L’epicentro del sisma
Gli Stati Uniti e la faglia neopuritana che genera furia distruttiva

Un corto circuito inquietante e destabilizzante. Come la modernità dimentica. Nota non esaustiva sulla cancel culture. Per memorare al tempo del dissolvimento della memoria.

19 febbraio 2022
di Marco Dotti*

«Dovete vedere tutto, sentire tutto e dimenticare tutto».  Sembra paradossale inscrivere una riflessione sulla cosiddetta cancel culture nel quadro delineato da questa massima di Napoleone Bonaparte.

Ma il paradosso, inteso qui come incapacità teorica di definire chiaramente un progetto e come impossibilità pratica di darvi seguito se non in forme convenzionali di tabula rasa, ovvero di brutalità e violenza, sembra uno dei tratti distintivi di questo eterogeneo movimento nato in una ristretta cerchia sul web e presto capace di pervadere ogni piega del reale e dell’ipereale attraverso un’esplosione di paranoia sociale collettiva (mob mentality).

Nella cancel culture si riverbera quello “stile paranoico” individuato oltre cinquant’anni fa, sulle pagine dell’Harper’s Magazine, da Richard Hofstadter come tratto distintivo di una visione cospirativa del mondo sempre tesa a contrapporre assoluti. Nella visione paranoica della lotta politica (e della vita sociale), scrive Hofstadter, «è perennemente in gioco un conflitto tra il bene assoluto e il male assoluto e le qualità richieste non sono riconducibili a una volontà di mediazione, ma alla determinazione di combattere fino alla fine». Costi quel che costi: «poiché si ritiene che il nemico da combattere sia interamente dalla parte del male, deve essere eliminato». Cancellandone ogni traccia.

La demolizione sociale

La deturpazione e la demolizione di monumenti storici – ha osservato Juliana Geran Pilon, in un saggio apparso sull’Israel Journal of Foreign Affairs   «sono i sintomi più drammatici, anche se non i più letali, della malattia che attualmente soffoca i polmoni dell’America». Una malattia che sembra nascere, come mutazione, dai due ceppi del puritanesimo e della paranoia: la cancel culture e la pervasività della sua matrice puritana mista a paranoia sociale hanno colonizzato la sfera pubblica segnando non solo – cosa che invece accade in Europa – i dibattiti sui diritti, ma le relazioni concrete, al punto da costruire una sorta di nuovo, preoccupante stigma pregiuridico.

A essere oggetto di questa furia iconoclasta non sono state solo le figure confederate che per tanto tempo sono state oggetto di critiche e revisioni, ma anche, in alcuni casi, quelli che rendono omaggio a George Washington, Abraham Lincoln e persino all’abolizionista Frederick Douglas. Un corto circuito inquietante e destabilizzante che, dal lato sinistro, in forme che qualcuno ha definito neomaoiste, ha replicato ciò che, nella galassia alt right del dark illuminism (oggi Qanon), avveniva carsicamente sul lato destro del rancore e della cosiddetta “demolizione sociale”. Ciò che oggi, qui, nei dibattiti e nelle analisi, nei pro e nei contro percepiamo è forse solo l’assestamento conseguente a questa poderosa scossa sistima il cui epicentro è in quella grande linea di faglia neopuritana che sono gli Stati Uniti.

La radice dei paradossi

La furia che anima la cancel culture, però, non sembra concentrarsi se non in maniera superficiale sugli artefatti della memoria. L’emisfero destro del pianeta ha già conosciuto, nella figura del “vandalo”, forme simili di distruzione materiale e simbolica su ciò che deve essere conservato. Una questione, quella del vandalismo, che il conte di Montalebert, in una sua celebre requisitoria scritta nel 1883 sotto forma di “Lettera a Victor Hugo”, invitava a leggere come «in primo luogo e esclusivamente religiosa».

L’oggetto di questa rabbia sembra coincidere con la memoria stessa. Un terzo elemento sembra innestarsi così nella doppia radice puritana e paranoica: la tendenza all’irredimibile. Una nuova pastorale politico-sociale, per usare il linguaggio di Michel Foucault, oggi non avrebbe più ragione di far leva sul potere della confessione e del perdono. La cancel culture (ricordiamo: nata nell’ambito del movimento Me-Too), mentre punta a cancellare ogni riferimento esterno, punta anche a rendere incancellabile lo stigma che produce. Da qui il paradosso che la costituisce.

«Non bisogna volgersi indietro. Il passato è morto. Perché dovremmo fermarci a guardarlo ancora?», scrive NathanielHawthorne, l’autore della “Lettera scarlatta”, tra i testi più frequentati dagli osservatori (non certo i più critici) della cancel culture.  Il passato non esiste, si trova costretta a dire Hester Prynne, l’adultera marchiata strappandosi di dosso la lettera “A”: «togliendomi questo simbolo, il passato non sarà mai esistito». Cancellare l’incancellabile è ancora, già redenzione? Domanda non da poco.

In questo senso, più causa, la cancel culture è sintomo – tra i tanti, forse il più preoccupante – di quel rapporto problematico tra la modernità e l’oblio, tra rammemorazione e redenzione che ha oggi assunto forme e velocità inimmaginabili di dissolvimento della memoria in sé, provocando un nuovo e, per ora, inimmaginabile salto di scala.

*Direttore di Emi – Editrice Missionaria Italiana, ha lavorato per molti anni al mensile Vita non profit. Insegna all’Università di Pavia. Twitter: @oilforbook


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