Hannah Arendt. Il miracolo dell’inizio
Convegno per i 50 anni dalla morte

Hannah Arendt. Il miracolo dell’inizio
Esperienza/ ideologia/ totalitarismi/contemplazione
50 ° anniversario della morte – Convegno
(Hannah Arendt – in Yiddish חנה ארענדט –
Hannover, 14 ottobre 1906/ New York, 4 dicembre 1975)
“È nella natura stessa di ogni nuovo inizio irrompere nel mondo come un’“infinita improbabilità”
Giovedì 22 maggio 2025, ore 17.00
Auditorium CMC Largo Corsia dei Servi 4 – Milano
Intervengono
Laura Boella, docente di Filosofia Morale, Università degli Studi di Milano, traduttrice in Italia di Arendt
Chantal Delsol, (in presenza) docente di Filosofia Politica, Università di Paris-Est, fondatrice del Centro di Studi Europei Hannah Arendt , Insitut de France Académie des sciences morales et politiques
Costantino Esposito, docente di Storia della Filosofia, Università di Bari
Sante Maletta, docente di Filosofia politica, Università degli Studi di Bergamo
Filosofa tedesca, fra i più grandi pensatori del Novecento.
Ebrea di nascita, allieva di Heidegger a Marburg, di Husserl a Friburgo, si laureò a Heidelberg sotto la guida di Karl Jaspers su “Il concetto di amore in Sant’Agostino”, opera indicativa del suo profilo filosofico, esistenziale e biografico, pubblicata nel 1929.
La riflessione filosofica per lei è un “pensiero secondo”, in quanto esso deve essere secondo la realtà, venire dopo ciò che l’esperienza suggerisce agli uomini. Dallo stupore e non dal dubbio procede la conoscenza.
Filosofa dell’esistenza incrocia l’esistenzialismo ma non gli appartiene, sfondando l’orizzonte dell’‘essere per morire’, ‘finire’: l’esperienza chiarisce all’uomo la stoffa di cui è fatto e il senso delle sue aspirazioni.
Il Convegno è uno scavo -con alcuni dei più significativi studiosi di Arendt- dei punti originali di Hannah guardando all’oggi e all’attualità del suo pensiero, non ancora compreso nella sua portata.
Arendt scopre in chiave contemporanea l’evento dell’inizio, la libertà principio e concreta nascita dell’azione e della generazione, la dimensione della contemplazione e della comunità. Sono gli eventi della ideologia impermeabile alla realtà dell’esperienza e della misura della mente umana, ad aver portato il seme del totalitarismo a coprire l’Europa, a ovest come a est. Del potere nelle forme che Hannah ha ben compreso prima che accadessero: la persecuzione della persona nella forma del popolo ebraico e delle appartenenze, di ogni uomo, sopprimendo la libertà. Eventi che la spingono a lasciare la Germania nel 1933 per Parigi e da qui nel 1941 raggiungere gli Stati Uniti nel 1941.
Ecco così la attualità della sua spregiudicata analisi della società di massa e un’accorata denuncia della condizione dell’uomo contemporaneo condannato a una sostanziale solitudine. Sulla rivoluzione (1963) analizza gli esiti perversi delle rivoluzioni americana e francese, cioè il passaggio dalla libertà pubblica al dominio della società amministrata e dello Stato.
Passato e futuro (1961) e altri saggi estendono la critica della modernità a problemi come la storia, l’autorità e la tradizione.
Anticipa e denuncia un grave pericolo: “l’espropriazione del mondo” da parte dell’uomo moderno corrode prima lo spazio politico e il cosmo naturale.
A New York scrisse le sue opere maggiori: Vita activa (1958), Le origini del totalitarismo (1951), La banalità del male (1963), La vita della mente (postumo 1978 Ebraismo e modernità (1978, postumo)
Filosofa tedesca. Formatasi nelle università di Marburgo, Friburgo e Heidelberg, ebbe come maestri Heidegger, R. Bultmann e K. Jaspers. Di origini ebraiche, nel 1933 emigrò in Francia, per poi trasferirsi negli Stati Uniti nel 1941.
I suoi principali interessi si sono orientati sull’agire politico, inteso come dimensione pubblica dell’esistenza umana.
In “Le origini del totalitarismo” (1951), la Arendt ricostruisce il processo storico
che ha condotto alle dittature europee e alla seconda guerra mondiale; i momenti decisivi di tale processo (antisemitismo, imperialismo e trasformazione plebiscitaria delle democrazie) sono interpretati come effetti di una complessiva de-politicizzazione della cultura moderna.
“Vita activa” (1958) propone l’elaborazione in termini filosofici del contrasto tra un tipo di comunità politica – la polis greca al tempo di Pericle – e la decadenza dell’agire politico nel pensiero occidentale.
Benché nella contrapposizione tra Grecia e modernità si avvertano influssi heideggeriani, la Arendt rifiuta l’esito anti-mondano dell’ultima filosofia di Heidegger.
L’agire, per la Arendt, definisce l’essere umano come essere-con-gli-altri: l’identità umana costituisce nell’intimità della coscienza soggettiva e neppure nella società (intesa come sfera dei bisogni, del lavoro e della riproduzione), ma piuttosto nella sfera pubblica.
La Arendt ha delineato quest’antropologia politica in numerosi contributi: “Sulla rivoluzione” (1963) analizza soprattutto gli esiti perversi delle rivoluzioni americana e francese, cioè il passaggio dalla libertà pubblica al dominio della società amministrata e dello Stato “Passato e futuro” (1961) e altri saggi estendono la critica della modernità a problemi come la storia, l’autorità e la tradizione; “Ebraismo e modemità” (1978, postumo), e, soprattutto “Rahel Varnhagen” (1958), biografia di un’eroina della Berlino romantica, interpretano l’ebraismo moderno come scisso tra l’aspirazione all’assimilazlone sociale e la fuga nell’interiorità, aspetto proprio di una più ampia tendenza del moderno alla polarizzazione tra coscienza soggettiva e sfera sociale.
Favorevole a una cultura ebraica laica e tollerante, la Arendt si è spesso trovata in contrasto con le comunità ebraiche ortodosse, a partire dal controverso reportage sul caso Eichmann, “La banalità del male” (1963).
Negli ultimi anni della sua riflessione, ha operato una rivalutazione della vita contemplativa; in “La vita della mente”, opera rimasta incompiuta e uscita postuma nel 1978, l’esperienza spirituale viene articolata in tre attività fondamentali: pensare, volere e giudicare. Senza rinunciare al ruolo preminente dell’agire nella definizione dell’identità umana, la Arendt esprime un certo scetticismo nei confronti della possibilità di un’esperienza politica autenticamente libertaria nella società di massa.
Atteggiamento ribadito anche nel ciclo dl lezioni sulla filosofia politica di Kant (1982, postumo) in cui la dimensione pubblica dell’esistenza non è più individuata nell’agire politico, ma nel giudizio, vale a dire nella capacità di saper osservare lo “spettacolo del mondo”.
Tratto dall’enciclopedia Garzanti della Filosofia
Il cinquantesimo anniversario della morte di Arendt può essere l’occasione per recuperare ed evidenziare alcuni aspetti “inattuali” della sua opera.
Il pensiero arendtiano si muove lungo il sentiero della Existenz-Philosophie, da lei stessa individuato in un saggio del 1946 a partire dalla “filosofia positiva” schellinghiana e dal riconoscimento che la ragione non può essere il principio assoluto.
Ciò implica in Hannah Arendt un certo stile di pensiero che è innanzitutto una “postura” esistenziale. Il pensiero si attiva sempre a partire da un dato, in genere un evento storico (ad esempio il nazismo, la rivoluzione ungherese, il lancio dello Sputnik, il processo Eichmann, la contestazione studentesca).
Questa prima mossa è decisiva e determina il successivo sviluppo affinchè il dato non venga ridotto a un senso positivistico.
La filosofa chiarisce teoreticamente questa dinamica soprattutto negli scritti successivi al processo Eichmann, il quale – com’è noto – le impone una riflessione approfondita di carattere etico e teoretico. Arendt individua tre massime del giudizio nelle quali gioca un ruolo fondamentale il concetto lessinghiano di Selbstdenken (pensare da sé). Questo ha due caratteristiche fondamentali. In primo luogo è ineludibilmente legato a un punto di vista che ne costituisce la condizione di possibilità, nel senso che, se da un lato ne limita la prospettiva, dall’altro dona al pensiero una relazione effettiva col mondo. In secondo luogo è per sua natura polemico, cioè si costituisce come un “dialogo anticipato con altri” che sostiene il pensiero nella sua ricerca di imparzialità.
Per Arendt infatti la libertà di pensiero consiste nella possibilità di cercare il senso degli eventi all’interno di un dialogo (potenziale o effettivo) con altre prospettive. Perché ciò sia possibile, occorre una parzialità appassionata, in cui ciò che è decisivo è il “colpo” della realtà sulla struttura percettivo-cogitativa (anima, mind, Geist) che è contenuto nel termine passione.
In definitiva il Selbstdenken è possibile a due condizioni. La prima è costituita dall’aisthesis: se non si dà un sentire, non è possibile alcun rapporto col mondo. La seconda è l’esistenza di uno spazio pubblico nel senso arendtiano del termine, vale a dire una dimensione esistenziale costituita dall’azione dialogica in merito a questioni di interesse comune.
Laddove non si dà spazio pubblico e l’attività degli individui non trascende il livello della riproduzione biologica e della produzione tecnica –quella dimensione che Arendt chiama “sociale” – il sentire, da sentimento pregno di riflessione e aperto al senso comune, degrada in mera sensazione non elaborata. In definitiva il sentire diviene qualcosa di meramente privato, rendendo impossibile la generazione di una soggettività aperta al mondo e a un profondo rapporto con sé.
La riflessione arendtiana sul Selbstdenken mette in discussione la separazione – tutt’ora assai diffusa non solo nel senso comune ma anche in ambito scientifico – tra sfera emozionale e percettiva da un lato e sfera intellettuale dall’altro. Essa si inserisce in modo originale nel panorama della riflessione etico-politica contemporanea che cerca di cogliere l’esperienza pratica umana nella sua ricchezza e complessità, anzi, per molti autori è autorevole fonte di ispirazione. Soprattutto essa fornisce gli strumenti per una lettura critica di una contemporaneità in cui il trascendimento della riproduzione biologica e della produzione tecnoscientifica risulta sempre più problematico e in cui la sfera pubblica viene sottoposta alle deformazioni prodotte dalla diffusione pervasiva di media digitali.
Un altro aspetto assai attuale sviluppato da Arendt nei suoi scritti più maturi è quello della resistenza al male – questione che non è scomparsa con la fine dei totalitarismi – declinato nei termini della “non-partecipazione”. Centrale in tale fenomeno è la figura della coscienza morale (conscience), che Arendt descrive come un prodotto della consapevolezza (consciousness). A tal proposito l’attivazione di facoltà quali l’immaginazione, la riflessione, il ricordo risulta indispensabile per la costituzione di quel “due-in-uno” senza il quale le tre massime del giudizio (pensare da sé, mentalità allargata, coerenza) non avrebbero senso. Eppure gli ambienti digitali e tecnomorfi all’interno dei quali si svolge oggi gran parte della nostra esistenza sembrano depotenziare quelle facoltà, rendendo vano ogni sforzo di carattere educativo.
In relazione alla fenomenologia arendtiana del fenomeno della coscienza morale, per continuare e denotare quella dimensione di alterità di incondizionatezza che sembra costituirla è utile mettere a confronto l’approccio arendtiano con le testimonianze di uomini e donne che hanno praticato nelle loro esistenze una radicale resistenza al male.
Chantal Delsol
Chantal Delsol (Parigi, 16 aprile 1947) è una filosofa, storica della politica e scrittrice francese.
Chantal Delsol nasce in una famiglia cattolica parigina, figlia del biologo Michel Delsol. Studia con il sociologo liberal-conservatore Julien Freund, discepolo di Max Weber. Il suo lavoro si ispira a Julien Freund e Pierre Boutang, oltre che alla sua fede cattolica.
Specialista di fama internazionale nei campi della filosofia etica e politica, scrittrice, docente di Filosofia Politica a Parigi-Est, dove ha creato il Centro Studi Europei Hannah Arendt, Chantal Delsol è stata anche eletta nel prestigioso Institut de France, Académie des sciences morales et politiques. Ha presieduto questa storica istituzione che ha annoverato celebri figure d’Oltralpe come Tocqueville, Bergson o il cardinale Henri de Lubac, ricevendo nel 1992 fra i propri membri associati stranieri l’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Nota per i suoi studi penetranti sul principio di sussidiarietà, per la costante riflessione sulla libertà religiosa e per l’appassionata visione del federalismo europeo, ha appena pubblicato La haine du monde L’odio del mondo, ed. Cerf, sulle radici delle derive demiurgiche e totalitarie del XX secolo. Attenta da sempre al dibattito d’idee in tutte le sue forme, è spesso citata anche per gli acuti editoriali pubblicati su “Le Figaro”.
Si descrive come una liberal-conservatrice. è un’autorevole protagonista del mondo intellettuale francese. Coglie nell’idea della sussidiarietà la possibilità di concepire il potere politico come principio servente del bene comune. Negli ultimi anni si è occupata della politica e della democrazia in Francia denunziando l’assenza di un reale esprit de démocratie. La Delsol difende una concezione federalista dell’Europa che si contrappone alla concezione “imperialistica”, e che viene proposta da più di dieci anni da Jacques Delors. L’alternativa si pone oggi tra federalismo e centralismo. L’Europa federalista è quella che è stata difesa dai Padri Fondatori e che oggi viene riproposta da correnti liberali e cristiane.
Libri recentissimi in italiano (presenti al banco libro al Convegno CMC):
Il crepuscolo dell’universale, (appena pubblicato) edizioni Cantagalli
La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (2023) edizioni Cantagalli
Laura Boella
Ha frequentato il Liceo Classico “Silvio Pellico” di Cuneo ed è stata allieva dell’Università di Pisa e del Collegio Medico-Giuridico della Scuola normale superiore di Pisa, laureandosi in Giurisprudenza con una tesi in Filosofia del diritto.
Ha insegnato presso le università di Pisa e di Milano. Dagli studi sul marxismo critico degli anni settanta, con importanti lavori su Lukács, è passata, attraverso impegnative monografie su Ernst Bloch e Georg Simmel, allo studio del pensiero femminile del Novecento soprattutto di Hannah Arendt.
In questo ambito di riflessione, ha sviluppato in particolare il tema delle relazioni intersoggettive e dei sentimenti di simpatia, empatia e compassione. Fa parte della redazione della rivista Aut aut. Tra i numerosi lavori di traduzione e cura di testi, oltre a quelli di Hannah Arendt, significativi sono quelli che hanno contribuito all’introduzione in Italia del pensiero della “Scuola di Budapest” e, in particolare, di Ágnes Heller.
Ha curato l’edizione italiana dei principali scritti di Ernst Bloch degli anni Trenta (Tracce, Milano, Coliseum, 1989; poi Garzanti, Milano, 2006; Eredità del nostro tempo, Milano, Il Saggiatore, 1992) e introdotto alcune opere di Max Scheler, Simone Weil e Jeanne Hersch.
Si è occupata anche di neuroetica.
Alcune sue opere
-Cuori pensanti. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, María Zambrano, Mantova
-Tre Lune, 1998 (trad. spagnola, Madrid, Narcea, 2010)
-Le imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, Mantova, Tre Lune, 2000
-Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000 (in collaborazione con Annarosa Buttarelli)
-Maria Zambrano: dalla storia tragica alla storia etica: autobiografia, confessione, sapere dell’anima, Milano, CUEM, 2001