Emilia Guarnieri: ecco da dove nasce il Meeting di Rimini

L’appuntamento riminese è uno dei luoghi riconosciuti a livello internazionale dove la cultura dell’incontro si fa materia viva. Tutto è cominciato nell’agosto del 1980. E il desiderio di costruirlo è nato in una pizzeria tra giovani di Comunione e Liberazione: «Portiamo a Rimini tutte le cose più belle e più vere che ci sono nel mondo. Io entro in gioco lì». Così la voce storica, tra i fondatori, di questa manifestazione culturale sempre molto attesa. Intervista esclusiva.  


19 luglio 2024
La testimone
Conversazione con Emilia Guarnieri a cura di Nicola Varcasia

«In troppe parti del mondo la dignità e la vita di milioni di uomini sono quotidianamente offese e calpestate. Questo dolore vogliamo assumere e condividere, prendendo su di noi la responsabilità di essere costruttori di pace». Con queste parole, accompagnate da un iconico manifesto con due colombe stilizzate, nell’agosto del 1980 cominciava il Meeting di Rimini. Sembrano scritte oggi. Non perché adatte a tutte le stagioni, ma perché toccano questioni che vanno all’essenziale, anzi, che spingono a chiedersi, come fa il Meeting di quest’anno: «Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?». È la stessa domanda che rivolgiamo a Emilia Guarnieri, tra i fondatori, 44 anni fa, della manifestazione culturale più importante d’Europa e alla quale idealmente .CON vuole cedere il testimone per l’estate 2024, dopo aver ospitato negli scorsi numeri una riflessione sul tema della cultura (anche) cattolica.

Partiamo da quell’estate del 1980
La prima cosa che mi viene in mente è che io, al Meeting, non avevo assolutamente pensato. Né come opera da costruire, né come qualcosa a cui avrei potuto dedicare le mie energie. Il Meeting mi è “capitato” come un regalo grandissimo che ha donato alla mia vita una prospettiva di grandezza e bellezza assoluta.
Qual era l’idea?
Fare a Rimini qualcosa che ne valorizzasse la vocazione internazionale e creasse l’occasione perché altri incontrassero la bellezza dell’esperienza che stavamo vivendo. Eravamo amici nell’esperienza di Comunione e Liberazione e nel rapporto con don Giussani. All’epoca ciascuno di noi iniziava la sua vita familiare e professionale. Ma eravamo anche animati dal desiderio di incontrare, conoscere e lasciarci sfidare. Un desiderio di presenza, se vogliamo dirlo così. Lo slogan di partenza, risultato vero pur nella sua ingenuità, era: portiamo a Rimini tutte le cose più belle e più vere che ci sono nel mondo. Io entro in gioco lì.
In che modo?
Tutto è partito da un gruppo di amici, tra i quali mio marito, in una ormai famosa serata in pizzeria, nella quale, come tengo a ricordare, io non c’ero ancora. A metà giugno, quando mancavano due mesi alla prima edizione, ci siamo chiesti se poteva interessare anche a noi “buttarci” nella cosa nuova che era stata elaborata. Abbiamo riposto di sì e insieme siamo partiti nell’avventura che avrebbe cambiato la nostra estate e le successive.
Da quella vicenda, infatti, è nata una… storia. Ricordaci tre tappe a cui sei particolarmente legata.
Ce ne sono molte che hanno segnato il percorso del Meeting e, indirettamente, il mio. Sicuramente, l’incontro con Giovanni Paolo II al Meeting 1982: eravamo appena alla terza edizione. Non ci eravamo neanche resi conto della portata e delle prospettive di quello che stavamo costruendo. Però, questo è certo, eravamo animati da un impeto e da una passione.
Poi il vescovo vi comunica che tra due mesi il Papa sarebbe venuto a Rimini.
L’incontro con Giovanni Paolo II è arrivato in modo assolutamente imprevisto e imprevedibile. Il vescovo di Rimini ha ricevuto la telefonata dalla segreteria di Stato a fine giugno: le dinamiche per le preparazioni delle visite non sono certo quelle di oggi. Eravamo a due anni dall’attentato in piazza San Pietro, nel pieno delle vicende politiche che, proprio quell’anno, impedivano al Papa di andare in Polonia, come avrebbe desiderato. Quindi la notizia ci è arrivata nel contesto di uno stupore e di una gratitudine immensi.

1983, insieme a Giovanni Paolo II da sin Nicola Sanese, Antonio Smurro, Emilia Guarnieri Smurro

Cosa vi aspettavate?
Desideravamo che il Papa incontrasse la nostra realtà, che la guardasse e che “ci dicesse”. Così è stato. L’abbiamo accompagnato nelle mostre, negli stand, ha incontrato chi ci lavorava, i volontari e poi in salone ha pronunciato quello stupendo intervento con la memorabile «consegna che oggi vi lascio» di costruire una civiltà che nasca dalla verità e dall’amore: «Lavorate per questo, pregate per questo, soffrite per questo».
Cosa significava per voi costruire la civiltà della verità e dell’amore?
Contribuire a generare un mondo dove l’esperienza della fede determinasse il nostro muoversi. Indicava una posizione da tenere nella vita in tutte le sue espressioni – lavorate, pregate, soffrite – non un ragionamento. Credo che in questi 44 anni non ce lo siamo dimenticati.
Passiamo alla seconda tappa
Fra i tanti momenti, ce n’è uno che mi ha sempre colpito tanto: l’incontro con i bonzi buddisti del monte Koya.
Com’è andata?
Il primo a incontrarli è stato don Giussani, nel giugno del 1987, invitato dal centro culturale di Nagoya nel contesto di un’iniziativa di scambio culturale tra Italia e Giappone. Al termine del viaggio, si aggiunse la possibilità di incontrare i monaci. Tra Giussani e il professor Shodo Habukawa scattò subito una sintonia assoluta, fatta più di sguardi che di parole. Fondata sul riconoscimento dell’Assoluto – come lo chiamavano i buddisti – e sul riconoscimento del Mistero – come lo chiamava Giussani. Su questo mistero condiviso, nell’esperienza di una stima e di una preoccupazione educativa verso i giovani, si realizzò una storia di amicizia.
I monaci ricambiarono la visita.
Don Giussani, salutandoli, parlò ai monaci del Meeting e su suo suggerimento li invitammo. Così, dal 1988, Habukawa e i bonzi del monte Koya visitarono più volte il Meeting, dando vita a un rapporto intenso e bellissimo. Nel 2011 anche noi del Meeting partecipammo a un evento culturale a Tokyo su invito dell’ambasciatore italiano e degli stessi monaci.
Perché consideri così importante questa amicizia con persone dalla mentalità e religiosità così diversa, con le quali era difficile persino comunicare?
L’esempio del rapporto col Giappone penso sia utile per capire quanto la cultura non sia una messa a punto di idee o la costruzione di un sistema. La cultura è il riconoscimento di un punto di significato che diventa capace di abbracciare tutta la realtà. Tornando insieme in Giappone, ci siamo resi conto che questo è possibile. L’ecumenismo, di cui tanto si parla, è la capacità di riconoscere in chi è diverso un bene per sé. Non a caso un intero Meeting, nel 2016, aveva come titolo: «Tu sei un bene per me».

don Luigi Giussani, Oscar Luigi Scalfaro e Emilia Guarnieri Smusso

La terza tappa?
Si parva licet… c’è stato un punto nel Meeting a cui sono molto legata e che ricordo con grande consapevolezza e stima: l’incontro con il presidente Napolitano 2011. In quell’occasione abbiamo ascoltato un riconoscimento da parte sua del valore della nostra esperienza: «Portate nel tempo dell’incertezza il vostro anelito di certezza […] Voi siete una risorsa».
Non è poco, detto dal presidente Napolitano in quel periodo.
Il Meeting viveva alcune situazioni difficili. Essere riconosciuti come una risorsa, un punto di certezza in tempi di incertezza, acquisiva ancora più valore. Credo che il compito della vita sia quello di servire a qualcosa, non di vincere qualcosa. Napolitano riconobbe esattamente il fattore determinante di ciò che il Meeting voleva essere.
Una risorsa che crea cultura senza diventare propaganda.
Ho letto sul “Corriere della Sera”, l’anteprima di alcune lezioni inedite di don Giussani, tenute tra il 1968 e il ‘70, [uscite in questi giorni per Rizzoli, ndr], dove parla di un prima da cui nasce la cultura: è l’avvenimento della comunione, a contatto con le esigenze e i bisogni della realtà, a sprigionare uno sguardo, un giudizio, a suggerire un’interpretazione, cioè una posizione culturale:
«… questo principio profondo, questo che sta prima di tutto, che tende a costituire ogni mio pensiero, sentimento, parola e azione, è a contatto con le esigenze e i bisogni della realtà umana che sprigiona la formula, lo sguardo, il giudizio [..]. È una cultura, una posizione culturale».
Questo credo sia il punto focale della questione: la cultura non è una costruzione, è lo sprigionarsi di uno sguardo da un’esperienza vivente.
Questo sguardo è l’essenziale di cui parla il titolo del Meeting 2024?
Il titolo è molto provocatorio ma, dall’altra parte, sfida una questione profondamente umana. Questa tensione all’essenziale, che poi è la ricerca di un senso, l’uomo ce l’ha inscritta nella carne, nelle sue domande, indipendentemente da come e quando si manifestino.
Pensando alla tua vita con il Meeting e nella professione di insegnante, che cos’è per te la cultura?
Il mio mestiere, a scuola come al Meeting, è stato quello di “aver letto poesie”, provando a fare cultura raccontando la bellezza creata da altri, facendo incontrare nel Meeting la vita, le storie e le esperienze di altri. È una caratteristica in cui mi riconosco, che mi ha sempre indotto a dipendere fino in fondo da ciò che comunicavo – la poesia che leggevo, l’esperienza che incontravo – mettendomi a servizio per questo. Ho fatto cultura – se l’ho fatta – facendo esperienza di punto di significato sulla realtà e lavorando perché questo potesse diventare uno sguardo e un giudizio su tutto.

Musica classica, Spirto-Gentil 2023