Giacomo Matteotti, martire della democrazia

Cento anni fa l’omicidio del leader del partito socialista.  La sua morte violenta ha segnato il momento di massima crisi nell’ascesa del fascismo. Per l’Italia il drammatico scivolamento verso un regime dittatoriale.  L’importanza di non dimenticare quel che è avvenuto.  


7 giugno 2024
Verità e libertà
di Matteo Fanelli

“Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà”. Queste parole, pronunciate dal Presidente della Camera Alfredo Rocco durante la seduta del 30 maggio 1924, segnano l’inizio della fine per il deputato socialista che di lì a poco verrà assassinato, e di cui quest’anno si ricordano i cento anni dall’uccisione. L’omicidio di Matteotti, lungi dal rimanere un episodio riguardante una singola persona o un determinato gruppo politico, rappresenta il momento di massima crisi nell’ascesa del fascismo e allo stesso tempo il simbolo di un’Italia che sta drammaticamente scivolando verso una dittatura dai caratteri totalitari.

Un rivoluzionario riformista, un riformista rivoluzionario

Giacomo Matteotti nasce a Fratta Polesine (Rovigo) nel 1885 da una famiglia benestante. All’inizio del nuovo secolo si iscrive al Partito Socialista, cominciando la sua attività politica a livello locale. Dopo aver conseguito la maturità a Rovigo, si laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna.
Il socialismo di Matteotti contiene in sé aspetti sia rivoluzionari che riformisti, e si colloca distante dalle posizioni del PCI, che infatti Matteotti spesso criticava. La sua visione riformista è ben sintetizzata in un articolo del 1923 in cui afferma: “Crediamo che il socialismo si realizzi assai più con la formazione della coscienza collettivista in tutto il proletariato, che con la conquista improvvisa e più o meno violenta del potere”.
Matteotti, inoltre, si distanziava da Antonio Gramsci in quanto riteneva più importante il ruolo delle leghe e dei sindacati, piuttosto che del partito. Sindacati che, a suo modo di vedere, dovevano essere indipendenti dal partito e dovevano rappresentare tutta la classe lavoratrice, senza alcuna distinzione religiosa o politica.
Quando scoppia il primo conflitto mondiale nel 1914 e si sviluppa in Italia l’acceso e polarizzato dibattito tra interventisti e neutralisti, Matteotti si schiera in maniera decisa per la posizione neutralista, andando in contrasto non solo con il direttore del giornale del partito, l’”Avanti!”, Benito Mussolini, ma anche con altri dirigenti giudicati troppo prudenti nelle loro posizioni. Per questo suo anti-militarismo, verrà internato in una località in Sicilia fino al 1919.
Rientrato, riprende da subito la sua attività politica tentando il salto dalla politica locale a quella nazionale. Viene eletto deputato nelle elezioni del 1919, le prime dalla fine della guerra ma soprattutto le prime con il metodo elettorale proporzionale con scrutinio di lista, che avevano visto un’importante affermazione del Partito Socialista e del Partito Popolare di Luigi Sturzo, e un brusco ridimensionamento del partito liberale che dall’unità governava l’Italia.
Durante il “Biennio rosso” Matteotti sarà impegnato a sostenere le lotte contadine nella sua terra, ma soprattutto a fronteggiare, dal 1921, l’avanzata delle Squadre d’azione e del fascismo agrario, particolarmente forte nel territorio emiliano-veneto.
L’aver visto in presa diretta i metodi squadristi, consentì a Matteotti di individuare il fascismo fin da subito come un movimento pericoloso per la democrazia e la libertà, nonostante fosse percepito da molti come un partito che portava sicurezza e stabilità. Molti articoli e interventi parlamentari di Matteotti testimoniano le denunce delle violenze fasciste che egli fece molto prima di essere rapito e ucciso.
Nell’estate del 1922, ad esempio, ancor prima che Mussolini prendesse il potere, Matteotti denunciò alla Camera l’occupazione militare da parte dei fascisti di alcune città come Ferrara, Rovigo e Bologna, dove si erano svolte elezioni provinciali in un clima di violenza da parte dei fascisti nei confronti degli elettori.

Ostile ai massimalismi

Nel novembre del 1922, pochi giorni dopo la nomina di Mussolini quale Presidente del Consiglio, Matteotti critica la richiesta dei pieni poteri al Governo in materia tributaria e finanziaria. Lucidamente ed esplicitamente, egli parla già di “dittatura”: “La dittatura in atto vuole avere dalla Camera non solo il voto di maggioranza, ma anche la delega per la dittatura”.
Nel gennaio 1923, egli afferma che quando il fascismo si è sviluppato, in molti sostenevano che fosse una reazione necessaria alla violenza “rossa” che il massimalismo italiano stava cercando di importare dalla Russia per il trionfo della classe lavoratrice: “Ma appena il fascismo fu costituito, come partito prima, come Governo poi, la realtà è stata perfettamente il contrario, poiché la sua caratteristica è precisamente la violenza sistematica, continua, organizzata, contro le cose e contro le persone”.
Qualche mese più tardi, dopo aver assistito alla soppressione della festa del 1 maggio, Matteotti afferma che dovrebbe essere cancellata dal calendario anche la “festa dello Statuto” (Albertino), poiché questo dovrebbe garantire la libertà individuale, l’arresto solo nei casi previsti dalla legge, l’inviolabilità del domicilio e delle proprietà, la libertà di stampa e quella di associazione. Tutti aspetti calpestati dal Governo fascista.
E dopo aver criticato la modifica della legge elettorale (da proporzionale a maggioritaria), giustamente vista come il modo per il fascismo di consolidare la dittatura, nel settembre 1923 in modo quasi profetico stigmatizza i socialisti che traggono soddisfazione dai conflitti interni al fascismo e ritengono che questo scomparirà da solo: “Le cose possono andare sempre anche peggio”.
In effetti nel 1924 il fascismo si affermò nettamente alle elezioni e dai 35 deputati della legislatura precedente conquistò la maggioranza in Parlamento. Ma lo fece, come denunciò Matteotti nel suo discorso alla Camera del 30 maggio, con la violenza, l’intimidazione e le minacce, che non consentirono agli elettori di esprimersi liberamente.

Un uomo da eliminare

Proprio a causa di queste sue posizioni, pubblicamente e coraggiosamente esplicitate, Matteotti divenne un soggetto da eliminare, tanto che il pomeriggio del 10 giugno venne rapito e quindi ucciso. Il corpo venne ritrovato il 16 agosto nei pressi di Roma, e questo diede inizio ad una serie di proteste nei confronti del fascismo e di Mussolini, considerato il mandante dell’omicidio, da parte dell’opinione pubblica e delle opposizioni in Parlamento, che daranno luogo alla famosa scissione dell’Aventino. Tale atto, tuttavia, avrà un valore più simbolico che politico. La protesta nel paese e nelle istituzioni rifluì, e questo diede modo a Mussolini, con il suo discorso del 3 gennaio 1925, di consolidare il suo potere, sviluppando la dittatura e avviando la “fascistizzazione dello Stato”.

Il coraggio di dire la verità

Nel frattempo, si svolsero i processi nei confronti degli assassini di Matteotti, che si conclusero all’inizio del 1926 con la condanna di tre esponenti fascisti. Dalla condanna venne però esclusa la premeditazione mentre vennero riconosciute le attenuanti generiche. Dopo la caduta del fascismo, grazie ad un provvedimento del governo Badoglio, la sentenza poté essere dichiarata nulla. Si svolse così un nuovo processo che si concluse nel 1947 con la condanna dei tre esecutori dell’omicidio (due su tre gli stessi di venti anni prima) questa volta però riconoscendo la premeditazione.
Qual è il valore di ricordare oggi Matteotti a cento anni dal suo assassinio? Il fatto che egli seppe affermare con coraggio la verità, e per questo fu eliminato. Il fascismo non poteva tollerarlo in quanto caratterizzato da una ideologia totalitaria che, come ha ben evidenziato Hannah Arendt, prescinde dall’esperienza, cioè dalla verità dei fatti, perché tende ad imporre la propria verità e la propria visione del mondo.