Le mille Americhe e la fiducia da ritrovare
Trump ha vinto, Harris ha perso. Il risultato delle elezioni non ha però chiuso le domande sull’America. .CON ha iniziato a porsele con Mattia Ferraresi, caporedattore del quotidiano “Domani” che ha trascorso dieci anni negli States da inviato de “Il Foglio”. Tra l’epopea di Obama e il primo Trump. Un dialogo partendo dall’attualità, per incontrare quelli che, nel suo ultimo libro, ha definito “I demoni della mente” (Mondadori, 2024). Questione ingarbugliata. Se ne parlerà il prossimo 27 novembre proprio al Centro Culturale di Milano
15 novembre 2024
Usa, oggi e domani
Conversazione con Mattia Ferraresi a cura di Nicola Varcasia

Dove sta andando l’America?
A parte il dato politico ovvio, mi ha colpito il fatto che, attorno alla figura di Trump, si sia creata una coalizione elettorale molto eterogenea.
In che senso?
Nel 2016 la sua vittoria si poteva leggere come una risposta all’appello rivolto all’americano bianco maschio. Non c’era infingimento su questo, né su un concetto identitario con elementi di nativismo, xenofobia e razzismo sullo sfondo. Ma stavolta è diverso. Questi elementi non scompaiono, il dato politico-sociale però ci dice di uno spostamento molto più ampio verso destra.
Come si è concretizzato?
Proprio nella fascia dei giovani maschi tra i 19 e 29 anni: alle scorse elezioni, i democratici avevano un vantaggio di 13-14 punti, mentre adesso sono i repubblicani a essere avanti di 10-12 punti. Un cambiamento di opinione così diffuso da parte di un segmento importante della popolazione è una rarità. Trump ha nettamente guadagnato nuovi elettori in 48 stati su 50, nelle aree urbane e suburbane come nelle zone rurali.
Da noi si è parlato molto dello spostamento di voto delle minoranze.
C’è stato, ma l’abbandono del fronte democratico da parte degli afroamericani o dei latinos era una tendenza che già si intravedeva.
Che cosa significa tutto questo?
Il voto ha intercettato forme di disagio culturale e di crescente difficoltà delle persone a trovare una casa politica o, comunque, dei luoghi e contesti ideali in cui sentire rappresentata la propria voce.

Trump rappresenta questa voce?
No, però è stato capace di presentarsi come l’alternativa.
Come ha fatto?
Naturalmente, sono fenomeni frutto di varie concause, ma partirei proprio da quel disagio. Contrariamente all’Europa, in America la politica è sempre stata il terminale di una proposta ideale in cui le persone potevano cercare il proprio senso di appartenenza e una visione del futuro. Questo anche grazie alla figura del presidente, molto sacralizzata.
Quando ha iniziato a rompersi qualcosa?
Ad aver deluso, è stata la politica dei partiti tradizionali, consumati da una logica elitaria e sempre più in difficoltà a parlare con le persone. Però Trump, in questo senso, incarna ancora la fase distruttiva. Con le sue vittorie, ha dato due colpi fortissimi all’establishment democratico ma, nel frattempo, ha distrutto anche il partito Repubblicano, modificandolo geneticamente.
Durante la campagna elettorale, Trump ha detto spesso di essere il partito del senso comune.
Qui c’è un aspetto molto evidente che ha a che fare con quella che, genericamente, chiamiamo la cultura woke. Si è affermata una normatività sociale, scritta e non scritta, che impone di non poter esprimere giudizi riguardo ai temi sensibili, come le questioni di genere, l’aborto o le problematiche razziali. Di fronte alla forte sanzione di tante opinioni nel dibattito pubblico, oggi stiamo assistendo a una reazione altrettanto forte.
Questo ha spostato voti?
Tante persone senza affiliazioni con il mondo repubblicano hanno visto in Trump il protettore della libertà di dire le cose come stanno. Poter tornare a parlare di cose normali a scuola, all’università o nel luogo di lavoro è stato sentito come un punto per cui valeva la pena considerare Trump il meno peggio per rompere questo incantesimo.
Le aziende sono state le prime ad accorgersene?
La cultura corporate americana è sempre molto significativa per capire le tendenze del Paese. Non passa settimana senza che una grande azienda si sfili o chiuda un programma che si occupa di diversity e temi affini. Trump è stato bravissimo a intercettare e a proporsi anche a chi non lo ama come il catalizzatore di questo cambio di direzione.
È un approccio che Trump usa anche su temi ancora più strategici come quello della pace?
In politica estera, Trump è un interprete, più o meno consapevole, del gruppo di repubblicani che, in un tempo andato, erano i paleocon.
Qual era la loro ricetta?
Una visione nazionalista e isolazionista, per cui l’America non deve perseguire alcuna missione civilizzatrice o andare in giro a fare guerre vestendo in panni del poliziotto del mondo. Deve, al contrario, coltivare il suo interesse nazionale di grande potenza, instaurando rapporti buoni con tutti, attraverso i commerci, in un clima di protezionismo (con dazi e contro dazi), per vivere e prosperare ciascuno nella sua economia protetta. Con l’era Reagan, come sappiamo, l’America ha scelto la direzione opposta.
E dei paleocon si sono perse le tracce.
Questo gruppo, all’epoca minoritario, si è un po’ inabissato, ma non è sparito. Perciò, quando Trump oggi parla, certe idee che sono già dentro i globuli rossi del mondo repubblicano si risvegliano.
Cosa può voler dire un isolazionismo americano nello scenario di oggi?
È sempre più evidente che la soluzione di una vittoria militare in Ucraina non sia all’orizzonte. Perciò l’idea di un negoziatore funziona e, in questo momento storico, ha più attrattività dell’invio di armi fino alla vittoria totale senza condizioni. Anche il conflitto in Medio Oriente, che pure ha caratteristiche diverse, vive di questa dinamica.
Trump è in grado di fare tutto questo?
Credo che non abbia le capacità per svolgere questo compito. Però ha il potere e tutte le leve degli americani per portare tutti questi attori attorno un tavolo. Il rischio è che, da millantatore qual è, Trump racconti al mondo di avere risolto le cose, magari al telefono con Putin, senza che seguano degli effetti veri e propri. In questa grande confusione bisogna però riconoscere che nei 4 anni di presidenza precedenti qualcosa ha funzionato.

Cosa?
Sugli Accordi di Abramo ciascuno può avere un giudizio più o meno positivo, però è comparso un orizzonte iniziale di accordo verso un percorso di normalizzazione delle relazioni di tutta l’area con Israele. Chiaramente, questo è in contraddizione totale con la promessa che oggi Trump fa, implicitamente o esplicitamente, a Netanyahu, di voler essere con lui fino alla vittoria totale spalleggiandolo nel tentativo di impedire ad ogni costo la nascita di uno stato palestinese.
Non solo verso l’esterno, forse anche all’interno oggi ci sono veramente troppe Americhe?
Dal punto di vista sociale, ci sono sempre state mille Americhe, con tradizioni mischiate e la convivenza di tante concezioni di vita. Ciò che si è incrinata in modo preoccupante, facendoci pensare a una maggiore polarizzazione rispetto al passato, è la comune fiducia di tutti questi gruppi nel fatto che una serie di istituzioni possa tenere insieme le differenze dentro un progetto comune. Finora la forza di coesione è sempre stata quella istituzionale, con un comune riferimento alla Costituzione, cuore del progetto americano, e alle istituzioni che la interpretano.
Capitol Hill è stato un punto di non ritorno?
Certo, è la complicazione del 6 gennaio, quando una parte ha detto di non voler più accettare la regola di convivenza comune, quella della maggioranza e del rispetto della risoluzione di una disputa attraverso le elezioni. Ma è anche la complicazione di chi dice di non fidarsi più della Corte Suprema perché ormai è immersa in un clima di partigianeria e di fazione. I Padri Fondatori erano ossessionati dalla fazione, perché capivano che l’America aveva nel suo cuore le differenze. Temevano che prendessero il sopravvento sul sistema comune.
Chi sta lavorando perché questa fiducia torni?
La mia speranza è che dentro il fenomeno distruttivo di Trump ci sia qualcuno che stia cercando di ricucire. A livello di establishment repubblicano, spero che il vicepresidente JD Vance con le sue caratteristiche, la sua età e la sua impostazione possa essere questa persona.
E sull’altro versante?
Faccio l’esempio di Lina Khan, messa da Biden a capo della Federal Trade Commission, un personaggio straordinario che sta lavorando contro l’oligopolio tecnologico dei giganti della Silycon Valley, con l’obiettivo di frammentarne il potere. La mia speranza è che venga confermata dall’amministrazione repubblicana.
Cosa alimenta questa sfiducia nelle istituzioni che poi significa nella società?
Uno dei fattori è la crisi pesantissima dei corpi intermedi. È chiaro che per alimentare la fiducia nelle istituzioni non bisogna partire dalle commissioni o dal vicepresidente, ma dallo sceriffo, prima carica più vicina ai cittadini. Per un dibattito su chi sia lo sceriffo migliore bisogna però avere dei giornali locali forti, sani, capaci di raccontare le cose. Servono i sindacati, le chiese, i commerci locali che invece sono stati devastati da Amazon e in generale dal mondo della consegna a domicilio.
Il sottotitolo del tuo libro parla di un’epoca in cui non si ha fiducia in niente ma si crede a tutto.
Facciamo sempre più fatica a conoscere la realtà, non solo in America. Come se la posizione fondamentale dell’uomo contemporaneo fosse condannata a una sfiducia verso ciò che vede, sente e sperimenta e ci fosse sempre qualcos’altro dietro.
È questa la postura fondamentale che, in fondo, unisce due mondi apparentemente così distanti come quello dei complottisti di destra e gli ideologi del woke?
Le loro strade poi si dividono, ma la premessa è comune: la realtà che vediamo è un inganno, ci sono altre forze che muovono la storia. A destra si dice che siano le élites globaliste. Ad esempio, quelle che attraverso i vaccini cercano di controllare le nostre menti. A sinistra rispondono che dietro ogni fenomeno c’è l’oppressione capitalista razziale o il patriarcato. C’è sempre e comunque un altro set di forze che dominano.
Da dove nasce?
Questo atteggiamento fondamentale di tutta la storia della modernità ha trovato degli acceleratori più prossimi che, negli ultimi 25 anni, sono stati il teatro di una serie di delusioni molto significative che hanno eroso la fiducia delle persone, come l’idea, tragicamente fallita, di esportare la democrazia, la crisi finanziaria del 2008 e la promessa mancata della tecnologia.

In che senso la tecnologia è una mancata promessa?
Nel giro di dieci anni, siamo passati dall’iperottimismo tecnologico della Silicon Valley – che prometteva di preparare l’uomo nuovo in una società sempre connessa capace di renderci tutti ricchi, informati e in grado di comprendere meglio le cose – al tecno negativismo di oggi. Dove gli stessi soggetti idolatrati fino a poco fa, oggi vengono accusati di essere i detentori di strumenti che ci rendono sempre più stupidi e schiavi, gli oligopolisti più assetati di potere e di denaro dei banchieri degli anni Ottanta o dei padroni delle ferriere degli anni Trenta.
Come se ne esce?
Non vedo soluzioni dall’alto, ma solo la possibilità di fare un passo dopo l’altro nella ricostruzione di catene di fiducia personali. Giussanianamente parlando, con il dare un po’ di spazio all’oggetto, cioè alla realtà; questo è l’unico modo per avviare un processo di ricostruzione, agendo sul terreno della conoscenza.