In Terra Santa va ricostruita l’umanità dell’uomo

Siamo prossimi al 7 ottobre, un anno fa la mattanza di Hamas contro israeliani inermi. Di lì l’escalation di violenza con oltre 40.000 morti nella striscia di Gaza. Al Meeting di Rimini, luogo di pace e incontro per eccellenza, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, ha invitato a riflettere, a non dimenticare, a costruire. Di quelle parole dense e impegnative e di altre domande aperte mentre la guerra non accenna a rallentare, ne abbiamo parlato con padre Alessandro Coniglio, professore di esegesi allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme.


20 settembre 2024
La missione
Conversazione con Padre Alessandro Coniglio a cura di Andrea Avveduto

“Essere presenti in Terra Santa significa testimoniare ai cristiani locali che sono custodi di una grazia che non si può dimenticare, che non si può lasciar cadere”. Padre Alessandro Coniglio, cinquant’anni, professore di esegesi allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, è intervenuto al Meeting per l’Amicizia fra i popoli di Rimini e non ha mai avuto dubbi: anche in questo frangente particolarmente drammatico, la presenza della Custodia di Terra Santa è un aspetto fondamentale per la costruzione di un futuro di pace.
Padre Coniglio, al Meeting il cardinale Pierbattista Pizzaballa ha parlato di una presenza buona, che costruisce ponti e contribuisce alla pace. Perché è importante essere una presenza in Terra Santa?
Perché più avanti non ci sarà chiesto come abbiamo risolto questo conflitto (non sta nel nostro potere risolvere un conflitto che ci sorpassa enormemente), quello che ci sarà chiesto è “ma voi dove eravate? Eravate lì, con noi?” La nostra è una missione diversa persino da quella dei cristiani che vivono in Terra Santa.  Spesso i cristiani fuggono dalle crisi, in particolare tendono a emigrare, a scappare. Invece i frati reagiscono restando. Guardiamo alla storia: abbiamo superato la dominazione mamelucca, quella ottomana, il mandato britannico, le guerre arabo-israeliane, le guerre del golfo. La nostra caratteristica è di garantire la presenza, per stare vicino alle popolazioni, per restare fedeli al mandato della Chiesa, e quindi di testimoniare anche nelle situazioni di crisi il valore della conservazione della memoria di quei luoghi. E anche per stare vicino alla popolazione sofferente, perché questo è il modo con cui la Custodia dimostra il valore dei Luoghi Santi che custodisce. Con questa presenza vogliamo anche dare testimonianza ai cristiani locali della ricchezza che hanno per la grazia che emana da questi luoghi. Noi ci siamo, io sono venuto dall’Italia e tanti altri frati sono venuti dall’America del Nord, dall’Indonesia, dalla Cina, dal Giappone: da ogni angolo della terra noi veniamo attratti da quella grazia che è legata a quei luoghi.

Una presenza per la pace deve partire dal basso, adesso che la politica ha dimostrato tutta la sua incapacità di garantire una soluzione in quella terra. Quali esperienze di pace la Custodia promuove in Terra Santa?
Il fatto stesso che ci siamo e vogliamo esserci in atteggiamento di dialogo con i due grandi blocchi (ebraico e musulmano). Noi siamo qui per cercare di costruire un ponte di pace all’interno di queste culture fortemente identitarie, pur nell’esiguità della nostra presenza. Esperienze concrete di questa costruzione della pace sono le scuole, dove accogliamo mediamente circa un 60% di alunni cristiani di tutte le denominazioni, e un 40% di studenti musulmani. Poi abbiamo l’esperienza di una scuola particolare che è il Magnificat, una scuola di musica sacra inaugurata a Gerusalemme ormai quasi trent’anni fa da padre Armando Pierucci che desiderava essere proprio un ponte di pace: i professori in gran parte sono israeliani e gli studenti arabi, ma non solo: il primo studente diplomato in quella scuola era un armeno. È nata così una scuola che mette insieme israeliani e arabi, musulmani, cristiani ed ebrei uniti dall’amore per la musica, dalla volontà di usare la musica come ponte di pace. 
Il Magnificat è ovviamente un seme infinitesimale, però è un segno di come si possa pensare diversamente da una contrapposizione identitaria, dove le identità non servono solo come strumento di conflitto, ma possono invece diventare strumento di dialogo.

Dentro tutto questo dolore che abbiamo visto nell’ultimo anno in particolare, c’è qualcosa che permette di vincere la tentazione di diventare cinici, e cioè disillusi rispetto a una situazione che si trascina da tanti anni?
Come cristiani siamo forse preservati un po’ dal rischio del cinismo. La prospettiva cristiana è sempre di speranza, perché Gesù ha vinto il peccato, ha vinto la morte, ha vinto le barriere che sembravano le più invalicabili. Il cinismo è tagliato alla radice, ma questo rischio c’è per i due contendenti, che possono arrivare a dire “basta, non c’è più spazio per il dialogo, e solo le armi possono parlare”. Credo che il ruolo dei cristiani in questa situazione possa essere un fattore di speranza. Se c’è un contributo che come cristiani possiamo dare, credo che sia un contributo di natura educativa e formativa. Possediamo dei valori, come quello del perdono: nell’incontro al Meeting di Rimini il Patriarca ha sottolineato quanto sia difficile, quanto sia una parola troppo significativa nel contesto attuale per usarla con superficialità. Però se possiamo dare un contributo come cristiani, è nel proporre vie che superino il cinismo, l’apparente incomunicabilità dei due contendenti, perché quello che oggi è necessario in Terra Santa è una ricostruzione dell’umanità dell’uomo. È ciò che abbiamo perso con questa guerra: non crediamo più nell’umanità dell’uomo. Non ci credono gli arabi che il 7 ottobre hanno superato le barriere di Gaza e hanno commesso omicidi di intere famiglie e hanno violentato le donne, ma la reazione israeliana dimostra che nemmeno lo Stato ebraico crede nell’umanità dell’uomo quando uccide indiscriminatamente 40.000 persone di cui due terzi sono donne, bambini e anziani. Per questo il nostro ruolo può essere molto significativo per dire che esiste una speranza e che l’umanità dell’uomo può essere sempre ricostituita. La prospettiva cristiana è di un Dio che non si stanca di ricostruire. Quando l’uomo tradisce la sua natura umana peccando contro Dio, Dio continua ad offrire alleanze, fino all’alleanza definitiva in Cristo indistruttibile.

Gerusalemme (Israele), 14 settembre 2023: viaggio in Terra Santa

“La fede non dà tutte le risposte, ma è un rapporto dove tutte le domande trovano uno spazio”. Il cardinale Pizzaballa sottolineava questo aspetto, anche facendo riferimento alla sua esperienza personale. Per lei, padre Alessandro, com’è cambiato il suo rapporto con Dio?
Io mi sono trovato improvvisamente tra due popoli che hanno iniziato a combattere anche militarmente. Non credo che la mia immagine di Dio sia cambiata o che le mie preghiere a Dio siano cambiate. Sono profondamente convinto che la presenza del male nel mondo non sia una prova contro l’esistenza di Dio, ma al contrario, è la dimostrazione che o c’è un Dio che darà ragione di tutto questo male, oppure la vita non ha senso. Come affermava anche Joseph Ratzinger, “la presenza del male nel mondo non è mai stata uno scandalo che mi abbia fatto dubitare della presenza di Dio, anzi”. Credo che, se possibile, la mia fede si sia rafforzata di fronte alla crisi enorme che stiamo vivendo in Terra Santa, di fronte a questa violenza cieca da entrambe le parti, o ammetto che c’è un Dio che sa dare un senso anche alla violenza, alle morti e al dolore innocente, oppure nulla ha senso. Solo il Dio di Gesù Cristo può dare pienamente ragione di tutto questo. Capisco quello che dice il Patriarca: la fede non ha sempre risposte immediate, è vero. Tuttavia, credo che nella Bibbia ci siano molte risposte. Ad esempio, nel libro di Giobbe, che tratta il tema del dolore innocente. È vero che il libro di Giobbe finisce senza una risposta definitiva, ma se si guarda alla croce di Gesù Cristo, il dolore di Giobbe acquisisce senso: si capisce che quel dolore può diventare salvifico. Se dovessi descrivere la mia esperienza di Dio di fronte a questa violenza cieca, trovo ancora più ragioni per credere e pregare.

“La pace sia con voi” è l’invito che Gesù fa a Gerusalemme, eppure oggi sembra il luogo da cui è più distante. Perché c’è questa distanza misteriosa tra la pace che si incarna nella Città Santa e la violenza che ha fatto di Gerusalemme uno scempio?
Gerusalemme significa “visione di pace”. Dunque, il paradosso è iscritto nel nome stesso della città. Ma è un paradosso che la città si porta dietro da sempre. Gerusalemme non è mai stata in pace, da quando l’hanno fondata i Cananei e l’ha conquistata Davide, alle tante distruzioni che ha subito nel corso della sua storia ad opera di eserciti nemici e invasori. Sembra proprio che la visione di pace sia rimandata a un oltre. Credo che la fede cristiana forse ci aiuti più della fede ebraica, che è ferma all’Antico Testamento. In realtà, anche il giudaismo conosce ciò che sto per dire. L’Apocalisse vede Gerusalemme realizzata come visione di pace solo nell’eschaton, solo nel tempo ultimo. Gerusalemme ha la vocazione di ricordarci la tensione verso la pace, ma proprio per questo è una realtà che conosce la guerra, la violenza, la spaccatura. Se realizzasse già la pace, vorrebbe dire che l’escatologia si è già compiuta, che il tempo ultimo della storia ha già trovato il suo compimento. Invece no: siamo in cammino verso la pace, e Gerusalemme è la città che ci ricorda come camminare verso la pace significhi affrontare i conflitti e cercare di risolverli avendo una visione di pace. Questa visione ci guida, diventa la nostra direttrice, il nostro obiettivo di riferimento: è visione di pace nel senso che ci indica il punto a cui tendere, ma il fatto che rimandi a una pace che non c’è è costitutivo del nostro essere viatori rispetto all’eschaton, al tempo ultimo in cui la pace si realizzerà. Per noi cristiani il Principe della Pace è venuto, ma c’è una famosa storia ebraica che dice come un discepolo vada dal suo maestro e dica: “Rabbi, dicono che è venuto il Messia” (sottintendendo i cristiani). Il rabbino scosta le tende alla finestra, guarda fuori e dice: “No, no, torna pure a riposare, figlio mio, perché il mondo di fuori è sempre lo stesso di prima, c’è la stessa violenza, quindi il Messia non può essere venuto”. Questa storia ebraica è significativa: perché anche gli ebrei non riconoscono la venuta di Gesù come Messia? Perché Gesù è venuto, ma la guerra continua, Israele non vive in pace, come nelle profezie messianiche dell’Antico Testamento. Allora qualcosa non torna. Per noi cristiani è vero che il Principe della Pace è venuto, ma è venuto per iniziare a cambiare qualcosa in vista della sua seconda venuta, dove tutto sarà finalmente compiuto. Gerusalemme è una visione di pace perché ci dà la direzione verso cui dobbiamo camminare, ma ci ricorda questa direzione proprio perché è lacerata da eserciti e conflitti.