affidabili mi confermarono all’epoca che Ankara fu sorpresa dalla rapida avanzata di Al-Jolani e dal crollo del regime di Assad. Pensavano che Russia ed Hezbollah avessero un controllo maggiore, ma la guerra in Ucraina li ha indeboliti. Ora Erdoğan si trova a gestire Al-Jolani, un elemento che forse controlla solo parzialmente, dopo averlo foraggiato per anni.
Immagina la sua frustrazione: “Io l’ho addestrato, finanziato, protetto, e ora questo prende Damasco e fa di testa sua?”. Ora dovranno tornare in una Siria diversa, e non è detto che Erdoğan possa dirigerli dove vuole lui. Sarà interessante vedere le mosse di Al-Jolani, anche alla luce di video recenti che smorzano gli entusiasmi su una “nuova Siria”.

Ekrem Imamoglu sindaco di Istanbul e il Presidente della Turchia Tayyip Erdogan

Che rapporto si profila tra Trump ed Erdogan, alla luce di questo pragmatismo condiviso dalle tinte ciniche?
C’è una certa continuità: i rapporti USA-Turchia sono stati tesi sotto Trump 1 (cacciata dal programma F-35), non idilliaci sotto Biden, e ora con Trump 2.0, il nuovo Presidente capisce che la politica internazionale è complessa.
La guerra in Ucraina non si risolve in 24 ore e il Medio Oriente è un caos. Ha bisogno di alleati. Il ministro degli Esteri Fidan a Washington ha probabilmente negoziato l’aiuto turco in cambio del rientro nel programma F-35 (che per Trump è ormai superato). Il presidente turco è – purtroppo – prezioso su tre fronti: Siria, Medio Oriente (dove è un attore chiave, anche per i legami con Hamas) e, soprattutto, il Mar Nero e l’Ucraina.
Trump, interessato alle risorse minerarie ucraine, avrà bisogno di qualcuno che garantisca la stabilità regionale. Dico “purtroppo”, perché questo significa che le decine di migliaia di persone che protestano a Istanbul rischiano di non avere un futuro nemmeno stavolta.

E l’Unione Europea?
Reagisce con comunicati stampa con cui Erdoğan, metaforicamente, pulisce i vetri del palazzo presidenziale, mentre i singoli Stati membri continuano a fare accordi bilaterali con lui. La nostra credibilità è sotto zero.

Dunque le proteste di piazza sono destinate a essere soffocate?
Queste piazze rimangono interessanti: sono piene di giovani nati o cresciuti sotto Erdoğan, che conoscono solo lui e vogliono legittimamente qualcosa di nuovo.
Hanno conosciuto la Turchia laica e kemalista solo dai racconti. È una generazione diversa, poliglotta, connessa globalmente, che aspira a una Turchia realmente diversa. Per questo è difficile che le proteste possano fermarsi facilmente, sono determinati a continuare a oltranza. Anche le comunità turche all’estero si stanno mobilitando. Il problema enorme è che Erdoğan controlla esercito, servizi segreti, magistratura e ha l’appoggio (o la neutralità interessata) di parte della comunità internazionale. İmamoğlu è stato un buon sindaco, per quanto gli è stato concesso, ma guidare la Turchia in questo contesto internazionale è un’altra storia.
Attenzione: chiunque arrivi dopo Erdoğan erediterà un sistema profondamente segnato da 23 anni di autoritarismo. Quando Santa Sofia fu riconvertita in moschea, nessun leader d’opposizione, nemmeno İmamoğlu, osò criticare apertamente. Una dittatura lascia ferite che richiedono decenni per guarire.

29 marzo 2025 manifestazione in Turchia contro L’arresto DEL sindaco Ekrem Imamoglu

Cosa chiedono le piazze di questi giorni?
Senza dubbio una democrazia piena. La Turchia era su quella strada prima di questa interruzione di 23 anni. È con questo paese che dovremmo dialogare.
Attenzione però: l’opposizione a Erdoğan non è un blocco unico. Il 48% che non lo ha votato alle presidenziali è frammentato in almeno 15 correnti diverse. Come mi disse un’amica turca anni fa: “Prima dobbiamo capire noi che democrazia vogliamo, fare le nostre riforme, e poi busseremo alle porte dell’Europa, quando non potranno più rifiutarci”. Questo processo è la vera sfida di oggi.