Giovani e futuro
Due anni di tempo per rinascere

Secondo Alessandro Rosina, curatore del Rapporto annuale dell’Istituto Toniolo sulla condizione delle nuove generazioni, l’Italia è a tempo determinato. Il contratto in scadenza, però, è con sé stessa. Per “rinnovarlo”, dobbiamo recuperare chi non studia e non lavora, migliorare il sistema della formazione e far sì che le aziende non facciano venire voglia di scappare all’estero. Le risorse ci sono. Il Pnrr pure. Incertezza del quadro politico permettendo al di là di quando si andrà al voto. Manca solo la nostra firma…


Conversazione con Alessandro Rosina a cura di Nicola Varcasia

22 luglio 2022

Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano, è il coordinatore scientifico del Rapporto Giovani, l’importante studio annuale pubblicato dall’Istituto Toniolo. Tra i dati e gli spunti del dossier, emerge in modo prepotente una ferita: quella che i più giovani si sono ritrovati addosso dopo la pandemia. In un contesto dove anche gli altri numeri ci mettono di fronte a scelte importanti.

Professor Rosina, per l’Istat uno stipendio su tre è sotto i 1000 euro al mese. Dove sono le basi solide per guardare avanti?

In questi numeri emerge l’aspetto più negativo della situazione del Paese. Soprattutto la difficoltà di mettere le nuove generazioni in condizione di costruire il proprio futuro personale ed essere parte attiva di quello collettivo.

Come siamo arrivati a questo punto?

È l’esito dell’impatto sull’Italia della grande recessione del 2008-2013, a cui si è aggiunta la lunga congiuntura della pandemia. Il divario tra i principali indicatori sulla transizione scuola lavoro e la successiva realizzazione dei propri progetti di vita è rimasto molto ampio rispetto agli altri Paesi europei.

Ad esempio?

La percentuale di Neet – i giovani che non studiano e non lavorano – e la bassa valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni nelle aziende e nelle organizzazioni. Questo è il cuore del tema della precarietà, dell’over education, cioè quando ci si adatta a fare un lavoro per cui è richiesto un titolo di studio più basso rispetto a quello posseduto, dei salari bassi e, di conseguenza, di chi decide di andare all’estero.

In che situazione si trova oggi chi è giovane?

Un po’ in sospeso. Da un lato vede il passato e il presente recente, dall’altro il futuro, rispetto al quale, però, non trova ancora nella quotidianità dei riscontri concreti positivi.

Ce ne sono?

Vedo più promesse e progetti che riscontri. Il piano europeo che, non a caso, si chiama Next Generation Ue però ha mandato un messaggio nuovo: l’Europa mette in campo risorse pubbliche collettive mai utilizzate prima. Finora per i giovani c’era solo l’aiuto privato delle famiglie, fattore che evidentemente frenava la mobilità sociale accentuando le disuguaglianze. Ma bisogna usarle bene, come è accaduto col Piano Marshall in un contesto molto diverso da oggi, per avviare sul serio una nuova fase di sviluppo.

Cosa manca?

Anzitutto credere, non solo a parole, che le nuove generazioni non sono il problema del Paese, ma la risposta. L’Italia, col debito pubblico e gli squilibri demografici che ha, da dove può ripartire se non dalla produzione di ricchezza, valore e innovazione delle nuove generazioni, mettendole pienamente in campo? Io lo chiamo il “degiovanimento italiano”, dal punto di vista qualitativo e quantitativo: i giovani sono di meno ma, paradossalmente, si trovano sempre più ai margini.

Se non invertiremo la rotta?

Vedremo crescere le reazioni poco costruttive, quali frustrazione, sfiducia o scelta di andarsene. La pandemia ha usurato fortemente le competenze sociali dei giovani. Abbiamo poco tempo per non perdere il momento di discontinuità dato dalla rimessa in moto di nuove energie e risorse progettuali.

Quanto?

Nel giro di due anni sapremo definitivamente se l’Italia saprà riagganciarsi a un percorso di crescita o se sarà condannata a un declino. Non solo demografico, ma anche economico e sociale, con un allontanamento progressivo dai Paesi protagonisti dei processi virtuosi di produzione del benessere e di sviluppo inclusivo e sostenibile.

Come usare bene questo poco tempo?

Rispetto al ruolo dei giovani di cui stiamo parlando, va trovato il modo di valorizzare le potenzialità dei progetti e dei programmi del Pnrr, dimostrando che sono capaci di essere trasformativi a livello di comunità sul territorio.

Come si fa?

Con tre risposte chiare sulla transizione tra scuola e lavoro. Le scelte di vita, di formare una famiglia e di contribuire alla vitalità del Paese arrivano di conseguenza. La prima consiste nel formarli bene, con le competenze che servono oggi e, in prospettiva, domani.

La seconda?

Inserirli bene, con sistemi efficienti di incontro tra domanda e offerta in maniera da non disperdere coloro che formiamo, facendoli incontrare positivamente con le possibilità di crescita e di domanda di lavoro che il territorio esprime.

Il terzo passaggio?

È la piena valorizzazione: non basta assumere un giovane in condizioni di lavoro precario sottopagato. Le nuove generazioni non sono la manodopera da pagare il meno possibile ma, grazie alla loro sensibilità e competenze verso le innovazioni, sono la leva per il salto qualitativo delle aziende e della pubblica amministrazione. Sui fronti in cui è concentrato lo sviluppo mondiale, quali transizione digitale, transizione verde e apertura internazionale.

Torniamo al nodo della formazione…

La strada è il rafforzamento delle competenze acquisite durante il percorso formativo, ad esempio con il sistema duale che, combinando apprendimento e pratica, l’imparare al fare, riduce le fragilità dei giovani più esposti a diventare Neet.

Ma così non si riduce anche la portata educativa della scuola?

Non sto dicendo che si va a scuola solo per lavorare, ma che bisogna mettere la scuola in relazione con il mondo. Penso a una contaminazione più marcata della scuola con la vita, quindi anche con il mondo del lavoro e con tutti quei contesti di cittadinanza attiva e innovazione sociale che stimolano ad imparare. Lo stesso vale per gli investimenti sulla filiera degli Its – Istituti tecnici superiori. Su questi punti qualcosa nel Pnrr c’è e va implementato bene.

Per quanto riguarda l’ingresso nel mondo del lavoro?

Fondamentale sarà il potenziamento dei Centri per l’impiego che, al di là di un necessario coordinamento nazionale, avranno successo solo se verranno potenziati a livello territoriale e se saranno presenti su tutto il territorio nazionale. Non devono essere solo delle piattaforme in cui iscriversi o degli sportelli a cui rivolgersi, ma devono sviluppare la capacità di parlare il linguaggio dei giovani, di intercettarli là dove sono, conoscerne anche le fragilità e saper interagire con loro. Non devono aspettarsi che siano loro ad andare al centro.

Ma come si fa a trasformare i centri per l’impiego in luoghi aperti e non burocratizzati?

Attraverso alleanze con aziende, associazioni, istituzioni e realtà del terzo settore. Con tutto ciò che ruota attorno al territorio, interagisce con il welfare di comunità e così fa sentire il giovane parte di un consorzio che investe su di lui, nella sua formazione e nel suo ingresso nel mondo del lavoro.

La competenza delle politiche attive è regionale, non si rischia l’atomismo?

I centri per l’impiego devono coprire tutto il territorio nazionale, adesso sono concentrati in alcune aree. Questo è già un primo tema. Le regioni, poi, interpretano queste politiche in funzione delle proprie visioni strategiche. C’è chi punta sul pubblico e chi sull’alleanza tra pubblico e privato. Ma quello che conta sono i risultati. Devono essere gli stessi su tutto il territorio, al di là delle strategie politiche variabili da regione e a regione, perché l’Italia è molto diversa al suo interno. E devono poter essere misurati, per poter cambiare quello che non funziona, cosa che in passato non si è fatta.

A prescindere dalla data precisa delle prossime elezioni, la nostra classe politica è consapevole di questa sfida?

Questo rischia di diventare il punto in cui ci perdiamo, per quello vedo un orizzonte di due anni. Molto dipenderà da come vivremo questo periodo di avvicinamento alla scadenza elettorale, per capire se l’impegno che il Paese prende verso sé stesso, nel mettere basi solide di un percorso di sviluppo con al centro le nuove generazioni, continuerà. Capiremo a breve se c’è una politica che rimane attenta al proprio progetto di nuovo percorso di sviluppo o se andrà a distrarsi con le dinamiche di una gestione debole o, peggio, interessata solo a mantenere i propri rapporti di forza.


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