La forza di madre: “O Signore, fa’ di me strumento della tua Pace”
Dopo il monumentale e commovente “Apeirogon”, questa volta l’autore americano racconta la storia di incontri tra la mamma di un giornalista free lance rapito in Siria e poi ucciso dall’Isis e l’esecutore materiale dell’efferato delitto. “Una madre” (Feltrinelli) è un testo asciutto, una grande sottomissione alla realtà, un capolavoro di umiltà. Di nuovo una storia spiazzante. Vera. Misericordiosa.
4 ottobre 2024
L’ultimo libro di Colum McCann
di Alessandro Banfi


“Una madre”, titolo originale “An American Mother”, edizioni Feltrinelli, è un’altra storia vera che ci regala Colum McCann. Ma questa volta, rispetto al monumentale “Apeirogon”, è una vicenda asciugata all’essenziale, una grande lezione di sottomissione alla realtà, un capolavoro di umiltà
Pochi scrittori sono ossessionati dal rispetto delle storie che raccontano come McCann. E qui si tratta di un libro scritto a quattro mani con Diane Foley, la mamma di James Foley, detto Jim, giornalista americano free lance rapito in Siria e poi ucciso dall’Isis il 19 agosto del 2014, poco più di dieci anni fa.
Il racconto inizia però nell’ottobre di tre anni fa, in medias res: è la vigilia del primo incontro della madre con l’assassino di suo figlio. La preparazione è insieme spirituale e materiale. «Un trucco leggero. Solo un sottile velo di rossetto. I capelli scuri sono una delle sue ultime vanità…». E poi le domande di fondo, guardandosi allo specchio: «Come condursi? Come onorare questo cuore ferito? Come contenere il dolore? Come guardare quell’uomo negli occhi? Come eludere l’odio? Come utilizzare i meccanismi del proprio ingegno? Torna di fianco al letto e si inginocchia un’altra volta. O Signore, fa’ di me strumento della tua Pace. Rendimi misericordiosa. Dammi la forza».

Un terrorista britannico
Una preghiera, un confronto, il chiaro scuro di due persone unite dal crudele destino del sangue e dell’orrore che si guardano negli occhi per la prima volta. Il terrorista dell’Isis è un cittadino britannico estradato negli Usa, uno dei “Beatles”, com’erano stato ribattezzati nell’organizzazione e poi sui giornali.
Un inglese di seconda generazione, che aveva aderito all’ideologia criminale dello Stato islamico. Feroce, spietato, tanto da decapitare i prigionieri con le sue mani. Si chiama Alexanda Kotey, è uno degli assassini di Jim Foley.
Kotey sta scontando l’ergastolo in una prigione americana, dove è stato estradato. Non c’è buonismo, non c’è facile riconciliazione, non c’è ravvedimento nel terrorista islamista.
Colum McCann si piega, si inchina, si sottomette al peso della cruda realtà. Non esprime giudizi e cerca di capire. Con Diane Foley, lo scopriremo solo alla fine del libro, ha avuto il permesso di partecipare, silenzioso osservatore, a questi colloqui in carcere. Su di essi aleggia una domanda chiarissima: un enorme, gigantesco ‘Perché?’. Perché uccidere con le proprie mani un proprio coetaneo? Perché non considerare la persona? Perché insistere che quella esecuzione era la diretta conseguenza dei bombardamenti dell’aviazione americana? E tanti altri quesiti che pesano sul cuore. Kotey non darà risposte, ma solo enigmatiche interlocuzioni, anche se ad un certo punto sgorgheranno lacrime dai suoi occhi.

Dolore e poesia
C’è l’enigma di un fanatico che non ha fatto ancora i conti con la sua umanità. E la sua disumanità. C’è una madre che ha lottato, durante il sequestro del figlio, con l’inflessibilità del governo americano. Il primo confronto con l’allora presidente Barack Obama è davvero drammatico e fa venire in mente la lotta disperata dei parenti degli ostaggi contro il governo di Benjamin Netanyahu, cui abbiamo assistito in questi lunghissimi mesi di angoscia, dopo il 7 ottobre.
“Una madre” è un libro che si legge tutto d’un fiato. Metà avvincente verbale giudiziario, metà diario intimo.
Non c’è la costruzione meravigliosa di “Apeirogon” o di “Lascia che il mondo giri”, per citare due grandi esempi di letteratura contemporanea scritti da McCann. Ma c’è la forza dirompente della vita vera, cui lo scrittore si assoggetta per lasciare spazio al dolore e alla poesia della realtà. Senza fronzoli, senza chiose, senza alcuna, almeno apparente, mediazione. Prova d’umiltà e quindi di grandezza.