La vita non è fiction
La speranza che non scuoce

La patologia psichica. Un centro diurno. Clara e Piero, due persone con dentro il male di vivere. Due vite che si stanno perdendo. Ma, in fondo, non lo desiderano. Fanno danni e si fanno danni tutti i giorni. Eppure qualcosa di diverso può sempre accadere. E accade. Senza che la favola e l’illusione prendano il sopravvento, però. Si può provare a ripartire, certo. Magari aprendo un ristorante. È il sugo di “Marilyn ha gli occhi neri”, con Miriam Leone e Stefano Accorsi. Una commedia che non nasconde nella dispensa i gravi disagi. Ma che svela una realistica, e sempre provvisoria, via d’uscita dall’inferno che hanno dentro. Al di là della chance del ristorante. Il film è in cartellone al Meeting di Rimini. E ci sta proprio bene in un’edizione che ha come protagonista la passione per l’uomo   


22 luglio 2022
di Enzo Manes

Clara e Piero hanno l’inferno dentro. Sfasciano e bruciano per farsi del male. E fare del male. Una patologia che li ingabbia. Una patologia che li consuma e loro fanno poco o niente per non essere consumati. I primi minuti del film, di “Marilyn ha gli occhi neri” (disponibile sulle piattaforme digitali, in dvd e in cartellone del Meeting di Rimini edizione 2022, nella serata del 21 agosto, Corte degli Agostiniani, ore 20.30) offrono in modo diretto esempi del loro male di vivere.

I loro atti li seguono

Clara e Piero sono costretti a frequentare e si vede quanta malavoglia e astio vi è in quella frequentazione forzata, un centro diurno dove dovrebbero provare a fare i conti con le proprie esistenze fratturate, più che nevrotiche. E poi, chissà… Ma se non ci stanno cosa potrà mai venirne di buono? Per Clara e Piero le giornate passano così, stracche o con la miccia innescata pronta ad essere infiammata, pronta all’esplosione distruttiva eautodistruttiva. I loro atti li seguono. Fuori di lì, Clara è prigioniera del suo sogno: ha il mito di Marilyn, ma la “sua” Monroe non è bionda e ha gli occhi neri (e magari, su questo, potrebbe avere ragione). Un matrimonio mandato in frantumi, un marito non proprio irreprensibile (non lo si incontra mai, però). Si inventa e interpreta spot promozionali girati a casa in cui viene fuori anche una certa creatività. All’apparenza si tiene su così. Ma la vita non è fiction. La vita non è mai Marilyn per lei. E allora giù… Piero, fuori dal centro, dovrebbe cercare lavoro dopo l’ultimo disastro, sta a casa con suo padre per la rottura con la moglie – che non ne sopporta più gli scatti violenti, arrabbiati – e lo tormenta la difficoltà a mantenere un rapporto vero con la figlia piccola che ama davvero. In quel caso corrisposto. La sua passione che è stata anche lavoro sono i fornelli; è un buon cuoco; dunque, una buona creatività pure lui. Clara e Piero: entrambi creativi. Creativi molto a singhiozzo. E il singhiozzo viene scandito dall’invadenza dei blackout. La patologia imballa tutto. Trattiene. Lega e fa oggettivamente male.
Clara non si accetta. Piero non si accetta. Al centro diurno si annusano sempre pronti al duello, all’ira, a mandare la giornata in frantumi. Però la realtà è testarda, anche perché loro, a loro modo, non è che all’inferno si trovanoproprio bene. Scelgono di finirci, certo. Ma è una lotta dentro il bruciore. Che non si spegne neppure con la frase meno riuscita, quella più rassegnata e cattiva. E questo il film, nel suo incedere, lo mostra tutto. Al punto che l’occasione di una concreta risalita arriva. Con la possibilità di aprire al centro diurno un ristorante. Con uno scopo, una frase trattenuta dagli ospiti negli incontri con il direttore e la psicologa. Ovvero mettere su un ristorante per “far venire il fuori qui dentro”. Un menù di normalità. Di relazione. Frammenti di un qualcosa. Materia prima di una vita di segno diverso per provare a fasciare il proprio disagio psichico anziché, in modo connivente, sfasciarsi e sfasciare.

Vedersi sotto una luce diversa

Con ironia, senza assecondare troppo il politicamente corretto, la storia racconta il tentativo di costruzione del singolare ristorante. Un passo in avanti, due indietro e poi due in avanti e uno a ritroso. Questa è la lotta per un buon fine. Anche affettivo. Là dove la patologia nel gruppo guidato da Clara e Piero (si evidenzia una leadership naturale) è sempre presente. Ma intanto si procede. Il locale è arredato bene (Clara ha occhio) con le sue vistose imperfezioni. Naturalmente il ristorante si chiama Monroe. Clara è brava. Sa fare marketing attraverso i social. Sa suscitare curiosità, mette l’acquolina in bocca. Il telefono squilla che è un piacere. Fioccano le prenotazioni. Cresce la tensione. In cucina si litiga, ma Piero un piatto all’altezza ha promesso di farlo. Uno solo, molto buono e impiattato come si conviene. Tutto esaurito all’inaugurazione. Tutto esaurito anche i giorni appresso. Con gli incidenti del caso per non dimenticare nulla. Perché loro sempre loro. Anche se quel lavoro messo in piedi quasi su due piedi non è come niente. Qualcosa di diverso dall’inferno, ecco. Potrebbe essere un “finalmente” definitivo? Una risalita che sa di liberazione perché le loro libertà hanno ingranato per il verso insperato? La conquista fa stare bene. Lo pensano, se lo dicono, lo dicono. E si vede che è così. Si impegnano a fare bella figura. E scoprono il gusto di vedersi sotto un’altra luce. Di essere visti, forse come mai prima (“perché è brutto quando non ti vedono”) da quel fuori che entra dentro il Monroe. La squadra è fiera. Sgangherata, ma è un attimo che può far ritorno il Vietnam, la guerra, le ferite profonde che non si rimargineranno mai. Eppure il piatto c’è; il servizio sgarrupato c’è. La voce di Clara che riesce a vincere le sue paure e portare sul piccolo palco del Monroe la “sua” Marilyn e cantare la celeberrima “I wanna be loved by you”. La vita che non si aspettavano più erutta, apre un buco nel muro. Parrebbe proprio che il piccolo lavoro fatto abbia prodotto un buon lavoro. E nulla si perde più. Quel che è conquistato permane. È un dato. Un dato di fatto. Nella lotta accesa di tutti i santi giorni.

Uscire da tic e brutture

Simone Godano firma una commedia dove tocca argomenti sensibili. Edulcora poco. E questo è un merito. Il Vietnam, inteso come guerra, è il Vietnam. Non si scappa. E la macchina da presa non si perde alla ricerca di quello che non può essere cercato. Perché non esiste, è un’illusione. Gli occhi di Marilyn negli occhi di Clara domandano una piccola novità per contenere la bruttura che è in lei e avverte su di lei. Le facce che sono tic eccessivi e ossessivi di Piero domandano una nuova possibilità ogniqualvolta scampa al bombardamento di cui è causa. E le sanzioni previste non paiono una macina da mulino messa al loro collo per poi essere gettati nel mare. Nell’inferno. Perché non può finire così. Sarebbe la fine. La pietra tombale sopra una storia che non può essere sbagliata per sempre.
Clara è Miryam Leone. Prova d’attrice importante. Era forte il pericolo di farsi prendere la mano ed eccedere. Invece, ben diretta, riesce a rimanere nel registro della misura conscia di interpretare un ruolo complicato a rischio manierismo e insopportabile retorica. Piero è Stefano Accorsi. Stessi rischi di sprofondare nel caricaturale superati brillantemente.
Un film che si trova a proprio agio in un Meeting che si intitola “Una passione per l’uomo”. Un film che invita a non arrendersi a ciò che delude. A non mettersi al riparo dagli occhi di Marilyn che ti fissano. Con quell’espressione un po’ così.


Immagini:
Marylin Monroe canta
Dal film “Marilyn ha gli occhi neri”, Miriam Leone
Dal film Marilyn ha gli occhi neri, Stefano Accorsi e Miriam Leone / ©Noemi Ardesi
©Noemi Ardesi
I protagonisti del film “Marylin ha gli occhi neri”