Marco Bardazzi: questa è l’America che vuole Trump

La seconda volta di Donald Trump alla Casa bianca sta facendo molto discutere. E anche preoccupare. Per quel che il Presidente va dicendo e per le decisioni già prese. Con l’obiettivo dichiarato di collocare gli interessi dell’America al primo posto.
Un modus operandi destinato a incidere profondamente nelle relazioni internazionali. A cambiarne gli indirizzi. Vedi il confronto duro con l’Europa, il dialogo ripreso con la Russia di Putin, le sfide commerciali globali. Racconto di una strategia che però non è una novità assoluta nella storia degli Stati Uniti. Come ci spiega il giornalista Marco Bardazzi, per anni corrispondente ANSA dagli Usa, autore di contributi su cose americane con la formula del podcast per Chora Media e collaboratore del quotidiano “Il Foglio”  


28 febbraio 2025
Neoisolazionismo e dintorni
Conversazione con Marco Bardazzi a cura di Nicola Varcasia

Quello che sta succedendo lo abbiamo sotto gli occhi. La seconda presidenza Trump è iniziata nel segno di un attivismo e di un cinismo che spaventano. Con ordini esecutivi che spazzano via dipendenti e consuetudini, dichiarazioni infiammanti su tutti i dossier possibili e immaginabili, dall’Ucraina a Gaza, passando per la Groenlandia e il Golfo del Messico. Mentre stiamo imparando a conoscere il vicepresidente JD Vance, il segretario di stato Mario Rubio e il capo del Pentagono Pete Hegseth. Gli esperti hanno identificato questo approccio come il neoisolazionismo americano. Dietro il quale gli Stati Uniti sembrano trincerarsi per poter mirare meglio agli obiettivi, soprattutto economici, dell’America First: influenza nei commerci, terre rare, produzione interna. Ne parliamo con Marco Bardazzi, giornalista esperto di cose americane – è stato anche corrispondente dagli Usa dell’Ansa per 9 anni –  che ha realizzato un seguitissimo podcast con Mario Calabresi proprio su questi temi. Oltre a scrivere di vicende Usa per il quotidiano “Il Foglio”.
Che parte della storia è questa?
L’isolazionismo non è una novità nella storia americana. Gli Stati Uniti hanno cominciato a occuparsi delle vicende del mondo all’inizio del Novecento, sotto la presidenza di Wilson e l’ingresso nella Prima guerra mondiale. Nell’Ottocento erano molto più isolati anche per ragioni geografiche.
Quando sono cambiate le cose?
Negli anni Venti, l’America si è di nuovo rinchiusa in sé stessa per dedicarsi agli affari che andavano a gonfie vele prima della Grande Depressione. Nel decennio successivo comincia un periodo simile a quello attuale. Alla Casa Bianca abitava Franklin Delano Roosevelt, che non voleva saperne delle vicende europee, del fascismo e nazismo emergenti. In cambio dell’approvazione delle leggi sul New Deal, il presidente stringe una serie di accordi con il Congresso in cambio di una forte neutralità.
Tutto finisce con Pearl Harbour.
L’America viene trascinata in guerra e, da allora, con momenti diversi, abbiamo avuto 80 anni di un’America interventista e aperta al resto del mondo. La stagione più vistosa è stata quella neocon di George W Bush e delle guerre in Iraq e Afghanistan. Ma nessuno dei presidenti si è mai tirato indietro. Obama o Biden non hanno fatto grandi guerre, ma hanno mantenuto un grande interventismo su scala mondiale nato nei decenni precedenti.
In che cosa consiste?
È il mondo dei rapporti multilaterali, delle organizzazioni internazionali e del Patto atlantico, che ha dato vita alla Nato e che fino ad oggi ha caratterizzato i rapporti Europa – Usa, quale che fosse il presidente.
Come si innesta un Trump in questa linea?
Il neoisolazionismo è una corrente cresciuta a Washington negli ultimi 10 anni, con i suoi think tank, come la Marathon Iniziative e i gruppi sostenuti da Charles Koch, uno dei finanziatori della destra americana, fautore dell’America First.
Chi lo sostiene?
I suoi punti di riferimento nell’amministrazione Trump sono il vice JD Vance, Donald Trump junior, figlio del presidente e il commentatore televisivo Tucker Carlson, assieme a tanti altri esponenti che si stanno collocando. Più al Pentagono che al Dipartimento di Stato, dove Marco Rubio è una figura dei vecchi repubblicani neocon – quelli che credevano in un ruolo ideale dell’America nel mondo e volevano esportare la democrazia – che però si sta allineando.
La nuova diplomazia americana è quella vista in queste settimane?
Nelle visite in Europa, Vance e, prima di lui, il nuovo capo del Pentagono, Pete Heghset, hanno raccontato la loro visione, dandoci il primo assaggio di come si svilupperà questa politica neoisolazionista americana. Ma non è detto che sia la corrente di pensiero di politica estera dominante. Ci sono ancora molti scettici a Washington e nel partito repubblicano, che non vogliono un disimpegno dal confronto con la Russia o con l’Iran. In molti hanno paura di un disimpegno dal Medio Oriente, soprattutto chi è vicino alle posizioni di Israele. Altre correnti vogliono disimpegnarsi da tutto, ma non dalla Cina, che resta il grande avversario per Washington nei prossimi anni.
In che senso dunque l’America, che oggi sembra così attiva, si sta disimpegnando?
Molte carte sono ancora da scoprire, ora si sta attuando l’annunciata politica dei dazi come strumento negoziale di politica estera. L’isolazionismo americano non significa necessariamente distaccarsi da tutte le cose del mondo, ma abbandonare una posizione multilaterale e gli strumenti diplomatici del cosiddetto soft power.

Ad esempio?
L’agenzia Usaid (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale), che è stata totalmente cancellata, proponeva una visione dell’America nei tanti Paesi in cui costruiva strade e acquedotti e altre infrastrutture, per ottenere in cambio un sostegno e un rapporto di fiducia che così viene a mancare. L’isolazionismo punta più sui rapporti personali e ritiene superati quelli multilaterali. Trump fa intendere di voler gestire direttamente i rapporti con i vari Putin, con Xi Jinping o Nethanyau.
Che cosa significa questo per l’Italia e l’Europa?
Se l’America si isola, il problema è capire chi ci rimette. Trump riconosce gli interlocutori forti e attualmente non ne vede a livello di Unione Europea. In questa politica estera degli scambi personali l’Italia può beneficiarne, almeno in parte, grazie al buon rapporto di Giorgia Meloni con Trump. Però non è detto che questo sia a vantaggio del resto d’Europa.  Non a caso la corrente neoisolazionista è detta anche dei restrainers, cioè di coloro che vogliono trattenere l’America dall’impegnarsi troppo nelle vicende del mondo.
Siamo noi europei i primi ai quali l’America sta dicendo di “arrangiarsi”?
Il Trump 2 offre l’opportunità di ripensare i processi europei. Mario Draghi ha ribadito come l’Europa abbia perso tante occasioni per rafforzare sé stessa su questioni come la difesa comune, la costruzione di una posizione di politica estera collettiva o il superamento della decisione unanime a 27 Paesi. Se ogni leader europeo finisse per bussare alla Casa bianca, a Pechino o al Cremlino con le proprie iniziative, sarebbe la fine dell’Europa.
Sembra l’inizio di un nuovo capitolo.
Entriamo in una fase di grande incertezza. La messa in discussione di questo multilateralismo è una sfida geopolitica nuova. Però sapevamo che Trump sarebbe arrivato alla seconda presidenza con un approccio diverso dalla prima, di forte scetticismo verso gli accordi internazionali. L’America è convinta di essere stata sfruttata, che sia l’investimento sulla guerra in Ucraina o, come dice, Trump, il furto dato dall’Iva negli scambi con le merci americane. Il suo approccio è quello di compiere soltanto scelte che beneficino i suoi cittadini. È il mandato che ha ricevuto, l’opinione pubblica ha questa percezione.
Durerà?
C’è sempre un pendolo nelle vicende americane, come raccontava il grande storico delle vicende americane Arthur Schlesinger. Quando si arriva a una posizione troppo estrema, di solito, gli americani iniziano a reinterrogarsi sul ruolo nel mondo, riscoprono di voler essere partecipi delle vicende mondiali e il pendolo torna indietro. Però è un fatto che adesso stia andando in una direzione molto precisa.
L’altra novità che ha colpito molto nell’inizio del Trump 2 è la presenza dei capi delle big tech nella stanza dei bottoni. L’immagine del giuramento con gli uomini più ricchi del mondo messi praticamente davanti a tutti è emblematica.
Personalmente, ho sempre visto quel mondo come una grande opportunità, pur con la necessità di definire bene le regole del gioco. Negli ultimi anni diverse volte ci siamo un po’ bruciati sull’ottimismo. Mi convince, anche se è molto cinica, la chiave di lettura di Marc Andreessen, uno dei personaggi più importanti della Silicon Valley. Alla domanda sul perché oggi i titani del tech siano tutti con Trump, ha risposto dicendo che avevano un patto non scritto con Washington che è stato infranto.
Quale?
La Silicon Valley doveva essere lasciata libera di innovare, senza lacci o restrizioni. In cambio avrebbe costruito posti di lavoro, ricchezza per molti e, inoltre, i grandi magnati a un certo punto si sarebbero ritirati per fare i filantropi. Il patto con la politica in sostanza era: lasciateci liberi e noi vi restituiremo la grandezza dell’innovazione. Il patto è andato avanti con Clinton, Bush e Obama.
Cosa si è rotto con Biden?
Sono arrivate le inchieste sulla privacy e la gestione dei dati, le convocazioni in Congresso, i fari puntati da parte dell’opinione pubblica e, soprattutto, le indagini sull’antitrust, che chiedevano di smontare le big tech perché troppo grosse. Così, spiega Andreesen, il patto si è rotto e i colossi hanno cercato qualcuno con cui fare un nuovo patto, che è stato trovato in Trump. Perciò li abbiamo visti tutti insieme schierati con lui. Trump garantisce di nuovo libertà e indipendenza, rinuncia all’antitrust e permette di continuare a innovare.
Qual è il problema?
C’è un aspetto della questione che è ideologico e anche più inquietante. La generazione della Silicon Valley dei vari Elon Musk e David Sacks – che ora fa lo “zar” alla Casa bianca sull’intelligenza artificiale – è quella cresciuta sotto l’ala di Peter Thiel, l’inventore di Paypal proprio insieme con Musk. È l’uomo che ha finanziato e lanciato JD Vance quando era nella Silicon Valley.
Qual è la sua visione?
È stato allievo di René Girard a Stanford e la sua idea sul mondo tecnologico andrebbe approfondita. Lui ha cresciuto una generazione di futuri miliardari che crede in un post umanesimo, ritiene che l’uomo abbia raggiuto i suoi limiti e quindi pensa che debba essere aiutato dalla tecnologia per poter proseguire il suo cammino.

Come?
Per uno come Musk questa ideologia si trasforma nel “mandare tutti su Marte”, per altri nello sviluppo estremo dell’intelligenza artificiale. Questa generazione è diversa dagli Steve Jobs, dagli Zuckerberg e dai Bill Gates, è convinta che la tecnologia debba costruire un uomo nuovo. Anche questa visione è entrata alla Casa Bianca.
Perciò l’alta tecnologia non era necessariamente “progressista”, né neutrale, ma solo a disposizione del miglior offerente?
La tecnologia non è orientata, ma le persone che la gestiscono sì. Si può sviluppare l’intelligenza artificiale collaborando con i governi sulle regole del gioco, com’era successo nei primi tempi dopo l’esplosione di Chat Gpt, ad esempio, l’AI Act dell’Ue. Oppure si può pretendere la massima libertà perché la tecnologia di per sé non è minacciosa e risolverà tutti i problemi.
Cosa può fare la politica italiana di fronte a queste novità travolgenti?
Ora è in difficoltà, lo si vede dalla difficoltà di prendere posizione rispetto alla guerra in Ucraina. Però, come dicevamo, l’Italia ha il vantaggio di avere una presidente del Consiglio che ha creato un ottimo rapporto personale con Trump prima ancora che si insediasse e anche con Musk, che oggi è una specie di secondo presidente. Giorgia Meloni si sta posizionando in maniera simile a come la Merkel si posizionava con Putin: era una delle poche che andava a parlargli mentre gli altri lo ignoravano. In questo momento c’è bisogno di parlare con Trump, perché non possiamo permetterci di perdere il rapporto con l’America.
La frammentazione tra le nostre forze politiche però è alta. Come sappiamo, sia la coalizione di governo, sia il nostro arco politico hanno posizioni estremamente diverse, su Trump come su Putin. Credo che questa tornata sia l’occasione giusta per spingere verso una coalizione che sappia decidere quale dev’essere il nostro ruolo in Europa. I festeggiamenti di Conte e Salvini per le parole di Trump sull’Ucraina non fanno bene alla politica italiana. In tutto questo Marina Berlusconi ha detto alcune cose tra le più interessanti e potrebbe essere una nuova protagonista politica.