Di chi è Milano?
Case e negozi, giovani e famiglie e quel che resta della nostra milanesità. Una città sempre meno degli abitanti e sempre più degli affari. Questione cruciale. Con la politica parte in causa di questa trasformazione. Una metamorfosi che esclude. Che slega anziché favorire legami, relazioni. Riflessione necessaria e preoccupata da dentro la città.
7 Luglio 2023
Il prezzo (caro) dell’urbanizzazione
di Elena Granata
Per qualunque cifra
Trilocale in Porta Venezia, la mia anziana vicina, alla morte della sorella pochi mesi, fa ha deciso di affittare l’appartamento a giovani studentesse. “Rigorosamente timorate di Dio”, ha precisato all’agenzia immobiliare, che più laicamente significa femmine (danno meno problemi) studiose, che non facciano feste rumorose la sera e soprattutto ricche. Per ogni posto letto chiede 700 euro al mese, che moltiplicato per quattro, rende bene la lungimiranza della scelta. Quali famiglie del ceto medio con figli potrebbe oggi sostenere questa cifra pur di rimanere in città?
La mia riflessione sulla questione casa a Milano parte proprio da lei, che non sa nulla di finanza, di trasformazioni urbanistiche, di rendite immobiliari ma ha saputo cogliere lo spirito del tempo.
Da almeno due anni anche alle orecchie dell’ignara vecchina è arrivata eco della intensa campagna di comunicazione che plaude ad un mercato che non si ferma, dove i prezzi salgono, sia in centro che in periferia, una sequenza di articoli compiaciuti, di entusiasmo generale per una città che sfida ogni avversità.
Un messaggio prima passato in sordina e poi sempre più martellante che non era rivolto a lei – doveva a fine covid rassicurare i grandi investitori finanziari perché non volgessero altrove i loro favori – ma che è arrivato anche a lei e al giovanissimo agente immobiliare galvanizzato da fatto che per un piccolo appartamento in città oggi si possa chiedere qualunque cifra. Quel termine “qualunque cifra” è il più grande eccitante in circolazione oggi a Milano. La cocaina del tempo che corre.
Mi si dice che ogni privato piò fare il prezzo che vuole, che rientra tra i suoi diritti, e questo è ovvio, ma quando si arriva a generare questo sentimento predatorio e questo desiderio di diventare tutti “imprenditori di se stessi”, per far crescere le rendite personali, bisogna essere consapevoli degli impatti sociali. È molto difficile che la politica riesca poi a intervenire con significativi correttivi di rotta, che siano utili convegni, stati generali e mobilitazione di studiosi e esperti.
Tutti i generosi sforzi di rimettere al centro del dibattito il diritto alla casa e l’equità di accesso al mercato deve fare i conti poi con questa eccitazione collettiva che si muove in direzione opposta e contraria.
Se l’offerta è per la gran parte nelle mani dei piccoli proprietari è difficile poter governare discriminazioni, abusi, irregolarità e ogni tentativo di regolazione degli affitti rischia di essere improduttivo. Mi sorprende sempre lo slancio illuminista delle politiche di calmieramento dell’affitto da parte dei proprietari, perché non riconosce un dato (per così dire) antropologico: l’attesa di massimizzare il profitto è radicata nel profondo degli italiani, a partire dalle case in città, dalle seconde e terze case messe a reddito, perché costituisce una fonte di sicurezza economica non avendo un sano e robusto mercato del lavoro.
L’Italia è fondata sulla rendita, secondo la felice e antica definizione di Geminello Alvi. In un mercato dell’affitto completamente deregolamentato dall’attore pubblico questa aspettativa è difficile da mitigare perché richiederebbe un processo educativo di lungo periodo (un’idea civile dell’abitare che stenta ad affermarsi anche tra le cerchie culturali più sensibili) oltre che regole e incentivi.
Di tende, ragazzi e anticorpi civili
Ma le città hanno sempre i loro anticorpi civili. A chi passi davanti al Politecnico dalle prime settimane di maggio capita di scorgere una densa sequenza di tende di varia misura. Quei giovani studenti universitari che hanno seguito l’esempio di Ilaria Lamera, studentessa bergamasca che per prima ha piantato sul prato la sua canadese – sola, coraggiosa, poi emulata da altri ragazzi a Milano e in altre città italiane – non sanno che quel loro gesto simbolico di protesta affonda in un immaginario di secoli.
La festa delle capanne è la grande occasione che la cultura ebraica ogni anno sì dà per ricordare, per rivivere la precarietà, per lasciarsi sorprendere da uno scampolo di natura, per riunirsi insieme alla famiglia. Camminando per le strade di Gerusalemme non è difficile nei giorni di sukkot incantarsi a guardare gli ebrei di stretta osservanza, eleganti nei loro vestiti neri, le camicie bianche e i grandi cappelli neri, intenti nella costruzione delle loro capanne, circondati da nugoli di ragazzini.
La fragilità della capanna diventa simbolo dell’esilio ma anche della consapevolezza rinnovata. La coscienza della propria debolezza diviene forza e stabilità.
I ragazzi del Politecnico, usciti dalle loro case, da settimane interrogano in profondità il senso del nostro abitare, il futuro che vogliamo dare a questa città. Non hanno competenze tecniche ma hanno istinto civile e un profondo senso della giustizia che trascende il loro bisogno individuale.
Non sono stati compresi dal mondo dell’informazione (e neppure da tanti colleghi docenti) che si domanda piccata: perché non si adattano alla vita da pendolari? Perché non cercano casa fuori Milano?
Perché si lamentano se vivono a Pavia, a Bergamo, a Mantova e vengono a Milano a studiare?
Perché la domanda di questi ragazzi non è (solo) una domanda di casa.
È una domanda di città, di relazioni, di vita in comune che inizia nelle aule e prosegue alla fine delle lezioni, chiede fare un’esperienza di formazione che non si limiti a esami, voti, lezioni ma diventi bene relazionale, compagnia, incontri, affetti, relazioni sociali. Se non si comprende questo diritto fondamentale alla città prevarrà sempre un atteggiamento di paternalismo: ma cosa vogliono ancora questi ragazzi viziati. Niente di più ottuso che leggere in questo modo questa protesta. E dopo anni di covid hanno ben diritto a chiedere di uscire di casa.
Dovremmo invece ascoltare la voce di questa generazione e comprendere la novità di una politicizzazione della questione-casa da parte di ceti medi urbani più capaci di fare emergere la loro voce, si tratta di residenti di quartieri periferici o semi-periferici, dal quartiere Nolo a Corvetto, di studenti e lavoratori fuorisede, ma anche di professionisti stanchi di pagare a prezzi inarrivabili case di scarsa qualità edilizia, che cominciano a protestare.
Un tempo in questa città le voci del dissenso erano capaci di fare proprio il bisogno di casa dei più poveri, il diritto alla casa pubblica per chi non ha altre risorse, l’esclusione sistematica degli stranieri, ma certamente l’iniziativa degli studenti può essere un punto di partenza, se non siamo distratti e troppo presi dalle nostre piccole miserie quotidiane.
Una antica lezione dell’economista Albert O. Hirshman ci spiegava che di fronte allo scontento i consumatori – e quindi anche di noi cittadini – hanno due opzioni possibili: l’uscita (exit) e la protesta (voice). La prima descrive il solitario movimento in uscita dalla città di chi non ce la fa, non fa notizia, non disturba il manovratore, è invisibile; la seconda si fa protesta collettiva, voce, analisi, espressione di pensiero pubblico, malcontento che arriva sulla stampa e nei talk televisivi: questa disturba la politica, ma soprattutto piace molto poco ai mercati.
Perché la reputazione e i beni relazionali, tanto trascurati dalle politiche locali, sono elementi cruciali per continuare ad attrarre capitali e investimenti. Quanto è contraddittorio il mercato: è predatorio ma ama le cose belle e le persone felici! Vuole il manager nel suo attico affittato dall’azienda, ma anche l’osteria tradizionale a pochi passi da casa. Ma non si può avere tutto, ecco perché poi le bolle immobiliari scoppiano, le città implodono, il conflitto sociale si esacerba. Le città diventano dei deserti della finanza o resistono tenendo in tensione spinte economiche e sociali, come era stato negli anni passati.
A rischio il welfare di prossimità
Gli studenti non sono però l’unica voce. Questa aspirazione alla qualità di vita è la stessa che formulano le giovani famiglie costrette all’uscita.
Per molte di loro è una necessità economica (costi troppo alti e scarsità di servizi per l’infanzia), per altre è un desiderio di trovare altrove un tempo e uno stile di vita più compatibile con le esigenze dei figli, delle donne, una richiesta di maggior prossimità con la natura che viene cercata in provincia o in altri contesti urbani.
Sono ancora casi isolati quelli di sindaci capaci di cogliere questo movimento in uscita come un’opportunità, penso ad Alberto Rossi, sindaco di Seregno e al suo appello ai milanesi perché scoprano la ricchezza della sua comunità (Il Segno, maggio 2023).
Ma un dato è certo. L’esodo delle famiglie più giovani da Milano sta consumando in modo invisibile quel reticolo di welfare di prossimità che è nella storia del modello urbano ambrosiano: quella prossimità tra nonni e nipoti, fatta di reti amicali e familiari, di mutuo e reciproco sostegno che non è in alcun modo sostituibile da servizi e reti private o del terzo settore.
Abitare nello stesso quartiere dei genitori è stata la forma più efficace di welfare in un contesto davvero poco generoso dal versante pubblico con le famiglie. Milano non è città per bambini, per famiglie, per anziani soli. Verrebbe da chiedersi per chi è pensata la città dei prossimi anni.
La “città dei quindici minuti”, che tanto piace agli amministratori anche milanesi, ha qui una sua declinazione singolare (la stessa che mi ha consentito di crescere tre figli e lavorare): in assenza di nidi, servizi alle famiglie, ludoteche e parchi giochi a quindici minuti da casa vorrei trovare la mamma!
A pagare il costo di questa intensa virata dei prezzi in città, se partiamo dai dati segnalati dai siti immobiliari per cui il prezzo medio di vendita di un immobile a Milano è salito dai 3.745 euro al mq del gennaio 2015 ai 5.208 euro del marzo 2023, sono soprattutto giovani e studenti universitari. O meglio, giovani e studenti e famiglie del ceto medio che lasciano il posto in città a giovani e studenti delle alte borghesie italiane ed estere che possono investire per i loro figli a Milano.
Quindi è vero che la città sembra non perdere abitanti in termini di numeri assoluti, intorno ai numeri c’è una certa nebbia, ma sta assistendo ad una sostituzione di vecchi abitanti con quelli nuovi.
Questo processo sta cambiando il profilo antropologico della città: vanno via alcune delle categorie che formavano il suo nerbo, come giovani famiglie e commercianti, mentre arrivano uomini d’affari e manager, abitanti temporanei e di passaggio, turisti.
Un fenomeno che avviene sempre nelle grandi metropoli ma che a Milano ha caratteri di rapidità singolari e soprattutto sta avvenendo anche nelle aree periferiche. Benedetto dalla rendita è tutto il suolo milanese, entro i confini amministrativi.
Ovviamente, permangono le differenze tra zona e zona: dai 10.033 euro al mq del centro ai 2.685 euro al mq della zona Bisceglie, Baggio, Olmi. Non va meglio per gli affitti: a gennaio 2015 affittare casa in città costava in media 15 euro al mq, oggi 21,63 euro, con un aumento del 11,27% solo nell’ultimo anno.
Per la prima volta possiamo dire che è in corso una gentrificazione, intesa come valorizzazione immobiliare con relativa espulsione dei ceti più poveri, anche nelle periferie meno appetibili in termini di qualità dello spazio pubblico e di servizi, oltre che di qualità degli immobili. Appartamenti minuscoli, che un tempo avrebbero avuto la dignità di solai o poco più, vengono spacciati come loft a prezzi sostenuti, mentre una stanza in affitto con bagno condiviso ormai è introvabile a meno di 600 euro al mese. E qui il libro “Case Milanesissime” di Alvar Altissimo (Corraini, 2021), offre esilaranti declinazioni con misure, metriche e follie spaziali.
Tutto parte dalle scelte urbanistiche
La questione casa però da sola non esiste. Non possiamo capire le dinamiche del mercato se non le leggiamo in sincrono con le politiche urbanistiche. Anzi, le derive del mercato immobiliare sono un esito diretto, non controllato, inevitabile delle scelte urbanistiche degli ultimi anni. Il soggetto pubblico non ha negoziato, posto condizioni, chiesto ricadute collettive agli investitori privati, affidando al loro buon cuore e al loro senso di responsabilità di farsi carico di qualche istanza collettiva (una quota di edilizia a prezzi più contenuti, verde e spazi di natura, oneri, ecc.).
Per questo porre oggi l’accento sulle diseguaglianze abitative senza capire da dove nascono mi pare quanto meno miope, se non talvolta colpevole.
Il mercato immobiliare sta dentro le strategie urbanistiche degli ultimi anni, che hanno puntato decisamente sulle grandi operazioni edilizie, come quelle che stanno riguardando gli ex scali ferroviari ma anche sulla valorizzazione minuta e diffusa sul territorio. La “rigenerazione alla milanese”, che oggi vede impegnati attori come Coima, forti sia alla grande scala che sulla piccola scala di quartiere, ha effetti profondi su tutta l’organizzazione urbana e avrebbe richiesto una controparte pubblica più forte. Le aziende private sono una ricchezza per la città ma la costruzione di una città “pubblica” attenta a tutti è materia molto delicata.
Il radicale processo di valorizzazione immobiliare modifica la struttura genetica dei quartieri. Spariscono i piccoli commercianti, le attività artigianali, per lasciare il posto a ristoranti, pizzerie, bar, gelaterie, ai grandi brand della moda alta e bassa. Escono dalla città i meccanici, i gommisti, gli elettricisti, le mercerie, i negozi al dettaglio sostituiti dai supermercati a scala di quartiere. Una modificazione genetica che poi nessuna politica di sostegno al commercio e alla manifattura urbana potrà più riportare in città, ammesso che rientri tra le preoccupazioni di questa giunta.
Meno negozi significa meno presidio su strada, meno sicurezza, meno vitalità dei quartieri come tutta la letteratura sugli spazi urbani americani racconta dagli anni Cinquanta (vedi Jane Jacobs e la sua difesa degli ecosistemi urbani).
A qualcuno questo modello americano piace molto. Peccato che di solito piaccia meno ai cittadini e soprattutto tenda nel medio periodo a piacere sempre meno anche agli investitori, che in città non comprano solo metri cubici e cemento ma anche “quell’aria di città” che distingue l’Italia nel mondo.
Quando parliamo di città-Airbnb, di finanziarizzazione, di Milano grande forziere d’Italia, di banca per le borghesie italiane facciamo riferimento ad una serie di processi che privilegiano consumi, patrimonio, rendite, turismo, affari alle altre dimensioni urbane. La città degli abitanti viene sostituita dalla città degli affari: uomini d’affari, turisti, viaggiatori. Le case vengono comprate da società e aziende, da fondi immobiliari esteri (come accaduto nella zona di Gae Aulenti), ma anche da borghesie ricche italiane e estere che vogliono tenere al sicuro i loro risparmi e vedono nella piazza milanese l’unico contesto sicuro del Paese. Milano vs Italia.
Ovviamente le metropoli sono sempre attraversate da turisti, uomini d’affari, pendolari temporanei e questa dinamica è cruciale per la loro vitalità economica, ma è sempre una questione di equilibri e tensioni interne.
Se oggi a Milano anche esponenti in vista della cultura (penso alle parole della Rettrice del Politecnico Donatella Sciuto) cominciano a parlare di città di ricchi e anziani, forse abbiamo ampiamente superato il limite.
Il problema si complica se pensiamo che questa città di single, ricchi, adulti, spesso in viaggio, che diserta la città nei fine settimana preferendo altre mete più fresche e naturali: quindi abitanti non abitanti. Chi difenderà il diritto alla qualità dell’aria, alla presenza di nidi, alla sicurezza delle piste ciclabili, al diritto alla salute se Milano perde la meglio gioventù, i creativi, le famiglie attive?
Le promesse tradite
Milano in questi anni ha vissuto di una promessa implicita: in questa città puoi realizzare il tuo progetto, puoi investire i tuoi capitali, puoi far nascere una nuova impresa, puoi incontrare qualcuno o qualcosa che ti cambia la vita. Milano città dei giovani che vengono da ogni parte d’Italia, città di single, città degli universitari, città dove le donne possono ambire a un posto di lavoro degno di questo nome, città delle mille lingue e delle mille appartenenze, città dell’alto e del basso, della moda e delle mode che nascono e rinascono, città delle week e degli eventi.
Se la città cambia, anche tu puoi cambiare, se la città rinnega il suo passato, anche tu puoi rinnegare qualcosa di te. Se la città si trasforma anno dopo anno, se non è schiava della sua storia, del suo perduto splendore, anche tu, qualunque storia abbia, da qualunque sperduto sud tu venga, qualunque vita tu abbia vissuto, puoi cambiare, puoi diventare quello che vuoi.
Ma cosa succede se quella promessa di benessere e di realizzazione personale non è più universale, destinata a tutti, ma restringe il cerchio intorno a pochi? Se al posto di attirare giovani talenti li respinge ed esclude?
Oggi la città si nutre di un racconto dissociato. Da un lato, la città è tornata a muoversi, è tornato il traffico, i cantieri non si fermano, gli investimenti si moltiplicano, sono tornati i turisti e i prezzi delle compravendite immobiliari conoscono un’intensità che in città non si vedeva da anni; dall’altra, cresce lo scollamento tra le attese e le promesse e il malessere diffuso delle persone, soprattutto dei più giovani. La narrazione pubblica e dell’amministrazione insiste soprattutto sugli elementi di successo e di rinascita ma fatica a dare voce a quel malessere diffuso che diventa vuoto di senso e mancanza di speranza.
Non si può divulgare il racconto di una città green, dove si piantano milioni di alberi (Forestami), attenta alla salute e al benessere dei cittadini e continuare ad avere livelli di inquinamento dell’aria che fanno ammalare; promettere spazi per una mobilità lenta e non investire su mezzi pubblici e piste ciclabili; invocare con slogan la città dei “quindici minuti” (Piazze aperte e urbanistica tattica) e non porre attenzione ai servizi per la salute, alla qualità di vita nei quartieri, alla pulizia delle strade, alla sicurezza degli spazi comuni; dire che consuma meno suolo e non dire che a Milano nel 2021 sono stati 19 gli ettari tolti per sempre al verde, con un incremento di otto volte da un anno all’altro.
L’incidenza di aree verdi, pari al 40,33 %, la colloca agli ultimi posti nella classifica dei capoluoghi. Nel 2022 il suolo cementificato nella Città metropolitana è aumentato di 75 ettari” (dati Ispra, 2022).
Continuare ad attirare con le sue università studenti da ogni parte d’Italia e dall’estero e poi negare il diritto alla casa, ad una casa confortevole e ad un prezzo accessibile; fare appello ai diritti delle persone e non recepire il rancore, il senso di insicurezza che si leva dai cittadini che usano la metropolitana, che abitano in periferia, che si sentono sempre più minacciati nella propria incolumità, come emerge dai fatti di cronaca più cruenti; apparire come modello di sanità pubblica e inclusiva e non considerare quanto questo modello sia oggi fortemente in crisi e ancora una volta penalizzante per i profili più poveri e fragili; confondere sistematicamente processi di valorizzazione immobiliare e di rendita urbana con la capacità di visione e immaginazione che da tempo è scomparsa dalla scena pubblica locale.
A questo proposito il libro di Lucia Tozzi, “L’invenzione di Milano” (Cronopio, 2023), felice non solo nel titolo, rischia davvero di farci aprire gli occhi sulla città che non c’è, ma che è stata ben raccontata.
Che fare?
L’uscita dallo stallo in termini di politiche non è affatto semplice. Vediamo alcuni possibili loop: gli studenti chiedono più collegi e più case popolari, con una formulazione giusta dal loro punto di vista ma incongrua rispetto alla vera natura del problema.
Davvero la soluzione saranno nuovi silos per studenti? Non mancano le case e gli immobili sfitti e inutilizzati ma il mercato preme per costruirne di nuovi e la domanda dei ragazzi rischia di essere strumentalizzata. È un problema di regole, di equità e non di quantità. Ridurre la nuova produzione edilizia coincide con quell’anima ecologista e attenta alla crisi climatica che pure quegli stessi ragazzi sostengono.
La risposta a una domanda complessa (di casa, servizi, città, welfare, verde, aria) non può essere una risposta semplice: più case, più studentati. Bisogna adottare una logica sistemica, sapendo che risolvere la fame di case degli studenti si deve coniugare anche con la possibilità di vivere in una città che costa troppo anche per mangiare, consumare, muoversi. Che non potremo rispondere alle necessità dei penultimi se non ci occupiamo anche degli ultimi e di quelle tristi code del pane che costringono sotto il sole cittadini milanesi e stranieri per un pezzo di pane, accanto alla Bocconi. Che avremo da reinventare modi e spazi di un dibattito pubblico intorno alla città, che non faccia parlare solo addetti ai lavori e portatori di interessi.
Da tempo si era spento il dibattito in città su quale città abbiamo in mente, sulla città che vogliamo, riprendere la parola come ha fatto tra gli ultimi il Rapporto Ambrosianeum 2023, mi pare un tardivo ma vitale tentativo di salvare quel che resta della nostra più sincera e consapevole milanesità.