Il banco vuoto

A volte sembra che l’unica possibilità per salvare ragazzi imperfetti sia un sistema perfetto. A volte, per fortuna, no. Ma non sempre si vince. La rinuncia alla scuola di M. 


23 febbraio 2024
Sconfitta e domande
di Paolo Covassi

Press Images @Helen-Levitt

C’è una vecchia canzone di Ron dal titolo: “Una città per cantare” che a un certo punto dice:
“quante interurbane
per dire ‘come stai?’
raccontare dei successi
e dei fischi non parlarne mai”

Chi parla volentieri dei fallimenti? Anzi, a volte ci si ripete che bisogna partire sempre dal positivo, da ciò che di buono c’è e ci capita… ma quando hai di fronte un banco vuoto (e siamo solo a febbraio) è difficile trovare qualcosa di buono.
Quello spazio che dovrebbe essere occupato da un ragazzo grida “fallimento”, e hai voglia cercare scuse o motivazioni valide, validissime, per spiegare a te stesso che non è colpa tua, che non potevi farci niente. Resta uno spazio vuoto come un dolore.
M. non ha ancora compiuto sedici anni, ripete per la seconda volta la prima superiore, in teoria sarebbe ancora sotto “obbligo scolastico”. Ma M., a scuola, non ci viene più.

Sveglio e intelligente

L’anno scorso aveva fatto la stessa cosa, anzi, peggio: a fine ottobre aveva smesso di venire a scuola. Intervento degli assistenti sociali, che non ho idea che tipo di intervento abbiano fatto, fatto sta che M. sostanzialmente scompare… fino all’otto giugno, ultimo giorno di scuola.
Lo vedo, lo incontro, parliamo ma, se dovessi dire che mi ricordo cosa ci siamo detti, mentirei. Si reiscrive in prima: merito mio, dice la madre. Boh. Davvero, non mi sembrava di aver detto qualcosa di così interessante; l’ultimo giorno di scuola poi sostanzialmente si gioca. Avendo una prima anche quest’anno riecco M. che, però, non dimostra un gran attaccamento allo studio e ritardi e assenze si moltiplicano.
Io ho paura che succeda come l’anno scorso, così con M. parliamo spesso, anche perché è molto sveglio e intelligente, come diciamo spesso noi prof “potrebbe fare bene!”
Quando parliamo mi stupisce la sua sincerità, la trasparenza, la chiarezza con cui descrive la sua situazione, la sua intenzione di studiare che si scontra con gli amici che gli propongono di “balzare”, con la fatica che non vuole fare (troppo sbatti prof!) e, non ultimo, con i pessimi voti a scuola. Colloqui con lui, con altri colleghi, con la mamma… ogni volta la stessa lucidità di analisi, il giorno dopo la stessa assenza. E ora M. ha già raggiunto il numero massimo di assenze consentito: formalmente (e sostanzialmente) non può neanche essere ammesso allo scrutinio finale. Lui lo sa, e il banco in classe resta vuoto.

“Sai dove trovarmi”

Dopo qualche giorno, entrando alla terza ora, lo incrocio nel cortile della scuola; lo vedo che abbassa lo sguardo, cerca di scomparire nel cappuccio della felpa ma inutilmente: ci siamo io e lui, poco distanti alcuni suoi amici. Lo avvicino: “Quindi? Hai mollato? Di nuovo?”
“Prof, ha visto la mia pagella, non ce la posso fare”
“Certo che l’ho vista, ma sappiamo entrambi perché c’è tutto quel rosso…”
“No, lo so, è colpa mia, ma ormai cosa posso fare?”
“Ok, hai un sacco di materie sotto, ma potresti almeno non farti bocciare”
“No prof, lo sa, non ho voglia”
“Perché ora non entri? Ti faccio fare io il permesso, così poi parliamo, troviamo un modo per aiutarti, al limite per capire che altra scuola potresti fare se questa non ti piace”
“No davvero, questa scuola mi piace, ma… fa niente prof”
“Senti, toglimi almeno una curiosità. Tua mamma mi ha detto che ti sei iscritto di nuovo qui per quello che ti ho detto l’ultimo giorno di scuola. Ma cosa ti ho detto?”
“Sì è vero, cioè – risponde quasi imbarazzato – veramente non ricordo cosa ha detto, ma mi ha accolto. E io ho pensato che magari ce la potevo fare”.
Non mi dà tempo di rispondere, fa due passi all’indietro, un cenno di saluto con la mano, abbassa la testa, gira su se stesso e se ne va verso i suoi amici, o meglio, i suoi compagni di “non-scuola”.
“Sai dove trovarmi!” gli grido. Non si volta, ma alza un pollice.
E così eccomi in classe: all’appello salto il suo nome, il banco è ovviamente vuoto. Mi ripeto che ho fatto tutto quello che potevo, che come ha detto anche lui la “colpa” è sua, che ha scelto lui di non provarci nemmeno… tutto vero e tutto ugualmente inutile. L’idea della sconfitta resta. Certo, c’è da dire che senza M. la classe è anche più gestibile, ma non è certo una consolazione, anzi.
Al cambio dell’ora mi viene incontro un collega di quella stessa classe, pare una furia:
“M. è assente anche oggi vero?”
“Sì…”
“L’ho visto fuori con i suoi amichetti! Con gli occhi rossi che chissà quante canne si sono fumati. L’ho cacciato via e gli ho detto di uscire dal cortile della scuola. Manca solo che gli succeda qualcosa e diano la colpa a noi!”
Con la stessa velocità con cui è arrivato e ha parlato se ne va. Mi avvicina un altro collega che ha assistito alla scena: “Ma quindi M. ha mollato come l’anno scorso?”
“Eh, sì. Ormai ha superato le ore di assenza” vorrei aggiungere che mi spiace, che forse potremmo trovare un modo per tenerlo a scuola altrimenti si perde del tutto, ma prosegue “beh dai, meno male, almeno la classe sarà un po’ più tranquilla e magari si riuscirà a far lezione”. Ha ragione, lo so, è vero… e lui è uno buono, non un cinico, eppure… “Meno male che parcheggio lontano”.
“Come scusa?” Penso di essermi perso dei pezzi di conversazione assorto nei miei pensieri, ma mi sbaglio.
“Eh, mica parcheggio a scuola, non mi fido. Non sono l’unico sai?”
Ma scusa, non mi risulta sia mai successo nulla. Tu sei stato minacciato in qualche modo?”
“No no, però sai, sapendo che girano certi personaggi preferisco parcheggiare fuori, mi sento più sicuro”.

La paura di venire a scuola

La campana mi salva da questo dialogo surreale. Avevo sentito qualcosa alle radio, delle statistiche su quanti prof vivono a scuola con paura… mi sembrava impossibile, e invece.
Provo a fare un mini-sondaggio con i colleghi presenti, alcuni neanche li conosco: due su cinque ammettono di aver paura a venire a scuola o, per lo meno, temono che prima o poi possa accadere qualcosa. Come da programma parte la filippica contro i ragazzi maleducati, quindi le loro famiglie, la società e chi più ne ha più ne metta… soluzione? Guardie, videocamere, controlli… mi viene da aggiungere divisa e saluto alla bandiera tutte le mattine, ma vista l’aria che tira ho paura che mi prendano sul serio e decido di uscire a fare due passi.
M. non c’è più nemmeno in cortile, è andato via davvero.
Io continuo a sentirmi come se avessi perso un’occasione; lo avevamo detto al primo giorno di scuola, quando ci si comincia a conoscere: “guardate al vostro vicino come a un’opportunità”. Forse dovremmo farlo anche noi o, per lo meno, cercare di ricordarcelo più spesso.
Tante volte è stato così, tante volte si vince, ma anche se si è tentati “dei fischi non parlarne mai” credo che sia bene ricordarsene, tenere bene a mente il dolore che si prova quando si fallisce forse è un buon modo per tentare che accada il più raramente possibile. Sarebbe terribile, però, rinunciare a questa possibilità di errore e invocare un “sistema scuola” talmente perfetto da garantire risultati altrettanto perfetti… da non essere umani.