Il ritorno necessario alla visione storica per capire la realtà

Come stanno le cose nella realtà delle cose. La storia è il grande campo per comprendere, analizzare, ricalibrare, mai chiudendo in modo definitivo. A doppia mandata. La storia è nelle relazioni. Perché l’uomo è relazione. Uomo che significa popoli, stati, mondi. Il presente sembra evitare il fascino di questa ricerca.

Cedendo il campo a segmenti spacciati come totalità. È l’insidia della geopolitica quale chiave interpretativa che spiega tutto. Magari in anticipo e con il gusto del determinismo e della rassicurante esattezza. Così in voga specie di questi tempi scanditi dalla guerra. Ma non è questa una via stretta che conduce solo a un vicolo cieco? Che riducendo la storia riduce l’uomo? Conversazione con il professor Giulio Sapelli, docente di storia economica, da poco in libreria per i tipi Guerini & Associati con “Ucraina anno zero”. E sottotitolo “Una guerra tra mondi”. Un modo diverso, appunto storico, di guardare a quel che accade lì. Con un incedere lontano dalle tentazioni matematizzanti o economicizzanti.


Dialogo con Giulio Sapelli a cura di Camillo Fornasieri

23 settembre 2022

La guerra in Ucraina pone, dal punto di vista culturale, il tema della centralità della storia. Del suo senso autentico, drammatico perché vero. Tuttavia, una funzione non circoscrivibile a interpretazioni definitive. L’impressione è invece quella della storia ridotta esclusivamente a geopolitica, a freddo ragionamento deterministico e progressivo. Alla ricerca illusoria e rassicurante dell’esattezza.

Interrogati dalla gravità del tema, dal rischio della semplificazione e dell’annebbiamento del pensiero e provocati dall’ultimo libro del professor Giulio Sapelli, ordinario di Storia Economia all’Università degli Studi di Milano, dal titolo “Ucraina anno zero una guerra tra mondi” (Guerini & Associati), abbiamo deciso di avviare con lui una conversazione solo in apparenza disorganica. Quel che si dice, un dialogare ad ampio respiro. La restituiamo così come si è svolta, per non togliere nulla alla sua freschezza, ai suoi lampi, alla sua verità. Alla sua storia.

 

I giorni che hanno preceduto l’avvio dell’invasione dell’armata russa in territorio ucraino, gli esperti di geopolitica in televisione davano come impossibile che fosse varcato quel confine, ma noi, al contrario, vedevamo colonne di carrarmati e situazioni che lasciavano intendere che non si dispongono tali forze per poi non utilizzarle. Eccoci allora alla prima questione: la visione geopolitica sembra mancare in qualcosa; cosa difetta in questo approccio?

Già il fatto che si ricorra al termine geopolitica denota una incultura generalizzata e diffusa. La geopolitica è solo un segmento molto ristretto di quel grande campo che è lo studio delle relazioni internazionali. Se si guarda a tutta la tradizione inglese, assai importante, di Martin Wight, alla tradizione storicistica di Charles M. Taylor, fino ad arrivare all’approccio di Hans J. Morgenthau e al realismo internazionale di Henry Kissinger o a quello più intrecciato con lo studio dele relazioni internazionali di Robert Gilpin, si vedrà che nessuno la usa nei suoi lavori scientifici.

Non parlo della televisione naturalmente o dei vari pagliacci che scrivono sui giornali e parlano nei talk show. La coniazione del termine è stata una giusta rivendicazione dell’importanza della geografia nello studio delle relazioni internazionali.

La geopolitica, infatti, come forse si dovrebbe sapere, è un piccolissimo segmento dello studio delle relazioni internazionali che trova il suo avvio in un’analista e geografo svedese, Rudolf Kjellén.

Egli era maestro di Karl E. Haushofer, il quale non è un nazista come dicono alcuni.

Il figlio, Albrecht Haushofer, che è il fondatore effettivo della geopolitica, morì in un campo di concentramento nazista perché partecipò all’attentato contro Hitler. Certo, se guardiamo alle responsabilità che Carl Schmitt e altri avevano avuto, il discorso è diverso.

Dunque, il termine geopolitica è inesatto nell’uso che se ne fa. Perfino uno studioso serio come Lucio Caracciolo, anche se fuori dall’università, ha reintrodotto lo studio della geografia nelle relazioni internazionali attraverso la sua rivista Limes.

Questo perché, dopo il famigerato libro La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama, che pensava sostanzialmente che la terra fosse piatta, che la democrazia fosse ormai irreversibile e infinita e che il mercato fosse l’unico modo di allocare le risorse, è stato necessario ricordare che la terra non è piatta, è rotonda.

L’errore è simile a quello che fa la gente quando confonde il vettore con le fonti energetiche: si pensa che l’elettricità sia una fonte, mentre è un vettore; allo stesso modo si pensa che la geopolitica sia una disciplina intellettuale.

Ma io non ho mai letto un libro di geopolitica, salvo quello di Haushofer. Quindi gran parte di ciò che si dice nei talk show sono tutte sonore stupidaggini, cretinate dette da gente ignorante. I social hanno poi questo di terribile: che chiunque si sveglia al mattino, fa un post e parla. Una volta c’era almeno il rispetto umano che i deficienti non parlavano in pubblico.

Secondo passaggio: ha citato i social e io accosterei anche questo bisogno ansioso di cose esatte nella ridda delle interpretazioni, quasi un bisogno di deresponsabilizzazione che un po’ ci circonda e permea le nostre esistenze. Ma questo bisogno dell’esatto -e quindi l’idea quasi di una scienza che per definizione ormai diffusa è qualcosa di esatto, qualsiasi essa sia, mentre a essere esatto è solo il suo risultato quando lo si consegue e fino a prova contraria, io direi -cosa può significare, essendo così ridotto, rispetto al fatto di vivere invece nella storia e di essere dentro qualcosa di più grande e complesso?

Non vuol dire un bel nulla. Penso che questo cosiddetto bisogno di esattezza non sia altro che il frutto dell’estesa matematizzazione o economicizzazione del mondo dovuta alla controrivoluzione liberista che è stata fatta da quegli uomini che alcuni reputano economisti o filosofi, cioè Friedrich A. von Hayek, Karl R. Popper, anche se io ricordo che Momigliano si metteva a ridere quando parlavi di loro.

Oggi le cosiddette scienze economiche sono diventante delle scienze matematiche, sono matematizzanti. Come sappiamo bene, abbiamo avuto l’età cartesiana e la scuola di Vienna.

Quindi innanzitutto c’è, come sempre, un fatto culturale, un cambiamento dei landscape culturali, dell’universo culturale. Penso poi -cosa che aveva studiato molto bene prima Rudolf Otto nei suoi scritti sul sacro e poi soprattutto Ernesto De Martino nei suoi scritti sull’apocalisse -che il mondo, soprattutto le persone povere intellettualmente, oltre che materialmente, sia preso dall’angoscia del nichilismo.

In questo caso, la questione dell’esattezza matematica del dato credo che venga impetrata come una filosofia della rassicurazione così come potevano essere il ballo delle tarantolate o il canto funebre, tutte cose che, se leggiamo l’antropologia storica – da Maurice Godelier ma anche prima, risalendo a Franz Boas sulla danza del serpente -, erano già presenti e adesso si ripropongono col mito dell’esattezza. È la credenza nel progresso alla Condorcet; questo è il frutto più negativo di questo neo-illuminismo da quattro soldi che ci sta distruggendo. Ma credo che sia un bisogno di rassicurazione davanti all’apocalisse che avanza.

Bisogno di rassicurazione, esattamente. Un comune autore e amico, a cui lei hai fatto spesso cenno, Charles Péguy, scrive proprio un libricino, “Zangwill”, contro l’idea progressiva della storia.

È proprio anche una critica a Condorcet, a questo progresso necessario, a quello che è quasi un totalitarismo del progresso. È ciò che veniva detto già da Gianbattista Vico, nella Scienza Nuova.

Mi colpisce che in tutto il mondo ci sia un grande studio di Vico, mentre in Italia non è studiato. Molto interessanti, da questo punto di vista, sono gli studi che lui compie elaborando sostanzialmente una filosofia dei popoli, perché Vico non parla solo di cicli, di corsi e ricorsi della storia, ma unisce la scienza dell’antichità, la grande sapienza, la filosofia come sapienza, non come esattezza, alle credenze dei popoli. Oggi Vico non si legge, e questo è un po’ il frutto di questa scientificizzazione o quantificizzazione dell’essere umano.

Il nichilismo che ha citato lo si intende spesso come un disinteresse o una posizione passiva, riducendo così la complessità del tema. In realtà sembra che, sotto tale bisogno di esattezza o cultura dell’assicurazione-rassicurazione, ci sia uno scetticismo morale sull’uomo, cioè: l’uomo è o potenzialmente sempre cattivo oppure è un nulla, un niente. E di questo scetticismo non si può mai parlare, non si può mai accusare nessuno di fronte a questo tentativo continuo di progressismo della storia o di esattezza da fornire a lettori, ad ascoltatori o a studiosi anche perché in Università non è che sia questione sui cui si riflette.

 

L’università non esiste più ormai. Chiamiamo università un insieme di regole.

È un po’ come l’Unione europea, cioè un insieme di regole: hai dei crediti se studi 100 pagine e via dicendo. Si è ridotta a questo. Tutti sappiamo che cosa è stato l’ANVUR; un modestissimo professore di fisica ha scritto le regole su come fare.

Se tu scrivi un articolo sul rinascimento italiano su una rivista inglese hai dei punteggi, se lo scrivi su una rivista italiana hai punteggi inferiori.

Pensa che, avendo insegnato diversi anni in Portogallo e avendo avuto degli amici portoghesi, ho scoperto addirittura che le riviste portoghesi non sono comprese nell’ANVUR internazionale. Riviste bellissime di storia, di antropologia, sono scomparse perché a poco a poco non trovavano più posto, non solo nelle università straniere, ma neanche in Portogallo perché non avevano più soldi.

Péguy ha scritto appunto delle pagine molto belle su questa filosofia quantistica e su questa distruzione della soggettività dell’essere umano, che poi è il rifiuto della trascendenza. Certo, perché se uno non crede nella resurrezione cosa fa?

Finisce per credere soltanto nella quantificizzazione e trova rifugio nell’esattezza, che però non vuol dire nulla. Anche nella cura delle malattie, l’abbiamo visto con il Covid; come fai a capire se sei guarito o no? Lo vedrai con l’esperienza, lo vedrai dopo; ora dico una bestialità, ma devi rassegnarti un po’alla provvidenza, come va va.

Il danno più grande di questa fede nell’esattezza, quindi, risiede nell’assoluta mancanza di tranquillità nell’indeterminatezza della vita, che però è anche la fonte della vita stessa, perché se non c’è un’indeterminatezza la soggettività dov’è?

Se tutto è già fatto, è come essere tutti in un grande lager o in un gulag.

Questo poi, nel caso del Covid, ha nutrito l’idea dello Stato che deve dare al cittadino tutto ciò che è in suo potere per essere certo “esattamente”.

Ma quello che mi ha più colpito di più, e che mi riempie non di disperazione ma davvero di angoscia, è che siamo stati posti davanti al mistero della morte. Perché, come ci aveva spiegato Mary Douglas nei suoi scritti sulla purezza, abbiamo capito che le società si reggono sulla paura della contaminazione, su pratiche di difesa dalla contaminazione e di conservazione della purezza. Non a caso, la Douglas studia queste cose cominciando dal Levitico, perché esso fissa alcune regole nella macellazione degli animali che ha delle origini sacrali come sappiamo tutti (regole che non rispettano in Cina, per questo hanno portato il covid in tutto il mondo).

Questa sacralità è ancora testimoniata dalla religione ebraica ma anche da quella musulmana, mentre il cattolicesimo l’ha ormai persa da molto tempo, e il cristianesimo più in generale. Ma come mai, posta davanti alla morte, posta di fronte al fine ultimo, la gente non è diventata un po’ più “saggia”? Perché hanno posto la loro fiducia o nella denuncia dei medici o nel credere alle statistiche, ai numeri. Quanti numeri, tutti i giorni! Sono nate delle fondazioni, senza dare giudizi sulle persone, che vivono dando i numeri del covid, che è una roba da pazzi.

Invece di essere richiamati al senso dell’eterno, del mistero, hanno addirittura chiuso le chiese in quel periodo. È come se avessero chiuso le chiese quando c’era la peste, e se si arriva a chiudere le chiese davanti alla morte…

Proseguendo il discorso, citerei il suo bel libro “Ucraina anno zero”, perché il sottotitolo ci aiuta, a capire: “Una guerra fra mondi”.

Perché sono mondi”?. Questo fa già capire che, appunto, non sono territori, non sono atti, patti. Tutto il libro è un racconto continuo di relazioni, interne a gruppi di nazioni, di cui spessissimo non abbiamo contezza. E ciò mi ha sorpreso. Leggendolo mi faceva venire in mente che le scelte politiche e strategiche sono sempre uno svolgersi di relazioni tradite o sviluppate, sempre in divenire, anche quando si sottoscrivono; e lei evidenzia, di fronte alla situazione attuale ma anche in generale, una mancanza di “nuove relazioni internazionali”, cioè di un impegno, di visioni. Dunque, anche qui, la geopolitica sembra essere il cono limitato di una visione militare o algoritmica della politica. Allora la domanda è: relazioni o geopolitica? O meglio, per uscire dalla battuta, il fatto che la verità la si scopre nelle relazioni che cosa significa?

La si scopre nelle relazioni anche con l’altro. E questo vale anche per gli stati; non esiste una comprensione delle relazioni internazionali e dei conflitti internazionali, come in questo caso, se non si ha una visione storica.

Per esempio, io inizio citando Marx ed Engels: il primo sull’Ucraina e sullo sciovinismo della Grande Russia ha scritto delle pagine insuperabili che sono state affidate a dei grandissimi come Hans Morgenthau e Henry Kissinger; Engels poi era un grandissimo esperto. La questione ucraina è all’interno della questione dell’imperialismo russo, che poi diventa imperialismo sovietico e ora diventa l’imperialismo grande-russo-ortodosso.

La cosa che mi colpisce (vedi come la crisi morale dell’occidente è profonda) è che il mio amico Sergej Karaganov, che conosco da anni e che è il grande allievo di Evgenij Primakov, grande teorico, è convinto che se non vinceranno la guerra in Ucraina, cioè se non ritorneranno a possederla tutta (secondo me anche la Polonia), la Russia sarà smembrata e finirà. Hanno creato un mondo loro, mentre noi occidentali siamo i figli della Grecia, non di Bisanzio; noi siamo figli della Grecia, poi di Roma e poi dell’identità giudaico-cristiana da cui Bisanzio si è divisa. Questa cosa sta venendo fuori ora.

Io sono un realista, penso che le relazioni diplomatiche si facciano con la politica, non con la propaganda, ma la diplomazia è un luogo dove la politica, intesa come la intendono adesso, deve essere sospesa.

Noi dobbiamo guardare al modo per impedire la guerra e garantire la pace; possiamo farlo sia con le dittature e sia con le non dittature. Invece ora, anche quello che si chiama l’Occidente, cioè praticamente gli Stati Uniti e gli inglesi soprattutto, ha avuto una tracimazione dell’idea di relazioni internazionali per cui esse non servono più a evitare la guerra ma ad affermare la democrazia.

Questo non va bene perché fa si che ogni conflitto diventi un conflitto ideologico. Ma questo è ciò che fanno gli altri, questo è ciò che fanno quelli che vogliono aggredire, è quello che fa la Cina. La Cina però è molto più intelligente, sa che non è giunta la sua ora, ma è quello che ha fatto il Giappone fino a quando era dominato dall’ideologia scintoista per cui si sentiva una grande potenza.

Quando sconfisse la Russia nel 1905 capì che sarebbe entrato nel novero delle potenze mondiali e colpì senza dichiarare guerra. Un po’ come ha fatto Putin adesso, salvo che Putin l’ha annunciato ma gli altri credevano che scherzasse. Per questo si tratta di una guerra fra mondi. Io non sono un seguace di Samuel P. Huntington, credo che la sua teoria del Clash of Civilizations (scontro tra civiltà), sia pericolosa perché è una teoria radicalmente giusta ma troppa pericolosa se lasciata in mani inesperte. Si stanno sviluppando delle sfere culturali e ideologiche contrapposte e questo è pericolosissimo.

C’è sintonia con un articolo di Roberto Righetto, su “Avvenire”, incentrato su un libro di saggi del filosofo Jean Guitton in cui si dice appunto quello a cui lei accennava molto bene: «L’arte della guerra è evitare la guerra» e anche «Tutte le guerre si fanno per una visione dell’uomo». E poi scrive: «Credo che sia proprio sbagliato riflettere sulla guerra mettendo da parte i fini ultimi, dato che è evidente che le guerre nascono non solo da cause politiche ed economiche ma derivano, in ultima analisi, da quello che i belligeranti pensano sul significato ultimo dell’uomo e della vita, della morte, del dopo morte e di Dio». Questo Guitton…

Queste sono le cose che Raymond C. F. Aron ha scritto nel suo libro Penser la guerre, Clausewitz, poco conosciuto, perché si legge soprattutto Paix et guerre entre les nations, e che però è un libro molto interessante e molto attuale su Carl P. G. von Clausewitz. Come sempre, Aron era peggio di me, un grafomane, quindi è un libro enorme. In questo libro egli dice, riprendendo Marcel Mauss, che la guerra è un fatto sociale totale, non è solo la politica con altri mezzi; essa influisce sulla visione dell’uomo, è una questione di antropologia. Ahimè, i futuristi e i fascisti l’avevano capito bene e ne hanno fatto un’antropologia: il mito della guerra rigeneratrice, la velocità, eccetera.

 

Da questo punto di vista le relazioni internazionali…

…Certo, ma devono essere relazioni! Questo si è perso. Nessuno ha detto o dice una parola sul fatto che gli Stati Uniti è tre anni che non danno all’Italia un ambasciatore. Noi è tre anni e mezzo che non abbiamo un ambasciatore. Quindi vuol dire che non siamo in relazione con gli Stati Uniti, ma che ci considerano dominati un po’ da dei dipendenti della Cina e un po’ da dei dipendenti loro. Certo che questa non è una relazione, però. Le relazioni internazionali sono fatte da un sistema giuridico complesso, lo Ius gentium, per cui c’è l’ambasciatore che ha dei privilegi diplomatici e quant’altro, e questo abbassa il grado della guerra. Se tu non credi nella diplomazia e nei suoi riti, per certi versi, non puoi lavorare per la pace. È quello che è mancato, molto mancato.

Nelle relazioni pochissimi, non solo capi di stato ma anche figure istituzionali, hanno saputo interloquire con l’idea dell’uomo che lei hai descritto nel libro, con Russia, con la sua cultura. Nessuno si spinge a mostrare e discutere di una verità più meno forte, valorizzando quindi anche l’idea, magari errata, che ha l’altro, però discutendo e ragionando a quel livello.

Quelle rare volte che vado in televisione (non mi trovo a mio agio ed è un eufemismo!) dico ‘ma noi dovevamo valorizzare il dissenso russo, perché in Russia c’è la gente che sfida la cacciata dal lavoro o l’andare in carceri dove ancora adesso esci malridotto. E di questo non si parla.

Abbiamo avuto università (questo ti spiega perché io sono così drammaticamente rassegnato alla fine dell’università) che non volevano che si insegnasse Dostoevskij. Ma siamo pazzi? E la cultura tedesca? Andava eliminata? Io ricordo sempre, quando parlo con delle persone civili, che i comunisti arrestati durante la dominazione nazista di Roma, Mario Licata, Lombardo Radice, Antonello Trombadori, cantarono in tedesco, davanti al tribunale tedesco, “l’Inno alla gioia” di Schiller per far vedere che loro apprezzavano la cultura tedesca. Oggi è inimmaginabile perché sono tutti accecati dall’odio. Lo vedi anche nelle discussioni, urlano solo. Davanti a un fatto enorme come la guerra in Ucraina, che dovrebbe spingere alle meditazioni, in televisione urlano.

Ultima domanda che così allarga e ricolloca un po’ i temi detti, quello della libertà, del fatto che non si può misurare o calcolare la storia, che le relazioni sono necessarie e possibili.

La reazione della popolazione Ucraina non l’ha colpita? Cioè: nel libro argomenta che gli Usa preparavano gli addetti ucraini ad una difesa militare da tempo; forse questo ha anche infastidito la Russia, però è anche un po’ la controprova che avevano in mente di varcare i confini. Ma la reazione che ha avuto la popolazione – che secondo me non si è sentita obbligata dai carabinieri di Cadorna ad andare a militare o a stare nell’esercito, ma lo ha scelto – e l’esempio dei modi con cui vivono (22.000 matrimoni entro marzo sono stati celebrati) – non è un fattore che ci dimostra questo fatto, dell’esistenza di un fattore diverso, che è l’uomo, che è il suo modo di vivere, di sentire, che si risveglia ad un certo punto e si rifà alle cose più profonde?

Su questo punto sono d’accordissimo con te, non bisogna farsi ingannare da questa eccessiva spettacolarizzazione. Il peggior nemico del popolo ucraino è Zelens’kyj, parlo dell’immagine. Invece c’è, innanzitutto, la profondità della fede. Lì c’è un popolo che lotta per la patria. Mentre i russi pensano che Kiev sia l’origine del Rus’, e questo è vero, 200 anni dopo c’è stata anche la nascita della nazione ucraina, quindi sono “due mondi”. E lì c’è un patriottismo, c’è la gente che torna, ci sono le persone che si sposano, le mamme continuano a portare nelle loro pance i loro bambini. Questo è un segno. Poi naturalmente quello che rende tutto un po’ sgradevole o, anzi, non fa capire la grandezza di questa questione, è la spettacolarizzazione. L’insistere sulla guerra vista ogni giorno, banalizza.

Invece, sarebbero belli servizi sulle esperienze che hai appena evidenziato. Però c’è anche un altro insegnamento, che la storia c’è. In Ucraina la gente si fa ammazzare, non va via da casa propria. Io, che sono figlio di un partigiano, sono a conoscenza di questi accadimenti. Bisogna dire che la gente semplice è quella più forte.

Mio padre mi diceva sempre che su 15.000 condannati dal tribunale fascista, 9000 erano operai e contadini. E i professori universitari, durante il fascismo, hanno giurato tutti salvo 11, di cui 8 erano cattolici.

Fatti così, ma ce ne sono altri evidentemente, ci ripiombano nella storia e nell’umanità: l’uomo esiste ancora ed è pieno di passione. Oggi la gente non crede più in niente, figurati se crede nella patria. Il solo fatto che la patria non sia più un concetto che viene prima della politica, prepolitico, sovra politico, vuol dire che siamo finiti. Lì invece la patria è qualcosa.

Io ho studiato -lo dico anche nel libro- la famosa rivolta di Maidan (Maidan vuol dire piazza) che in Italia viene raccontata come un gesto fascista (in realtà c’erano tutti, anche il Partito comunista ucraino), era un fatto di popolo, difendevano la patria.

Poi è chiaro che l’imperialismo americano fa i suoi affari. Come lo fa anche l’imperialismo russo. Ma delle rivolte non si pentono. Quanti miliardi hanno speso gli americani per fomentare le rivolte negli stati dell’est. Certo, c’era un regime repressivo enorme, ma c’era anche stata la Seconda guerra mondiale che aveva fatto capire a molti che ancora temevano il pericolo nazista, che forse l’unione sovietica era il minore dei mali. Non so se mi spiego. E forse avere un alloggio, anche se in comune, era meglio che non avere alloggio o essere disoccupati. Bisogna capire come stanno le cose nella realtà delle cose. Ed è la storia che ha quella funzione. Ma oggi, però, manca la storia.

Grazie Professore


Immagini:

– Il Professore Giulio Sapelli
– Relatività, Maurits Cornelis Escher
– Kiev, Ucraina © Pino Ninfa