Manzoni: vivere la peste è un atto di realismo che si dona alla carità

Braidense manzoniana

I 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni sono diventati occasione per animare un’importante mostra a Milano, alla Biblioteca Nazionale Braidense. Titolo: “Manzoni 1873-2023. La peste «orribile flagello» tra scrivere e vivere”.
La ricchissima esposizione è il racconto letterario della peste dalle origini alla contemporaneità con al centro Manzoni e il suo romanzo. Un modo di guardare all’epidemia con una prospettiva diversa, autenticamente umana. Ce ne parla chi ha collaborato alla curatela della mostra. Un’esperienza maiuscola. E un invito a intraprendere un bel viaggio nel mondo manzoniano. Per respirare verità e bellezza.


02 giugno 2023
di Maria Teresa Coppola

La mostra allestita in sala Maria Teresa dal 4 maggio all’8 luglio 2023

La poesia parla ancora all’uomo di oggi?
La voce degli autori può accompagnare la quotidianità delle persone? Ponendomi queste domande ho iniziato a collaborare alla curatela della mostra Manzoni 1873-2023. La peste «orribile flagello» tra scrivere e vivere da poco inaugurata alla Biblioteca Nazionale Braidense per ricordare i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni. Una grande officina di idee si mette in moto, sono partecipe dello spoglio di manoscritti e documenti preziosi, vedo attorno a me la collaborazione di studiosi, archivisti, editori, grafici… Ci si ferma stupiti innanzi alle scoperte di parole e storie ancora attuali, alla bellezza di disegni e schizzi, si ricostruire la storia di ogni manoscritto, opera, autore.
Nasce un palinsesto di progetti a latere: giornate di studi, collaborazioni con studenti universitari per le visite guidate, con associazioni culturali per le trasposizioni teatrali, si creano percorsi audio per i non vedenti… Finché dopo mesi di appassionata ricerca e di collaborazione di tanti soggetti protagonisti si arriva al disegno di un percorso unitario: il racconto letterario della peste dalle origini alla contemporaneità con al centro Manzoni e il suo romanzo. Giungono i giorni dell’allestimento fisico della mostra, si cura ogni aspetto e ogni manoscritto trova il suo posto nella sua teca. L’inaugurazione vede il ministro della cultura, gli assessori, il sindaco soffermarsi sulle opere esposte, la biblioteca ne è onorata e gratificata, gli occhi dei visitatori sono stupiti, curiosi, allietati: è una vera e propria festa. Intuisco che per gli astanti i capolavori della nostra letteratura esposti stanno parlando, dicono loro qualcosa.

Luigi Sabatelli, Studio preparatorio alla acquaforte La peste di Firenze dal Boccaccio descritta, 1801

«Grazie, perché qui respiro!»
Il tema della mostra non è certo leggero, ci riporta subito e inevitabilmente agli anni della pandemia appena trascorsa, eppure c’è chi viene a ringraziare: «grazie, perché qui respiro!». Ma come può, paradossalmente, far respirare il racconto di una malattia che il respiro lo spezzava?
L’Iliade esposta all’inizio del percorso porta sin da subito lo spettatore a una presa di consapevolezza: l’uomo si misura con la presenza dell’epidemie sin dal racconto fondativo della cultura occidentale. Le malattie toccano il singolo e allo stesso tempo la collettività da sempre, nessuno ne è immune, tutti sono sfidati dalle domande di senso ultimo che esse recano. Dalle teche dedicate alla classicità si passa a quelle sull’alto medioevo: tra le opere esposte c’è L’Historia Longobardorum di Paolo Diacono che tratteggia lo scoppio della peste in Liguria, fatale nella devastazione della penisola italiana durante la guerra greco gotica (535-553).
Chi visita la mostra trova nella sua descrizione una situazione che capiamo tutti: il blocco improvviso di ogni attività e abitudine, la disgregazione dei rapporti umani e familiari messi alla prova del contagio… Si giunge alla peste del 1348 a Firenze descritta dai grandi della nostra letteratura con la genialità del Decameron di Boccaccio e il dramma di Petrarca che nel Querulus unisce al dolore della morte quello amoroso della morte dell’amata. Si passa dunque al Quattrocento, nel pieno dell’Umanesimo, con le danze macabre che sfidano l’uomo a rispondere di se stesso innanzi alla morte che livella ogni distinzione sociale e con gli interrogativi della Letilogia di Bettino Uliciani di Trezzo rivolti alla città di Milano: «Dì-me Millan, que te è giovato havere, cotante dignitate et excellentie, de l’amplo sito et de magnificentie, de’ l’incliti Signori et grande havere?»: la morte personificata interpella Milano chiedendole cosa le giovi possedere ogni ricchezza se essa ha il potere di portare via tutto.
Si capisce che l’interrogativo rivolto alla Milano di ieri è trasponibile anche nella Milano di oggi. Il visitatore giunge allora al cuore della mostra, alle pesti borromaiche e alla risposta di Manzoni uomo e poeta.

I monatti sfiancati e la mula di San Carlo – Giovan Battista Crespi detto il Cerano

Don Lisander: Il vero poetico, il vero storico
La peste per Manzoni è l’espediente attraverso cui mettere alle strette l’andamento della storia e far emergere la posizione umana dei suoi personaggi. Nelle teche sono conservati i manoscritti di Tadino, Settala, Ripamonti, le fonti storiche consultate da Manzoni per raccontare la sua Storia milanese del secolo XVII.
Appena si presentano i primi casi di peste, nella confusione di informazioni e di teorie sulle cause e sulla diffusione della malattia, Manzoni si propone di mettere in evidenza i dati, di disporli in ordine cronologico, osservare i rapporti di causa-effetto laddove il fine è sempre quello di far risaltare i comportamenti umani.
Tra gli autori esposti non manca San Carlo Borromeo: all’interno di un gridario milanese, il visitatore legge le sue avvertenze, tra cui quella del passaggio dei preti per le benedizioni delle case. Il vero poetico per Manzoni, infatti, passa sempre dal vero storico, nulla vuole inventare, nulla vuole demistificare: è dall’attenta lettura della realtà che si svelano le verità più profonde dell’umano.
Il culmine della mostra arriva con il celebre episodio di Cecilia, la cui fonte per altro è proprio il Memoriale di San Carlo, introdotto dalle illustrazioni di Gallo Gallina e di Francesco Gonin. Il focus nelle immagini è sui corpi, sulla presenza dei cadaveri – già erano comparsi in mostra i disegni di Luigi Sabatelli, maestro di Hayez, che aveva raffigurato i morti di peste del Decameron di Boccaccio come dormienti, attestando l’indicibilità della malattia. E ancora Manzoni nei capitoli dedicati alla peste ci invita a guardare al dato materiale della morte. A causa dell’insufficienza di fosse comuni, i corpi giacciono in ogni dove abbandonati per le vie di Milano, sono loro il dato che più parla e costituisce un segno per leggere la situazione: è per il loro esubero che si accetta la presenza della peste e si iniziano a prendere i primi provvedimenti. Ed è in contrasto all’orrore dei corpi abbandonati e avvolti in cenci che emerge l’unicità di Cecilia e di sua madre, vittime, quasi martiri, del flagello. L’umanità inaspettata e l’affidamento totale che caratterizzano la donna testimoniano una possibilità più umana e religiosa di attraversare la morte sicché anche il monatto che le sta innanzi prova riguardo e rispetto per questo corpicino vestito come per una festa. Manzoni ne parla come di una ricompensa promessa e data per premio,di un’«insperata mercede», si legge nella Ventisettana esposta: il monatto abituato a trattare i corpi come oggetti a cui si è fatta l’abitudine e anzi come occasione di ruberie e soprusi, sente qui di ricevere qualcosa di totalmente immeritato.

Francesco Gonin, Addio a Cecilia, 1840

La morte annuncia una vita nuova
Se la morte nella percezione comune è l’ultima parola, per alcuni personaggi de I promessi sposi non è così: la madre di Cecilia vede nell’addio alla figlia l’annuncio di una vita nuova; per i frati nel lazzaretto la morte è lo sprone per arginare l’emergenza con impegno e zelo seguendo l’esempio del cardinal Federigo che esorta ad andare incontro alla peste, cosciente che si guadagna più vita andando incontro ad essa che mettendosi al riparo. Nel lazzaretto si anticipa il «sugo della storia»: le difficoltà sono occasione di maggior consapevolezza che la vita è un dono e di maggiore carità.
Una teca della mostra è infatti dedicata alla storia dei lazzaretti in Europa, una storia di cura e carità capace di generare dinamiche di unità e di solidarietà. Ne I promessi sposi scopriamo infatti che chi è capace di realismo si dà alla carità, chi dà credito alle paure, alle voci, cede al sonno della ragione e alla finzione delle unzioni. Ecco l’altro lato della vicenda manzoniana che il visitatore della mostra scopre con la teca dedicata alla Storia della colonna infame, opera con cui Manzoni denuncia l’arbitrarietà del sistema della giustizia nella tremenda condanna agli untori. Accanto si trovano gli scritti di Verri e Beccaria che dimostrano l’ingiustizia della tortura e la falsità delle accuse a Piazza e Mora. Manzoni descrive una Milano in sofferenza, in preda al delirio volendo però sempre far emergere il ventaglio di reazioni possibili al male. Paradossalmente il contagio pone la vita delle persone costantemente a rischio, eppure per Manzoni accettare la presenza del male e affrontarlo porta a un compimento esistenziale: la madre di Cecilia, il cardinal Federigo, i frati nel lazzaretto sono tutti personaggi che guardano in faccia la morte e non ne hanno paura, reagiscono con carità, cioè con un amore che non rivendica alcun possesso.
Un amore libero, come quello dello stesso Manzoni, di Beccaria, o di Verri per la ricostruzione della verità. In una delle teche finali il visitatore scopre il Manzoni uomo che non è mai stato risparmiato dal dolore, che ha affrontato tante morti improvvise ed è stato davanti alla malattia di tanti suoi cari.
L’apparato di epistole esposto ci fa entrare nel doloroso privato della morte della moglie Enrichetta, della figlia Giulia ancora giovane, sposata da poco, morta di tubercolosi, e ancora, della meningite del figlio Pietro; del timore per il diffondersi del colera e il non sapere dove sia meglio cercare riparo; della malattia di tisi della figlia Matilde. Ma, la letteratura per Manzoni riesce sempre a mantenere il suo ruolo fondamentale: si scrive «per il desiderio di conoscere quello che è realmente, di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra» come confessa a Gaetano Giudici nel 1820.
Ecco il valore della mostra che manoscritto dopo manoscritto, ci dona, nella condivisione di un dolore sempre attuale, una prospettiva di senso che tutti possiamo riguadagnare, in cui tutti possiamo ritrovarci e tornare a respirare.