Il futuro sarà ancora globale con il Made in Italy in prima fila
Produrre in Italia torna a essere, seppur lentamente, un fatto. Anche questo fenomeno è il segnale del tramonto definitivo della vecchia globalizzazione. Un addio di cui non avere particolare nostalgia. Oggi la strategia industriale maggiormente condivisa è quella di mantenere all’interno i poli produttivi puntando sul canale classico delle esportazioni. Per le nostre imprese una sfida interessante. Che potrebbe posizionarle piuttosto bene nella ridefinizione inevitabile dei mercati globali.
8 marzo 2024
Fattore vincente
di Gianfranco Fabi

La globalizzazione era l’orizzonte con cui si era chiuso sonnecchiosamente il secolo scorso. Il risveglio non poteva essere più drammatico con il clamoroso attacco al cuore del capitalismo nel settembre del 2001 con l’attacco alle torri gemelle. Sono venute poi la crisi finanziaria del 2008, una lunga crisi dell’economia mondiale, lo scoppio traumatico della pandemia e, per non farci mancare nulla, l’aggressione della Russia all’Ucraina, la riesplosione del conflitto tra Israele e i palestinesi, la frenata dell’economia cinese.
Geo-politica senza pace
In queste condizioni era del tutto naturale che la globalizzazione lasciasse il posto a nuovo ordine o, meglio, verso quello che è stato ribattezzato un dis-ordine globale. Con molte illusioni che sono svanite nel fiume di una geo-politica senza pace. E con l’Europa che si è ritrovata quanto mai debole dato che aveva affidato, come ha razionalmente osservato Romano Prodi, agli Stati Uniti il compito della difesa, alla Russia gli approvvigionamenti energetici a basso prezzo, alla Cina il doppio ruolo di grande mercato per i beni di alta gamma e di “fabbrica del mondo” per i beni di più largo consumo. Tre fattori in profonda crisi.
Il processo di integrazione economica che rispondeva alle leggi dell’economia classica, con la produzione localizzata nelle aree a maggiore produttività e minori costi, è stato così progressivamente sconvolto da fattori prevalentemente geopolitici come l’imposizione di sanzioni, di dazi, di contingentamenti, di blocchi per ragioni strategiche, di politiche protezionistiche e insieme di crescita del ruolo e degli interventi degli stati.

Una revisione necessaria
Gli effetti si misurano non solo nella frenata della crescita economica mondiale, una crescita che si è praticamente dimezzata dal 6 al 3%, ma anche in una revisione profonda delle strategie di politica industriale. È indicativa una dichiarazione della Commissione europea per sostenere una politica volta a “a minimizzare i rischi derivanti dai cambiamenti dei flussi economici in un contesto di accresciute tensioni geopolitiche e di accelerate trasformazioni tecnologiche, preservando i massimi livelli di apertura economica e dinamismo”.
Come dire: siamo di fronte ad una crisi che richiede il coraggio di nuove strategie.
Dobbiamo infatti tener conto di una progressiva revisione delle catene globali del valore secondo una logica sempre più di near-shoring e friend-shoring, cioè di insediamento dei complessi produttivi vicino ai centri decisionali e in un ambiente capace di offrire uno scenario di sicurezza a medio-lungo termine.
Le delocalizzazioni erano state avviate nel secolo scorso per sfruttare al meglio l’economicità del costo del lavoro e la maggiore tolleranza verso i metodi e le garanzie del lavoro. La significativa crescita dei salari medi, soprattutto in Cina, e la riduzione della flessibilità produttiva hanno frenato queste scelte che sono state mantenute solo in presenza di motivazioni legate alla vicinanza dei mercati di sbocco. In pratica si delocalizza in Cina se i prodotti sono venduti ai cinesi.
Il costo del lavoro, anche grazie all’automazione e ai processi informatici, non è più un fattore determinante nelle scelte di localizzazione produttiva.
Secondo l’ultima indagine Assolombarda i fattori che le imprese ritengono come più influenti sulle loro strategie di internazionalizzazione nel medio-lungo termine sono l’incertezza derivante dal contesto geopolitico e dalle grandi transizioni tecnologiche e ambientali, così come la reperibilità di risorse umane e materiali.
Nei macro-trend che condizionano le scelte delle imprese gli scenari geopolitici sono indicati come fattore altamente rilevante dal 43,9% dei rispondenti, l’evoluzione tecnologica dal 29,9%, la disponibilità di materie prime dal 26,3% e quella di capitale umano dal 23,7%. Tutti elementi che prevalgono sugli aspetti meramente di costo, ritenuti variabile di influenza dal 14% del campione.

Qualità e immagine: il doppio valore italiano
La strategia industriale maggiormente condivisa è quindi quella di mantenere all’interno i poli produttivi puntando sul canale classico delle esportazioni, magari sostenuti da uffici all’estero di carattere unicamente commerciale.
È significativo che una delle realtà più industrializzate, quella della provincia di Varese, una realtà diversificata dove tuttavia spiccano le industrie delle macchine e della gomma-plastica, la modalità di presenza estera più diffusa siano le esportazioni in tutte le loro forme (93% dei rispondenti all’indagine di Confindustria-Varese), seguite dalle importazioni (circa il 51% dei rispondenti acquista all’estero materiali e componenti, un 8% impianti e tecnologie).
La presenza commerciale diretta interessa un numero più contenuto di imprese (il 10% ha uffici di rappresentanza commerciale, il 4% è presente all’estero con proprie filiali commerciali o negozi direttamente gestiti), ancora meno comune la presenza produttiva (circa il 4% delle imprese internazionalizzate produce all’estero con proprie sedi e stabilimenti).
Uno scenario diverso si può trovare nelle regioni dove prevalgono le produzioni legate alla moda, all’abbigliamento, alle calzature, tutti settori in cui i costi di lavorazione possono essere ridotti con l’automazione e dove ha una particolare valenza il doppio effetto di qualità e di immagine legato al “Made in Italy”.
E’ anche per questo che Sistema Moda Italia ha promosso negli anni scorsi un “Progetto Reshoring” in collaborazione con Price WaterhouseCoopers per dare sostegno a livello governativo alle imprese del settore tessile e della moda che vogliono riportare in patria la propria produzione.
Con un’attenzione particolare al Veneto e alla Puglia. Uno degli esempi di Reshoring è venuto nel 2016 da Benetton che ha riportato in provincia di Treviso la produzione di un nuovo maglione, con 50 posti di lavoro fra diretti e indotti, frutto perlopiù di riqualificazioni di personale che ha seguito specifici corsi di formazione. Un altro caso è quello della Vimec, azienda di Reggio Emilia produttrice di montascale e ascensori per la casa che dopo aver trasferito parte della produzione in Cina nel 2006 ha fatto almeno in parte marcia indietro dato che in 10 anni i costi di produzione cinese sono aumentati, il cambio con il dollaro è divenuto sfavorevole, e un prodotto non esplicitamente “made in Italy” non aveva uguale impatto sul mercato.

Reshoring avanti con giudizio
Proprio il fattore “made in Italy” ha visto crescere la propria importanza anche grazie alle leggi e ai regolamenti che limitano l’utilizzo di questo marchio solo studiati e progettati, ma anche effettivamente realizzati nel territorio italiano. “Made in Italy” è il secondo marchio più conosciuto al mondo dopo la Coca Cola ed è considerato una garanzia di qualità.
Produrre in Italia costituisce quindi un valore aggiunto che il mercato continua ad apprezzare. E questo sta alla base di un Reshoring che, pur lentamente e senza clamori, sta prendendo il posto di quelle delocalizzazioni che non sono più giustificate dai fattori di costo.