Editoriale
La lezione di Salamov

Sedici anni di gulag sovietico nella parte più desolata del Siberia. Vicende quotidiane che rivivono nei suoi Racconti di Kolyma. Una lettura illuminante che aiuta a comprendere. A quarant’anni dalla morte dello scrittore russo.

Kolyma, terra desolata e desolante, densa di paludi e ghiacci, nella zona al limite della Siberia nordorientale. L’estate dura un respiro, appena più di un mese. Il resto è altro, sgradevole. Quando l’inverno vi arriva il termometro crolla, anche a sessanta sottozero. In un arco di tempimbarazzante del XX secolo lì ci finiscono deportate milioni di persone che al totalitarismo sovietico non vanno a genio. Incidenti di percorso al progetto partorito e avviato da Lenin, proseguito con scrupolo e ferrea disciplina da Stalin. E gestito con nubi dense nel periodo che ne è seguito. E il resto lo sappiamo o presumiamo di conoscerlo. Il 17 gennaio 1982 muore Varlam Šalamov, scrittore, deportato a Kolyma nel 1937 e rimastovi fine al 1953. Sedici lunghissimi anni con l’accusa di essere un cospirazionista tendenza Trockij. Nelle vicende del comunismo trattasi di metodi piuttosto consueti: guardarsi, prima di tutto, dal nemico interno. Il sospetto è sempre apprezzabile.

Ne sono trascorsi quaranta dalla morte da Šalamov. A lui, alla sua testimonianza diretta, dobbiamo un’opera gigantesca di quel è stato Kolima (I racconti di Kolima). Quando fa ritorno a Mosca decide di mettersi subito a scrivere. Incominciano a uscire racconti intensi della vita e della morte nel gulag. Baracca, lavoro, fame, solidarietà spicciola, incomprensioni, indifferenza, botte. E pensieri. E dialoghi. Per vivere possibilmente in dignità. Desiderio impervio. In una lettera a Solženicyn nel novembre del1962 possiamo leggere il significato della sua missione: «Ricordi la cosa principale: il lager è una scuola negativa per chiunque, dal primo all’ultimo giorno. L’uomo – che non sia capo o detenuto – non deve vederlo. Ma se lo vede, deve dire la verità, per quanto terribile sia. Da partemia, ho deciso che dedicherò tutto il resto della mia vita proprio a questa verità». I racconti di Kolyma li scrive tra il 1953 e il 1973. L’autore non ci risparmia nulla di quella quotidianità forzata, della spietata legge nell’universo concentrazionario. Del destino che si consuma in quella Siberia nordorientale. Nel suo raccontare, letterariamente impeccabile, asciutto, solo in apparenza distaccato, ritroviamo scampoli di ironia, e una pietas che affiora con orgogliosa timidezza. Insomma, una lettura importante. Una stilettata ad una delle espressioni più truci del nichilismo realizzato. Nella ristampa dell’opera (1999), per i tipi dell’Einaudi, non compare quel che era previsto come introduzione ai due volumi: una conversazione tra il traduttore Piero Sinatti e Gustaw Herling un uomo che, al pari di Šalamov, ha frequentato il gulag.

Una tipica forma di censura occidentale alquanto in voga su certi argomenti. Il povero Herling non era stato informato che a queste latitudini non è ancora cosa buona giusta equiparare il nazismo al comunismo. Pure Del Noce e Harendt ne hanno patito per aver azzardato. Chissà se nelle scuole dello Stivale, superando auto – resistenze e inciampi distorsivi, si è ricordato l’anniversario della morte dell’autore russo. Magari con la lettura di qualche pagina dei racconti di Kolyma. Magari con l’immergersi in qualche poesia tratta dai Quaderni della Kolyma: «Sia una cosa, sia l’altra, certo, è la fortuna, / la legge dell’essere, così si dice: / al sole è toccato, in fondo, risolvere problemi / ben più difficili del mio». Magari