Emergenza educatori

Professioni di cura in tilt

Il Paese vive una crisi sistemica che interessa le professioni di cura. Un fenomeno di dimensioni sempre più preoccupanti che impatta drammaticamente su strutture che operano nel settore e famiglie bisognose di servizi qualificati. Siamo davanti a una “fuga”: i giovani, per diverse ragioni, desiderano e scelgono altri percorsi e lavori. Si tratta di una svolta culturale che interpella tutti, e prima di tutti gli adulti. Per ripartire occorre un affronto organico e strutturale del problema. Perché non c’è più tempo da perdere: la casa sta bruciando!


7 aprile 2023
di Antonello Bolis*

Da anni, e a ragione, si grida all’emergenza educativa. E il Covid-19, con i suoi lockdown, le didattiche a distanza e le misure improntate al distanziamento sociale ha ulteriormente acuito tale crisi.
Ma a ben guardare c’è un ulteriore e drammatico sintomo rivelatore dell’emergenza educativa che stiamo vivendo: la crisi delle professioni di cura. Dapprima la carenza di infermieri, poi di medici di base, poi di psichiatri (soprattutto nei CPS) e ora a chiudere il cerchio di educatori (e forse, ahimè, all’elenco si potrebbero aggiungere altri profili professionali).

Un disagio crescente

A conferma delle dimensioni del fenomeno di seguito alcuni esempi. In Lombardia, nell’ambito dei Servizi della Giustizia Minorile, dal 2020 ad oggi 15 Comunità Educative hanno interrotto lo loro attività (di queste 3 si sono convertite in altra tipologia di unità d’offerta e 3 si sono trasferite territorialmente); 2 Case Famiglia e 3 Alloggi per l’Autonomia hanno interrotto l’attività di accoglienza. Altre 2 Comunità  hanno sospeso, temporaneamente, il loro servizio per gravi problemi organizzativi legati prevalentemente all’indisponibilità di un organigramma completo. Le poche strutture che hanno iniziato l’attività di accoglienza dopo il 2020 stanno affrontando gravi problemi per il turnover degli educatori e la difficoltà a costituire un’équipe stabile, affiatata e competente. 
In sintesi 22 strutture di accoglienza di minori/giovani adulti collocati in comunità in esecuzione di un provvedimento penale hanno chiuso dal 2020 ad oggi principalmente per mancanza di educatori disponibili”. A fronte di un disagio giovanile crescente ( le baby gang sono solo la faccia più appariscente di un malessere che ha risvolti individuali nascosti e drammatici) si riduce l’offerta educativa (in termini quantitativi e di qualità della proposta per l’instabilità delle equipe a causa del ricorrente turnover degli educatori)! I recenti episodi che si sono verificati al IPM Beccaria di Milano sono conseguenza anche di questa distorsione: ragazzi destinati a comunità educative sono impropriamente trattenuti nel carcere minorile per mancanza di strutture di accoglienza alternative. Un circolo vizioso di cui non facciamo fatica ad immaginare le conseguenze non solo nel breve periodo ma anche e soprattutto nel lungo!  

Famiglie lasciate sole

Sempre in Lombardia succede che nelle strutture diurne e residenziali per persone con disabilità o riguardo a misure come i voucher B1 e autismo (interventi domiciliari) sempre a favore di persone con grave disabilità o nelle stesse ADI (assistenza domiciliare integrata), non si possono realizzare gli interventi previsti con risorse economiche già dedicate messe a disposizione dalle istituzioni, perché mancano infermieri ed educatori. Famiglie che avrebbero bisogno e diritto ad un sostegno mirato lasciate sole perché non ci sono operatori! Le notizie che arrivano dai Corsi di Laurea in Scienze dell’Educazione (indirizzo accademico che forma i futuri educatori) rendono il quadro sopra descritto non meno preoccupante: se negli scorsi anni gli iscritti avevano mantenuto il consueto trend ( e questo conferma l’anomalia di servizi socio-educativi complessi che oggi chiudono per assenza di educatori!) l’anno accademico 2022-23 vede un significativo calo di iscrizioni: se oggi gli educatori sono introvabili cosa succederà tra un paio d’anni?

Cosa fare

Con delibera DRG 6443/2022 del 31 maggio 2022 Regione Lombardia ha cercato di tamponare l’emorragia equiparando agli educatori i laureati in psicologia, sociologia, servizi sociali e maestri d’arte (provvedimento a termine e valido solo per servizi socio-educativi rivolti a minori in difficoltà e persone con disabilità e che apre il grande tema del riconoscimento delle figure professionali diverse da quelle socio-pedagogiche nel settore socio-educativo e della loro attuale formazione che ricade per intero sui gestori, il più delle volte del Terzo Settore).
Ma il problema della mancanza di educatori è tutt’altro che risolto e permane in tutta la sua gravità.
Da più parti e da tempo gli addetti ai lavori hanno analizzato le possibili cause di tale fenomeno: salari inadeguati, progressioni di carriera quasi inesistenti e quindi professioni poco motivanti, carichi e turni di lavoro ritenuti incompatibili con una qualità della vita ricercata dai giovani: mi capita spesso di vedermi rifiutare la proposta di lavoro in qualità di educatore a tempo pieno  in comunità per via dei turni troppo impattanti la vita privata (notti, weekend, festività…). Così come è altrettanto evidente la difficoltà a reggere situazioni di disagio giovanile complesse da parte di educatori altrettanto giovani e fragili.
Non si può peraltro tacere riguardo alle politiche sociali ed economiche realizzate nel nostro Paese in questi anni: sempre meno risorse messe a disposizione da parte dell’Ente Pubblico (quando non si realizzano dei veri e propri tagli che finiscono per non riconoscere, per esempio, quelle parti fondamentali del lavoro educativo quali la progettazione, la formazione, la supervisione, il lavoro di rete, misurando il costo dell’intervento solo sulla base delle “ore  dirette” della prestazione e in caso di assenza dell’utente…. nessuna retribuzione!) che costringe soprattutto il Terzo Settore ad accettare regole d’ingaggio da parte degli enti appaltanti che penalizzano il lavoro socio-educativo, non solo dal punto di vista qualitativo, ma anche del salario degli operatori e quindi di una stabilità della professione educativa che non si riescono a garantire.
Non a caso in questi anni c’è stata una vera e propria fuga degli educatori (perché le Università nel frattempo non hanno sfornato meno educatori: la notizia è che questi ultimi non hanno mostrato più interesse per i servizi socio educativi o socio-sanitari soprattutto residenziali per persone con disabilità e adolescenti) verso la scuola pubblica grazie alle MAD (messe a disposizione) o una volta integrato il proprio titolo di laurea con quello di Formazione Primaria e del TFA.  Posto di lavoro, quello nelle scuole, che certamente garantisce condizioni economiche e contrattuali migliori.

© Lucia Laura Esposto

Una svolta generazionale

La ricaduta di questa crisi è sull’intero sistema e direttamente su chi avrebbe bisogno di vedere accolta la propria richiesta di aiuto: nelle comunità che a malapena riescono a stare in piedi garantendo i requisiti gestionali richiesti (standard regionali che stabiliscono gli organici minimi per garantire un rapporto educativo utenza/operatori funzionale) regna la precarietà dovuta ad un altissimo turnover.  Così accade che i ragazzi ci rinfaccino di non essere adulti “credibili”.
Non serve a niente e personalmente non credo sia corretto rimpiangere i tempi andati e rimarcare la perdita di quello slancio ideale e quella passione educativa che ha animato una stagione della nostra comunità.
Non credo ci siano dubbi sul fatto che siamo di fronte ad una svolta generazionale, di cui bisogna prendere atto e con la quale fare i conti.
Volendoci capire un po’ di più ho provato a mettere a tema questo fenomeno con gli educatori stessi e sono andato ad interpellarli direttamente: “mi aiutate a capire le ragioni di questa crisi?”.
Li ho invitati a lavorare in gruppi mettendo insieme educatori più esperti a quelli più giovani.
Al termine del laboratorio la premessa da cui sono partiti per poi procedere nell’analizzare la causa del problema è stata: “beh, intanto cominciamo con il dire che nel lavoro non si trova soddisfazione, un lavoro vale l’altro e il cambiare i posti di lavoro è normale”.
Devo dire che la naturalezza con cui hanno comunicato questa premessa (che a me sembra già una conclusione!), come di una cosa scontata e sperimentata nella quotidianità (sono stati soprattutto gli educatori con più anni di esperienza a riportare questa evidenza) mi ha impressionato.  Penso sia a tutti evidente che non si tratti di un problema che riguarda un settore (quello socio-educativo o socio-sanitario) la cui soluzione debba essere delegata agli addetti ai lavori, chiunque essi siano. Al di là delle gravi ricadute pratico-operative di questa emergenza (letteralmente non siamo più in grado di garantire dei servizi essenziali per la persona) c’è un grido d’allarme che  interpella tutti, l’intera comunità: in un tempo giustamente così attento ai diritti delle persone non ci può lasciare indifferenti il vuoto di una società che non è in grado di accogliere i più fragili, una comunità che ha perso quell’impeto ideale che da sempre l’ha portata dapprima a condividere il bisogno e poi cercarne risposte adeguate. 
Perché di questa situazione? Quali sono i fattori in gioco? Da dove ripartire?  Come conciliare domanda di relazioni di aiuto e offerta di luoghi di cura, di interventi socio-educativi capaci di accogliere questa richiesta? Come gli ultimi anni ci hanno insegnato ogni crisi è un’occasione preziosa anche se dolorosa per ripensare e immaginare nuove strade e nuove risposte.

©Lucia Laura Esposto 2021

Ripensare ad un modello nuovo di servizi?

Probabilmente quella fase generativa così preziosa che ha visto il nostro Paese – penso per esempio a  Regione Lombardia dove vivo – programmare, pianificare e realizzare interventi attraverso un quadro complessivo di diverse e  ben strutturate tipologie di servizi socio-assistenziali, socio-educativi, socio-sanitari che oggi rischiano di apparire troppo vincolate ad uno schema progettuale, strutturale e gestionale che può penalizzare quella spinta generativa tipica della progettazione socio-educativa degli operatori del settore, ha esaurito il suo compito.

Rivedere il quadro normativo di riferimento?

Stiamo parlando del grande tema dell’ormai prevalente affidamento dei servizi socio-educativi e socio-sanitari da parte di Enti appaltanti a soggetti del Terzo Settore, sistema che oggi non tutela le professioni al centro della nostra attenzione.

Ripensare un nuovo profilo professionale di educatore sociopedagogico?

In merito alla formazione stessa degli educatori (per esempio, domandarsi se il piano di studi e la didattica proposta rispondano e in che termini ai nuovi bisogni formativi), urge comprendere se l’attuale binomio teoria-pratica quali i tirocini o relativi stage, per come sono concepiti e per il monte ore ad essi dedicati siano sufficientemente formativi.
Ripensare e differenziare le figure implicate nei servizi comunitari (turni, vigilanza notturna. E non ultimo mettere mano alla dimensione contrattuale (salari, inquadramenti, ore lavorative, progressione di carriera…) e valorizzare forme nuove di apprendistato professionalizzanti.

La responsabilità educativa degli adulti

In altre parole, non c’è dubbio che una crisi di sistema come quella che sta interessando le professioni di cura richieda un affronto organico e strutturale: non c’è tempo da perdere, la casa sta bruciando!
D’altra parte rimane la convinzione che nessuna riorganizzazione del sistema può eludere la questione decisiva: che cosa può suscitare una passione educativa, di cura che è all’origine di professioni come queste? Ancora una volta siamo chiamati in causa noi adulti: quale responsabilità educativa e quale cultura della relazione d’aiuto comunichiamo oggi ai nostri giovani e come li accompagniamo e sosteniamo nella scoperta della bellezza di un lavoro certamente complesso e impegnativo ma nello stesso tempo così corrispondente al bisogno di relazione di ognuno di noi e quindi in ultima istanza così carico di soddisfazione? 

*Antonello Bolis, pedagogista, da anni impegnato nella promozione e gestione di servizi socio-educativi e socio-sanitari (coop. soc. Cura e Riabilitazione) e nella formazione degli educatori sociopedagogici (Associazione Kayros).