La lunga notte della guerra e la speranza insonne. Con Carrére e Da Empoli.

Letture in trincea

Per conoscere qualcosa della Russia che si autoproclama macchina degli incubi dell’Occidente, ci servono due libri per andare in avanscoperta. Per scoprire la potenza di quel motore che muove una macchina che sta producendo incidenti mortali. Due romanzi costruiti sul racconto della vita di due uomini reali: Eduard Limonov (il libro è del francese Emmanuel Carrère), fondatore insieme al filosofo di Putin, Alexander Dugin, del Partito nazionalbolscevico. Vlasilav Surkov, il secondo, primo consigliere dello zar del Cremlino (il libro è di Giuliano da Empoli). Pagine su due personaggi diversissimi fra di loro ma accumunati da un qualcosa che suscita in tutti noi interrogativi e il desiderio di capire di più. Della Russia, ma anche di noi. 


24 febbraio 2023
di Enzo Manes.

Maxim Kantor artista russo – Tiratura infinita, 2003 Olio su tela 200×188 ©Catalogo Fondazione Stelline-Museo Russo, Palace Edition.

Eduard Limonov, nato ottant’anni fa e morto nel 2020, scrittore brillante, eccessivo, strafottente; politico stravagante con idee inquietanti (fonda il Partito Nazionalbolscevico che nel nome rieccheggia qualcosa di sinistro, ma anche di destro), per certi versi molto russo seppur di sangue ucraino. Sarebbe lui il sostenitore (a modo suo) della guerra scatenata da Putin giusto un anno fa? E che ne è stato di Vladislav Surkov, mentre sopraffina, idee fascisteggianti, stratega coinvolto nell’esercizio del potere, abilissimo nel preparare il copione per l’ascesa al posto di comando dello zar Putin? D’un tratto, nel 2021, è uscito dalle sue grazie, e per la storia di quel grande e misterioso Paese, potrebbe rivelarsi lecito affermare che sia finito “purgato”. Secondo anche quel che suggerisce la tradizione, non solo bolscevica.

Le facce di Bukovski e Macchiavelli

Eduard Limonov e Vladislav Surkov, due storie, due destini, due facce, però, di un’unica medaglia. Quella che circola e fa la differenza della Russia e nella Russia. Diversissimi per stile e fascinazioni in genere. Il primo, quasi un Charles Bukovski venuto dal freddo, spesso lacero e contuso esistenzialmente, attratto dal verso poetico e da mille deviazioni; l’altro, più ordinato, macchiavellico, avvezzo a frequentare i pensieri alti, a concedersi poco per produrre molto così da giungere a dama. Aiuta a conoscerli almeno un poco, tanto da misurarsi con le ombre di questo presente dove la Russia percuote e strattona la storia con l’intemerata invadente dello zar di Mosca, la lettura di due libri così distanti ma così vicini fra di essi: “Limonov” di Emmanuel Carrére (Adelphi, 2012) e “Il mago del Cremlino” di Giuliano da Empoli (Mondadori, 2022). Carrére si è cimentato con la figura di Limonov, perché ha ritenuto che «la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non soltanto di lui, ma della storia di noi tutti dopo la fine della Seconda guerra mondiale».
Da Empoli, saggista, consigliere politico italiano e svizzero che risiede a Parigi dove insegna politica comparata a Sciences-Po, ha indagato Surkov, quasi facendone un Macchiavelli del XXI secolo, dunque un mago della politica con venature iconoclastiche, aduso a mischiare le carte, a costruire castelli per poi farli cadere quando inutili allo scopo, cinico a più non posso. Il potere per il potere. Ovvero: il tutto è falso, il falso è tutto, celierebbe Gaber.
Quanta Russia vi è in quelle storie. Quante domande vengono fuori dal sottosuolo. L’impressione oggi è che non valga la pena provare a capire fino in fondo le questioni di fondo che ci inquietano quando ci rapportiamo alla Russa, al suo regime, al suo popolo, soprattutto incalzati quotidianamente dal dramma della guerra. L’accostarsi alla grandezza imperfetta (non è un ossimoro ma un certificato di qualità) di questi due scritti permette di non far nostro quel senso di apatia e di passività che rasenta la rassegnazione davanti all’irragionevole misfatto della violenza, di nuovo così bruciante dal 24 febbraio 2022.

Emanuel Carrere Copertina de Il Mago del Cremlino

Ovvunque e comunque Russia

Carrère racconta di una personalità conosciuta sia in Francia che in Russia. Colpito dalla sua impertinenza, dalle sue vistose incoerenze, dalle sue passioni fuori registro, lo ha indagato, braccato, seguito a distanza, recuperandone tratti di cammino infernali, squilibrati, ma anche profondamente ingenui e qualche volta teneri seppur l’alcool ha fatto il suo sporco lavoro per sporcare una vita randagia.
Ovunque si trovi e naufraghi Limonov è comunque Russia lui la vuole in un certo modo, non melliflua, non vegetariana, non arrendevole. Ha un non so che di militare da assecondare quasi come rivalsa, rivincita, missione disperata; una disciplina in divisa che però non riesce a ingabbiare la sua poesia. Contraddittorio fino al midollo, non ha il culto del comunismo tourt court ma neppure fa il tifo per dissenso filo Occidentale (vero Solženicyn?).
In conflitto con sé medesimo non può che cercarlo il conflitto. Conflitto esistenziale, specie quando va negli Usa per buttarsi via: l’esperienza degli inferi qui e ora. Conflitto armato quando raggiunge la Jugoslavia della guerra civile affiliandosi alla tigre Arkan in spregio delle minoranze musulmane.
Il muscolare che è in lui subisce il fascino di quell’Alexander Dugin, fascistoide e xenofobo con cui contribuirà alla formazione del Partito nazionalboscevico.
I rossobruni, insomma. Adesso parteggiano per Putin. Lo zar che pensa «come Limonov, che la fine dell’impero sovietico sia la più grande tragedia del ventesimo secolo (…)», scrive Carrére.
Forse, andare oltre il forse sarebbe un azzardo, l’ucraino Limonov, si arruolerebbe ora nell’esercito combattente. Già, ma da quale parte (magari incoente ed estremo sceglierebbe l’Armata russa in onore della grande Madre oppure opterebbe per la resistente Ucraina, quella che si porta, per natura, nelle vene)?
Tuttavia – e il libro documenta bene – il nostro non è un putiniano. Carrère lo incontra davanti al famoso teatro moscovita con le famiglie delle vittime (ogni anno sono lì per chiedere giustizia) rimaste uccise per la sconsiderata azione delle forze speciali a cui Putin aveva dato ordine di intervenire per eliminare il commando ceceno che aveva fatto irruzione in sala durante lo spettacolo, prendendo in ostaggio gli spettatori.
Fermare Limonov nelle pagine è impossibile. L’autore neppure ci prova. Lo lascia andare e lo segue. Ci parla e il più delle volte non lo capisce. Però è attratto da quel protagonista che ha rischiato di suo per compromettersi con la storia della Russia. Una compromissione di odio e amore. Ideologica e sentimentale. Poetica e violenta. Ambigua e zoppicante. Come è un po’ la Russia tanto difficile da fotografare: nell’immagine, qualsiasi scatto, sta fuori margine troppo di tutto.

corbis – mascheroni – Anti capitalism march held in Moscow

La verità in una spy story

Il Limonov secondo Carrère è molte cose, ma non proprio un mago. Semmai un vinto, uno sconfitto da sé medesimo. Al cinismo della finzione, al procedere disincantato non è avvezzo e ne paga perciò le conseguenze.
Lo è invece ed eccome Vadim Baranov, il personaggio protagonista del romanzo di Giuliano da Empoli. Che è poi quel Surkov che ha costruito con magie e alchimie varie l’immagine di uomo di potere dello zar Putin.
Il consigliere principe (ecco Macchiavelli!) di Putin non è il solito spin doctor.
Non è un manierista del buon consiglio. È un artista della strategia e della raffinata tattica politica. Ci mette la sua cultura, la sua indole austera e altezzosa seppur mascherata da apparente garbo.
Tagliente quanto occorre; risoluto nei tempi che la sua intelligenza stabilisce; aggressivo per sottrazione; capace di lasciar dire per poi sterzare da un’altra parte.
Sa come stare al mondo, come esercitare il potere assecondadolo. Non teme Putin, ecco perché lo crea con modi azzeccati, nel rispetto dei ruoli, obbedendo alle circostanze, portandolo dalla sua parte nel fargli credere che sta nuotando nelle sue acque. La trama del racconto cattura come una spy story.
Da Empoli, eccellente studioso della politica e delle relazioni internazionali che pratica per lavoro, conduce il lettore all’interno di un mondo che ci appare come un porto delle nebbie. Con scrittura sicura e attrattiva, quasi chirurgica (come chirurgico è Baranov) scolpisce un personaggio memorabile che, allo stesso tempo inquieta e respinge; anche per via dell’impossibilità a conoscere quel che ne è stato di lui dopo il defenstranemento voluto dalla sua creatura Putin.
E se, con un’ultima magia da mago macchiavellico e attore consumato (in effetti nella vita, prima dell’incursione nella politica come luogo per dar lustro all’arte del dominio, ha calcato per davvero i palcoscenici) avesse lui fatto un passo indietro, sparendo nel nulla, riconoscendo di aver completato la propria missione e perciò disposto ad accettare, anticipando la decisione dello zar ormai stufo di averlo tra i piedi, di uscire di scena?

Vlasilav Surkov

Il Macchiavelli dell’est che aveva costruito l’autocrate per filo e per segno non veniva più ritenuto funzionale al nuovo corso delle cose. La risposta a questa domanda resta un mistero. Il che non deve sorprendere.
L’unica cosa certa è che del mago del Cremlino si sono perse le tracce. Ma quanto del Putin che stiamo vedendo, di cui ascoltiamo i discorsi e ciò che lascia alle parole dei propri ministri, sia attribuibile al lavoro svolto da Baranov/Surkov?
Per Giuliano da Empoli evidentemente molto. La finzione pur fiction, se vogliamo, non è di questo libro. Con il mago si partecipa di un viaggio che ha la fisionomia di un incubo. Perché quel che viene descritto, quel che Baranov racconta al suo ospite in una notte che sembra non dover passare mai finché il mago non decide di chiuderla lì, fa venir fuori quel che il potere in Russia pensa di sé, e non da oggi: siamo la macchina degli incubi dell’Occidente. Il Putin dell’invasione dell’Ucraina e della guerra che ha compiuto un anno lo si rintraccia in questa frase che illumina tragicamente il pensiero del mago del Cremlino: «Nulla è più difficile di una decisione, ma quando la si è presa, occorre dimenticare tutto, tranne quello che occorre per realizzarla».

Maxim Kantor, artista russo – La morte di un uomo d’affari, 1995 Olio su tela 270×320 @Catalogo Fondazione Stelline-Museo Russo, Palace Editions

E a un dato momento, in un dialogo serrato e terribilmente profetico è Putin stesso che parla. Già all’attacco, già con la mentalità dell’invasore: «La forza è sempre stata il cuore dello Stato russo, la sua ragion d’essere. Il nostro compito non è solo quello di restaurare la verticale del potere. Dobbiamo creare una nuova élite di patrioti, pronti a tutto per difendere l’indipendenza della Russia».
E il romanzo arriva dentro alla fase dell’azione, a quel che è stato dopo il 24 febbraio 2022. Il Donbass e poi la guerra. L’oggi senza maghi. Senza i Limonov, senza i Surkov. Adesso è il tempo, nella Russia dei misteri e degli inferi, di altri protagonisti. Di altre disperazioni. Di disperazione in disperazione.
Tutto oggi è così istruttivo e distruttivo che è difficile ipotizzare come questo viaggio al termine della notte abbia a concludersi. Però si è concluso il lungo, ammalliante e tenebroso discorso del mago del Cremlino. Come si è concluso il viaggio periglioso e tracimante dell’ucraino Limonov (ma anche del russo Limonov). Chissà che in queste interminabili notti di macerie e ceneri, la speranza sia rimasta insonne.
Chissà.

Putin e Surkov