La richiesta di libertà delle giovani donne iraniane è una sfida al cuore della Repubblica Islamica

Seppur non a ritmi regolari, nella storia dell’Iran degli Ayatollah non sono infrequenti moti di protesta. Puntualmente repressi nel sangue. Sarà così anche questa volta? Non ci può essere la possibilità di avviare finalmente un corso diverso (spiragli di riforme) seppur in un Paese fortemente controllato e dunque senza aspettarsi l’affermazione di un modello occidentalizzato? Difficile avventurarsi in previsioni. Il dato certo è la natura “molto” politica delle manifestazioni. E non per motivi religiosi od economici. Ma soprattutto si osserva il fatto che a guidarle sono giovani e giovanissimi. E chissà che il segnale di novità di questi giorni non possa allargare il consenso e promuovere un virtuoso patto intergenerazionale. 


4 novembre 2022
di Claudio Fontana

Da più di un mese in Iran si manifesta e si muore per le strade, nelle piazze e nelle carceri.
Tutto è iniziato lo scorso 16 settembre, quando è stata resa nota la morte di Mahsa Amini, ventiduenne iraniana appartenente alla minoranza curda. Mahsa è deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per aver indossato l’hijab in maniera “inappropriata”. Le autorità, che sotto l’impulso del presidente Ebrahim Raisi hanno reso più stringente l’applicazione delle regole sull’abbigliamento femminile, si sono affrettate a dire che la ragazza è morta in seguito a un malore, ma alcune foto e video diffusi dall’ospedale in cui è stata ricoverata prima del decesso mostrano in maniera piuttosto evidente i segni delle percosse subite.

Donna, vita e libertà
Le giovani donne iraniane sono alla testa di manifestazioni e proteste che si svolgono ormai in tutto il Paese, non soltanto nelle grandi città, per chiedere giustizia per Mahsa e la fine delle politiche discriminatorie nei confronti del genere femminile, a cominciare da quelle sull’abbigliamento.
Le autorità statali iraniane hanno inizialmente comunicato che sarebbe stata avviata un’indagine, ma in breve tempo sono passate a un registro che pasdara e basiji conoscono fin troppo bene: la repressione violenta, accompagnata da accuse a “nemici stranieri” che aizzerebbero le folle.
E così, dopo Mahsa, hanno perso la vita anche Nika Shakarami (16 anni), Hadis Najafi (22 anni), Sarina Esmailzadeh (16 anni) e almeno altre 200 persone, anche se è molto difficile stabilire il numero preciso di quanti hanno perso la vita.

In marcia per la manifestazione del 26 ottobre 2022 a un mese dalla uccisione di Mahsa Amini

Le comunicazioni sono difficili anche per via del blocco di internet che lo Stato iraniano decreta per contrastare le capacità organizzative dei manifestanti e per rendere più difficili le attività giornalistiche nel Paese. Il 26 ottobre, a quaranta giorni dal decesso di Mahsa Amini, una folla di grandi dimensioni ha marciato verso il luogo di sepoltura della ragazza, una pratica comune in Iran che però, in questo caso, il regime ha cercato in ogni modo di scoraggiare attraverso lo schieramento di ingenti forze di sicurezza e le misure repressive.
Tutto è stato vano, come testimoniano le impressionanti immagini del corteo. Le proteste proseguono giorno dopo giorno al grido di «zan, zandegi, azadi» (donna, vita e libertà), nonostante gli uomini e le donne iraniane (che peraltro hanno un significativo livello di istruzione, rappresentando circa il 60% della popolazione universitaria del Paese) sappiano bene quali siano i rischi.
Naturalmente è impossibile sapere dove condurranno queste proteste e che forma assumeranno. L’evoluzione dell’Iran verso un modello democratico simil-occidentale appare comunque una possibilità remota, anche qualora dovesse crollare la Repubblica Islamica fondata sul velayat-e-faqih, la tutela del giurisperito.
Inoltre, l’eventuale rovesciamento dell’attuale regime non sarebbe garanzia di un futuro migliore, perché il rischio dell’avvento di una dittatura militare sarebbe elevato.
Cionondimeno, è importante osservare con attenzione quanto sta avvenendo, perché ci permette di cogliere diversi elementi della situazione attuale dell’Iran. In primo luogo, le proteste di questo mese ci mostrano le storie di donne, spesso giovanissime, disposte a morire pur di affermare il loro diritto di non indossare il velo, il loro desiderio di libertà basilari e la loro insoddisfazione nei confronti di uno Stato talmente invasivo da arrivare a toccare la sfera più intima.

L’Ayatollah Ruhollah Khomeini Khomeini, Guida suprema dell’Iran dal 1979 al 1989 @IlSole24Ore-Web

Le manifestazioni riguardano dunque primariamente l’obbligatorietà del velo, non tanto in quanto simbolo religioso, quanto come elemento politico. La Repubblica sorta dalla rivoluzione del ‘79 ha infatti eretto a suoi pilastri quei simboli che potessero dimostrare l’avvenuta islamizzazione della società e dello Stato. L’hijab si prestava a questo proposito e perciò la Repubblica Islamica ne ha fatto una pietra angolare della teocrazia in vigore.
Tuttavia, e lo stiamo osservando proprio in questi giorni, l’imposizione dall’alto di un ordine morale e religioso non ha portato a null’altro se non al progressivo allontanamento della popolazione, soprattutto dei più giovani, dall’Islam e dai “politici col turbante” che governano un regime che, in ogni scelta politica, sembra opporsi al normale svolgimento della vita dei cittadini.

Iran, proteste a Teheran 

Lo Stato soffoca tutto
In questo contesto si capisce come, attraverso la critica nei confronti dell’obbligatorietà del velo, le donne iraniane e i tanti uomini che condividono la loro battaglia stiano esprimendo in realtà una potente critica all’intero Sistema (nizam) iraniano. La rivoluzione guidata (e in seguito egemonizzata) dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, si proponeva, in una visione dicotomica del mondo, di liberare le masse dei poveri e degli oppressi (mostazafan) dal giogo della ristretta élite di oppressori (mostakbarin). «Dobbiamo rovesciare i governi oppressivi instaurati dagli imperialisti e dare vita a un governo islamico di giustizia che sia al servizio del popolo», affermava Khomeini nel 1970 durante una delle sue lezioni da Najaf.
A quarantatré anni di distanza dalla rivoluzione, ciò che sta accadendo testimonia una volta di più che il popolo resta oppresso, e la rivoluzione ha portato soltanto al cambio della natura degli oppressori. L’assenza di libertà è pressoché totale: basti pensare all’ambito economico, dove la libera iniziativa è soffocata dalla presenza dello Stato, delle realtà collegate ai religiosi (note come bonyad, fondazioni religiose), e soprattutto dei conglomerati che fanno riferimento ai Sepah-e Pasdaran, il corpo dei Guardiani della Rivoluzione.
Le proteste di questi 40 giorni si distinguono inoltre per diversi elementi dalle precedenti eruzioni del dissenso, sempre più frequenti in Iran. Anzitutto, per la prima volta dopo diversi anni, il motivo delle manifestazioni è prima di tutto politico e non economico. Ciò non significa che fattori economici non abbiano una rilevanza: in un certo senso queste manifestazioni sono state edificate sopra gli strati di frustrazione per la pessima situazione economica, con le sanzioni e soprattutto l’inflazione che colpiscono i consumatori. Oggi però, non si manifesta per chiedere migliori alloggi o una paga più dignitosa, ma per la caduta del regime.
D’altro canto, come hanno osservato alcuni analisti, la difficile situazione economica rischia di limitare la capacità delle manifestazioni di colpire al cuore il regime degli ayatollah.

L’ayatollah Ali Khamenei

Se è vero che alcuni lavoratori del settore petrolchimico sono scesi in sciopero, è altrettanto vero che anni di ristrettezze economiche rendono molto più “costoso” per i lavoratori scegliere di scioperare, perché sarebbe più difficile riuscire a sostenere le conseguenze che potrebbero derivarne, come l’arresto o la perdita del posto di lavoro.
Anni di ristrettezze hanno eroso i risparmi dei lavoratori e scoraggiano la realizzazione di quei grandi scioperi nazionali che contribuirono in maniera significativa al rovesciamento dello scià. Tuttavia, una delle conseguenze della natura politica della protesta è che essa è eterogenea nella sua composizione: quando si manifestava contro il carovita, la disoccupazione o i problemi legati alla malagestione delle risorse idriche nel Khuzestan, erano soprattutto le classi meno abbienti, maggiormente toccate da questa tipologia di problemi, a scendere in piazza. Oggi invece anche esponenti delle classi medie, alcuni bazaari, le minoranze etniche, e tantissimi studenti, tanto universitari quanto della scuola, si riversano nelle strade, senza distinzioni di classe.
Un altro elemento di novità delle manifestazioni di questi giorni è quello generazionale. Seppure persone di altre generazioni, e persino qualche chierico della città santa di Qom, abbiano mostrato il loro dissenso nei confronti della situazione attuale, le persone che oggi manifestano sono soprattutto giovani e giovanissimi, studenti delle scuole e delle università che, sommati, fanno circa un terzo della popolazione iraniana. Una massa di giovani che, a differenza delle élite di governo, non ha vissuto in prima persona i due momenti chiave della formazione dell’attuale Stato iraniano: la Rivoluzione del 1979 e la guerra Iran-Iraq combattuta tra il 1980 e il 1989.

Le contraddizioni del regime
Da ultimo, è utile mettere in relazione queste proteste con quanto avvenuto nel panorama politico iraniano degli ultimi anni. Il sistema iraniano è duale, composto da organi a legittimazione religiosa e da altri (il presidente della Repubblica, il majlis, l’Assemblea degli Esperti) a legittimazione popolare. Dall’instaurazione della teocrazia, in Iran si sono sempre svolte le elezioni che, seppur non libere, hanno rappresentato una utile valvola di sfogo e di composizione di istanze politiche differenti. Non a caso il regime ha sempre considerato la partecipazione popolare alle elezioni un importante elemento di legittimazione della sua autorità.
Nell’ambito di questa competizione era anche permessa una certa diversità di opinioni politiche come quella – semplificando – tra conservatori e riformisti che ha visto l’alternarsi di presidenti come Ahmadinejad e Raisi da un lato, e Khatami e Rouhani dall’altro.
Negli ultimi anni però le forze più conservatrici hanno utilizzato tutti i mezzi a loro disposizione per eliminare ogni possibile spazio di dissenso politico. Questo ha portato all’eliminazione preventiva dalla corsa presidenziale e parlamentare dei più noti esponenti riformisti.
Un dato relativo alle ultime elezioni per l’Assemblea degli Esperti rende bene l’idea di quanto la parte non rappresentativa dello Stato iraniano abbia ristretto lo spazio politico: il Consiglio dei Guardiani, organo deputato a decidere chi tra coloro che vorrebbero candidarsi ha le caratteristiche adeguate a farlo, ha approvato solo il 20% delle candidature.

Un dato che scende all’1,2% se guardiamo alle ultime elezioni presidenziali, dove tutto era stato “apparecchiato” affinché Raisi non potesse perdere. Non stupisce quindi né che l’affluenza sia stata la più bassa della storia repubblicana né che una delle donne che manifesta in questi giorni abbia dichiarato: «abbiamo provato a riformare [il sistema]. Abbiamo votato per Khatami. Abbiamo votato per Mousavi. Abbiamo persino votato per Rouhani. Ora mi unisco agli eversivi. Rovesceremo il regime. Lasciate che le persone all’interno [del carcere di] Evin decidano come debba cambiare l’Iran». La speranza è che i pasdaran, creati appositamente per proteggere non il Paese, ma la sua configurazione teocratica, non tramutino tutto ciò in un insopportabile bagno di sangue.