Leopardi tra dubbio e domanda: profezia dell’infinito inquieto dell’uomo moderno

Riprendiamoci l’attimo

La vita è l’unica cosa vera. L’unico spazio per fare il bene. Per vivere il presente. Ma un presente dinamico, non statico. Un’esperienza fertile e non una trappola. Dove poter rintracciare la felicità che la drammaticità entro la quale siamo immersi non può eliminare. Riprendere confidenza con il poeta di Recanati è l’occasione per ridare centralità alle domande fondamentali circa la nostra natura e dunque il significato autentico della vita.


21 aprile 2023
di Mario Elisei

©Diego Loffredo – Napoli

Ho avuto modo di dialogare recentemente con alcuni giovani amici universitari, se sia più conveniente, nella vita, avere dubbi o domande. Parliamo spesso di Leopardi nei nostri incontri organizzati dal Centro Culturale Giacomo Leopardi di Recanati e il presente scritto riassume la nostra indagine, l’indagine su noi stessi.

L’adesso è e non è più

Se qualcosa vive, vive solo nel presente. I fatti, le circostanze, quelle belle e quelle brutte, e io stesso, sono solo “ora”. La percezione di vivere in un eterno presente, la sensazione di essere, per così dire, bloccati nel contingente è però l’opposto della struttura dinamica che genera un presente fertile e ricco, in cui poter rintracciare la felicità.
Un presente statico è una sorta di contraddizione, di trappola da cui il movimento necessario alla vita e alla conquista della felicità non può scaturire. Nonostante il momento che stiamo vivendo sia così drammatico se non tragico, carico di conflitto, solitudine e apparenza, la riscossa non può che venire che da una ripresa dell’attimo – questa specie di compromesso tra il tempo e l’eternità – in cui viviamo. La vita è l’unica cosa vera, spazio per fare il bene, contro la rassegnazione e il male; su questo non possiamo avere dubbi.
Orazio nella sua Ode più famosa afferma che dum loquimur fugerit invida aetas, così, mentre parliamo, l’istante sarà già fuggito; il battere le mani ascoltato è già passato.
Possono dunque sorgere dubbi sul reale delle cose, sull’adesso, tanto sembra effimero. L’adesso è e non è più. Questa dinamica è quella che sottende al pensiero che Leopardi scrisse nel settembre del 1821 nello Zibaldone e che introduce il suo sistema filosofo improntato allo scetticismo: «Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par.1. c.2. §.10.), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere».
I ragionamenti relativi al dubbio sono molto sporadici nello Zibaldone anche se, a varie riprese, il poeta si dichiari devoto della filosofia scettica.

©Fotografia di Diego Loffredo – Napoli – Istagram @diegoloffredo74

Noi speriamo sempre

Occorre dire che il dubbio non è la cifra di Leopardi, il quale è più convinto del certo che del dubbio. È certo che non esistono le idee innate e neanche Dio: «Nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta… Vale a dire di una perfezione la quale abbia un fondamento, una ragione anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono… e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente… Insomma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. (Zibaldone 17-18 luglio 1821). È certo anche che Tutto è male, cioè, tutto quello che è è male; che ciascuna cosa esista è un male… (Zibaldone 22 aprile 1826).
Ma è anche certo che siccome vive, spera: Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno…Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita». (Zibaldone 18 ottobre 1825).
Il dubbio non è dunque lo specifico di Leopardi che anzi si convince di certezze incrollabili – spesso come abbiamo visto non positive – sulle quali poi ritorna e che a volte emenda. Non c’è nulla di scandaloso in questo ed anzi la sua umanità così fragile ce lo rende amico.
A riguardo torna in mente l’esempio della felicità impossibile. Leopardi costruisce un sistema filosofico abbastanza ordinato intorno al tema della felicità che chiama Teoria del piacere e nel quale afferma che il desiderio della felicità è l’unico innato e che l’uomo è certamente fatto per la felicità ma non ha i mezzi per ottenerla: «La cagione, dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine [la felicità], che niuno ha mai ottenuto, non esistono al mondo» (Zibaldone 28 novembre 1826).
Ma poi si innamora e il giudizio, anche se per un breve frangente di tempo, cambia. Così nel Consalvo ribalta l’ipotesi e scrive: «Lice, lice al mortal, non è già sogno/Come stimai gran tempo, ahi lice in terra/provar felicità. Ciò seppi il giorno/Che fiso io ti mirai». È lecito è lecito provare felicità.
Era necessaria, dunque, una donna e l’evento imprevisto dell’innamoramento. Un fatto e non un pensiero. Il dubbio, dal latino dubius, incerto fra due, si infrange di fronte ad una “attrattiva potente”.
È questa “attrattiva potente” che fa virare il dubbio in domanda. Lo specifico leopardiano è infatti la domanda. Domanda di cosa? Di stare, di essere, di esistere, di senso. Questa dinamica è presente in modo sistematico nei “Canti” e significativamente, anche se in modo non sistematico, nelle “Operette morali”. La domanda è domanda di un uomo che vive nel presente, pena nel presente, desidera nel presente, e spera.

©Fotografia di Diego Loffredo – Napoli – Istagram @diegoloffredo74

«Dunque, perché viviamo noi?»

È Leopardi-Tasso che, nell’operetta morale dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, domanda: «Dunque, perché viviamo noi?». La domanda, sappiamo, è quasi sempre funzionale al poeta per sostenere la sua analisi nichilista ma – attenzione – nella poesia apre imprevedibilmente a finestre metafisiche. Nel Canto notturno, il pastore chiede alla luna: «Ed io che sono?». Ne Il passero solitario troviamo: «Che di quest’anni miei? che di me stesso?». Nel canto Ad un vincitore nel pallone Leopardi si domanda: «Nostra vita a che val?».
Nella più nota epistola Al conte Carlo Pepoli leggiamo nell’incipit: «Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso?».
Cioè, come si fa a vivere in questa condizione inoperosa, senza speranza di raggiungere la felicità? indimenticabili, infine, sono le domande in A Silvia sul dolore e sulla morte di una giovane vita portata via dalla malattia: «O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi?».
Le domande di Leopardi sono domande all’essere, sono domande del cuore che nessun preconcetto nichilista può eliminare, quel preconcetto che riduce il presente al nulla. Non è forse ciò su cui ogni inquieto adolescente, in maniera più o meno consapevole, s’arrovella dagli albori della coscienza umana? E anche per noi adulti di questo secolo inquieto, queste domande sono così assurde? E allora perché permangono?

©Fotografia di Diego Loffredo – Napoli 2021- Istagram @diegoloffredo74