Il sorriso dei Pol Pot di ogni tempo

Con la conferma dell’ergastolo di Khieu Samphan (22 settembre 2022), numero tre del regime comunista cambogiano, si è chiusa la Norimberga cambogiana.

È stata una pagina terribile della storia novecentesca: un milione e settecentomila cambogiani eliminati sull’altare dell’utopia di un comunismo contadino. Per anni, una pagina di storia negata in occidente. Sopraffatta da una propaganda ideologica orchestrata da chi, inviato nel sud est asiatico, ha cantato le gesta dei Khmer rossi quale risposta di speranza alla corruzione e ai soprusi del modello occidentale. Chiudendo gli occhi davanti alla verità dei fatti.

Di quella attività di manipolazione racconta il giornalista Peter Fröberg nel libro “Il sorriso di Pol Pot”. Laddove giunge, infine, a proporre domande inquietanti perché autentiche a sé e a tutti. Che non danno scampo. Assai pertinenti con il tempo che stiamo vivendo. Assai pertinenti sempre.


di Enzo Manes
21 ottobre 2022

Oggi i riflettori del mondo sono da puntati su altro. Comprensibile. Tuttavia, tragedie che sembrano così lontane nel tempo, come quella esercitata con particolare crudezza dai Khmer rossi in Cambogia nella seconda parte dei Settanta del secolo scorso, hanno invece più di un punto di contatto con la storia che stiamo vivendo. Gli effetti prodotti dalle ideologie sono sempre all’ordine del giorno.

Ergastolo per il numero 3 del regime Khmer

    Negli ultimi giorni di settembre, il Tribunale speciale di Phnom Penh voluto dal governo cambogiano dopo il terrore dei Khmer rossi e con la “supervisione” delle Nazioni Unite, ha emesso la sentenza verso Khieu Samphan confermando l’ergastolo per l’ex Capo di Stato (cresciuto in prestigiose scuole della capitale cambogiana, la cosiddetta Parigi del Sud est asiatico, quindi in Francia con borsa di studio e laddove si formava per divenire intellettuale della sinistra più utopica col sogno del comunismo contadino) di quella che sotto la dittatura di Pol Pot aveva preso il nome di Kampuchea democratica. Ultima sentenza prima dello scioglimento di quel tribunale giudicante il genocidio. Dopo sedici anni. E non senza ombre: troppi hanno scampato la giustizia.

Il numero tre del regime comunista con forti aderenze a Pechino (in una foto scattata nel 1975 Samphan è ritratto mentre, sorridente, stringe la mano a Mao) è stato tra i responsabili maggiori dell’eliminazione di un milione e settecentomila cambogiani. In pratica: un terzo della popolazione. Effetti di una rivoluzione culturale di stampo maoista (Pechino appoggiò da subito la guerriglia Khmer e il conseguente regime), di una sbornia ideologica salutata in Occidente quale modello a cui le nostre democrazie avrebbero dovuto guardare per trarsi in salvo dalla deriva capitalista.

La pietà: un sentimento borghese

Secondo intellettuali di grido, noialtri avremmo dovuto inchinarci e predisporci a quel salutate vento di novità che soffiava impetuoso dalla Cambogia. Un abbaglio clamoroso, ma non sorprendente: si pensava quello che si leggeva. Le corrispondenze che proveniva da laggiù. Testi nei quali si taceva del metodo imposto da Pol Pot e dai suoi Khmer rossi: eliminare qualsiasi traccia o minimo segnale di ciò che ritenevano espressione diabolica di vita borghese corrotta. Così finirono nel mirino di quei guardiani spietati della rivoluzione (vera e propria attività criminale di pulizia etica per rincorrere i raggi del sol dell’avvenire) istituzioni religiose, sociali, finanziarie.

Chiunque venisse indicato come nemico del regime finiva trucidato. La pietà era totalmente bandita: sentimento borghese. La deportazione di milioni di persone impaurite e deprivate di tutto dalle città alle campagne era la manifestazione radiosa della rivoluzione in atto.

Chi oppone resistenza è un cadavere!

Si diceva dell’Occidente infatuato. Ebbene, sì. La Cina e i suoi derivati rappresentavano l’alternativa credibile all’asfissia del modello comunista sovietico. C’è sempre un comunismo da salvare… Si preferiva non vedere, allora. Infatti, chi vi era andato per raccontare riportava solo di una Cambogia fiorente. La missione era quella.: contribuire alla giusta causa. In Italia si è fatta la propria parte nella diffusione della menzogna. Però nel nord dell’Europa si sono superati.

Il centro della propaganda europea filo Pol Pot è stato la Svezia. Un libro ha cantato le gesta del regime cambogiano che prese il potere nel 1975 (dal 1970, anno del golpe, il paese era guidato, con il sostegno statunitense, dal generale Lon Nol, dopo che venne destituito il principe Norodom Sihanouk) in concomitanza con l’uscita di scena delle truppe Usa dal Vietnam del Sud.

Il terrore con Pol Pot è durato fino al 1979 (tre anni e mezzo); poi giunsero i vietnamiti e i Khmer si spesero in una guerriglia terminata nel 1998 con la morte del dittatore (15 aprile 1998). Il libro, per l’appunto. Titolo: “La  Kampuchea tra due guerre”.

Fu pubblicato nel 1979 ed è il racconto, a dir poco entusiastico, di un viaggio nella Kampuchea democratica di Pol Pot. Scritto da un infermiere psichiatrico, una studentessa universitaria, una giornalista e uno scrittore, nonché intellettuale di fama mondiale. Veniva finalmente raccontato di un luogo del mondo dove si poteva fare esperienza del paradiso in terra: l’utopia realizzata, insomma.

La risposta radiosa, di speranza piena, rispetto al socialismo burocratico di derivazione moscovita e al capitalismo ormai prossimo al fallimento. Questo comunicavano agli occidentali i quattro osservatori in missione per conto della nuova verità voluta dall’associazione Svezia – Kampuchea democratica.

Poi ci sono i dettagli, gli incidenti di percorso, quel che nel libro non si trova: chi protesta è un nemico! Chi oppone resistenza è un cadavere! Dalla teoria alla pratica: un milione e settecentomila cambogiani finiti cadaveri e molti di loro in un’infinita distesa di fosse comuni.

Solo i papponi possono provare dolore

L’esperimento della Kampuchea democratica ha goduto di buona stampa, buoni libri, buoni documentari. Aggettivi e commozione. Il 17 aprile 1975 il giornalista svedese Sven Oskar Ruhmén s trovava a Phnom Penh per il suo quotidiano. Così descrisse la sfilata dei Khmer rossi: «Per uno spettatore svedese è stato uno spettacolo straordinario. Personalmente non ho mai assistito a una scena più bella.

Mi sono sentito felice e sollevato, e non ho potuto fare a meno di piangere davanti a ciò che vedevo».

Un suo collega, Per Olov, sul quotidiano “Expressen”, non stava nella pelle: «Per anni l’imperialismo occidentale ha violentato un paese asiatico, uccidendo quasi un milione di persone e trasformando una splendida città cambogiana ricca di cultura in un ghetto, un bordello. Ma il popolo si è sollevato, ha buttato fuori gli intrusi, scoprendo che la sua bella città doveva essere riscattata. E così la casa è stata sgomberata, e si è cominciato a fare pulizia.

Ci si è messi a strofinare pavimenti e pareti perché le persone non dovessero vivere nell’umiliazione, ma nella pace e nella dignità. A occidente scorrono lacrime di coccodrillo. Evacuato il bordello, pulizie in corso. Solo i papponi possono provare dolore. Tuttavia, questo c’insegna che la lotta non è un monumento storico, un’inerte commemorazione: è in svolgimento».

Pol Pot, assai riconoscente per tanta grazia, in un appunto poteva scrivere con debordante soddisfazione: «La rivoluzione è colore rosso acceso, piena di convinzione, meravigliosamente solida e meravigliosamente lucida. Tutto il mondo ci ammira, tesse le nostre lodi e impara da noi».

In verità, le lacrime più che a scorrere sulle facce dei coccodrilli occidentali rigavano gli occhi del povero popolo della gloriosa Kampuchea democratica. Lacrime e sangue.

Il processo di negazione dell’evidenza

Peter Fröberg Idling, giornalista, scrittore e critico letterario, ha voluto ripercorrere il viaggio svolto nella Cambogia di Pol Pot dai quattro osservatori guidati da Ian Myrdal (influente intellettuale, figlio dei premi Nobel Alma e Gunnar Myrdal; lei per la pace nel 1982 e lui per l’economia nel 1974) per provare a comprendere come sia stato possibile riportarne solo falsità, non accorgendosi (o non volendosi accorgere) di uno dei più feroci massacri della storia. I virgolettati che più sopra abbiamo riportato fanno parte di un libro che Idling ricavò dalla sua esperienza.

In Italia è uscito per i tipi Iperborea nel 2010 con il titolo “Il sorriso di Pol Pot” ed è ancora recuperabile nelle piattaforme di vendita più note. L’autore, a conclusione del suo racconto/inchiesta/indagine, pone la domanda, quella domanda, non chiamandosi fuori: fino a che punto è possibile mistificare la realtà che i nostri occhi vedono?

Cosa ci motiva a manipolare la realtà in un processo di negazione dell’evidenza? Da cosa origina tale ubriacatura?

Tiziano Terzani, giornalista, inviato, scrittore, ha scritto molto di Cina, Vietnam e Cambogia rivedendo le sue posizioni (da leggere “Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia”, pubblicato postumo nel 2008 per i tipi Longanesi grazie all’opera di raccolta dei suoi articoli di sua moglie Angela Staude) nel documentario “Viaggio nella follia cambogiana”, dice: «È questa grande tragedia con cui noi, che siamo stati anche militanti della sinistra abbiamo da fare i conti. È inutile continuare a trovare delle giustificazioni per le delusioni che noi abbiamo dalla storia. È tempo che ci fermiamo, che guardiamo cosa succede e tiriamo delle conclusioni».

Il pilastro ideologico impedisce di guardare, di comprendere quel che succede. È quel che è successo nei racconti contraffatti (cioè, senza i fatti) dalla Kampuchea democratica. Ma quella deformazione, quella negazione ce la portiamo dietro, ce la portiamo dentro. Le domande che pone Idling sono brucianti oggi. Lo stiamo sperimentando con la guerra. Con la pratica della mistificazione, dell’ideologico quotidiano, sorridono solo i Pol Pot di ogni tempo.


Immagini:

– (1) La leadership khmer-rouge, tra cui Pol Pot, Ieng Sary, Khieu Samphan, Ta Mmok e Son Sen; da un giornale del Partito Comunista
– (2) Khieu Samphan al processo
– (3) Khieu Samphan
– (4) Foto sul muro d’ex liceo sede dell’Ufficio di Sicurezza 21 Tuol Sleng; morirono di torture più di 10.000 persone tra il 1975 e il ’79, durante il regime dei khmer rossi. Phnom Penh