Cultura, per abitare, per ricordare, per cambiare

PRESENTAZIONE

La città è un fenomeno vivo, perciò mutevole. La memoria del vissuto e le aspettative sono legate da un presente che eredita e da un futuro che si plasma di giorno in giorno.
Per far sì che a leggere il nostre presente e il nostro futuro non siano degli agenti estranei, esterni al vissuto, come la “narrazione” dominante, abbiamo sviluppato questo Progetto Cultura, per abitare, per ricordare, per cambiare che si imperna sulla cultura come coscienza del vivere e come forza che può dirigere i passi propri e degli altri, offrendoli così a condivisione di tutti ed anche ad essere utilizzati da cui, all’esterno di un territorio ha possibilità realizzative e idee, per incarnarne il vero racconto e i cambiamenti cercati.

Cambiare non è contrario a ricordare o ad abitare: è una consapevolezza che proviene da una cultura. Essa è oggi il punto debole ed il punto forte, se ritrovato, dei processi che vive una città, una porzione di essa, un quartiere. In questo momento Milano rischia di non sapere, di non contare su che cosa partire di nuovo per rinnovarsi. Deve ritrovare sé stessa e dunque la propria modernità che è il suo segreto: la combinazione per davvero del passato, del suo abitare senza ridurre l’utilità alla bellezza e viceversa, del coraggio del cambiamento imperniato sulla propria cultura del vivere e dell’abitare.
Una circoscritta porzione di persone di due Comuni a nord di Milano, Crescenzago e Turro, che sono divenuti nel 1923 parte di Milano (lo scorso anno è stato centenario delle annessioni di 11 Comuni al Comune di Milano), coordinato dal Centro Culturale di Milano, ha lavorato su di sé, sui propri desideri e sulla propria storia, riscoprendo il passato, accorgendosi dei suoi legami e possibili progetti di cambiamento.
Lo ha fatto grazie a Fondazione Cariplo e seguendo l’indirizzo della loro cura verso la città, creando insieme il Progetto Cultura, per abitare, per ricordare, per cambiare interagendo con realtà cittadine come l’Accademia di Brera, Agorà futuraCentro Culturale di Milano, Casa della Cultura Musulmana, Consulta delle Periferie, Urbanfile, coordinati da Camillo Fornasieri, direttore del Centro Culturale di Milano e da Alessandra Coppa, architetto, giornalista curatore editoriale e docente a Brera e all’Accademia S. Giulia di Brescia.
Un esempio di rigenerazione identitaria in grado di toccare tanto la sfera della persona che della comunità, quanto quella delle stesse case e dei loro dintorni.

Cultura, per abitare, per ricordare, per cambiare, un progetto per rispondere al bisogno di preservare la memoria collettiva del quartiere, per far nascere un maggiore senso di appartenenza. Dare corpo al bisogno di coinvolgere i giovani che vivono sul territorio, affinché si pongano quale parte attiva nel processo di rinnovamento culturale, dare corpo al bisogno di coinvolgere la popolazione di origine straniera che vive sul territorio, per generare anche in questo caso un maggiore senso di appartenenza alla comunità tutta.
La casa, che rappresenta il luogo nel quale viviamo e ci sentiamo al sicuro, diviene quindi il fulcro del progetto, dal quale far scaturire memorie storiche, idee di sviluppo e di rigenerazione dei luoghi.
Si è generato un piccolo campione per istituire un rinnovato sistema comunicativo, che sappia aprire le porte per il confronto con i cittadini di diverse aree, differenti tra di loro per età, cultura, tradizioni e status sociale ed economico. Un metodo che, dopo questo primo risultato, può essere adottato in futuro.

Un piccolo esempio per creare reti di collaborazione stabili, strettamente connesse ai cittadini e ai bisogni del territorio e in grado di fare sistema nella risoluzione di problematiche diverse.
Il gusto e necessità di dare voce alla cittadinanza, per creare comunità, per indirizzare giovani e cittadini in generale ad una maggiore cura e valorizzazione del proprio spazio, che possa essere plasmato da loro nel tempo.

Intervento di Mahmood Asfa
Direttore della Casa della Cultura Musulmana di viale Padova – Milano

L’amicizia con il CMC Centro Culturale di Milano è stata costruita nel tempo. Con Benaissa Bounegab è iniziata invece molto prima: lo chiamiamo il saggio della nostra Casa della Cultura Mussulmana. Lui viene dal nord d’ Africa, io dal Medio Oriente, due parti del mondo musulmano, magari qualcuno pensa che tutto il mondo musulmano sia la stessa cosa; invece, ogni Paese ha la sua cultura e la sua tradizione. Alcuni stati come il Pakistan dal punto di vista culturale sono molto lontani, nonostante la stessa fede musulmana: con tanta difficoltà qui a Milano siamo riusciti a superare gli ostacoli della lingua, della cultura e delle tradizioni differenti per riunirci tutti a pregare insieme. Grazie al lavoro che è stato fatto dai primi fondatori di questa associazione, siamo stati in grado di unire queste diverse culture mantenendo ognuno la sua identità, ma pregando insieme un unico Dio.
Questa è la mia storia che mi ha portato in Italia. Quando avevo finito Maturità, i miei genitori mi hanno proposto di andare a studiare all’estero. E la cosa che mi ha attirato a venire in Italia è stato il calcio, quando avete vinto i Mondiali dell’82. Mi ha colpito vedere il Presidente della Repubblica Sandro Pertini che parlava con i giocatori, questo per il mondo arabo era una cosa inimmaginabile. Mi sono iscritto alla facoltà di Architettura al Politecnico e insieme con altri studenti, tra cui Benaissa, che studiava Ingegneria, abbiamo fondato la Casa della Cultura Mussulmana: un luogo non solo per pregare, ma anche per aiutare gli stranieri a integrarsi nella comunità italiana, dopo la legge Martelli del 1988 che premetteva la regolarizzazione degli stranieri. C’era esigenza di lavoratori in quel periodo, l’Italia aveva bisogno di mano d’opera. Infatti, appena è nata la Casa della Cultura Musulmana, il nostro primo compito è stato una collaborazione con la questura: compilare i moduli per questi nuovi arrivati, nomi, cognomi, cittadinanza e data di nascita, perché non sapevano l’italiano.
Fondata l’associazione poi abbiamo trovato un luogo dove pregare. Il primo sermone dell’Imam è stato fatto in arabo e in italiano: il messaggio era per far capire che, se i migranti avessero scelto l’Italia avrebbero dovuto imparare la lingua. Tuttavia né l’Italia né la comunità erano pronti per accogliere i nuovi immigrati, allora abbiamo organizzato corsi di lingua, abbiamo letto anche la Costituzione italiana, abbiamo lavorato per il futuro dicendo che dovevano imparare, che c’erano delle regole, delle leggi da rispettare.
Con il tempo abbiamo avuto dei problemi con i figli degli immigrati; come dovevano comportarsi conservando la loro fede, la loro cultura? Come trovare un patto tra le due culture, come educare questi ragazzi? E i genitori stessi come dovevano educare i propri figli? Questo è un problema, una sfida: abbiamo fatto dei corsi ai genitori per come doversi comportare con i propri figli nel nuovo contesto, nell’ambiente dove nasce il bambino. Non so se ci siamo riusciti, ma continuiamo a lavorare, a far sentire soprattutto alla nuova generazione che questo è il loro Paese. Noi lavoriamo per farli sentire veramente cittadini “italiani”.
Vi racconto un aneddoto: mia figlia quando frequentava la scuola superiore, ha avuto una discussione con una sua compagna di classe. La ragazza italiana le diceva “tu sei straniera”, mia figlia rispondeva “ma no, io sono italiana. Musulmana ma italiana”, ed è nato un litigio fra ragazzi. Una parte dei compagni di classe confermava e sosteneva a ragazza, un’altra parte sosteneva mia figlia, fino a che il professore è intervenuto dicendo “ragazzi, smettete di dire queste sciocchezze. Siete tutti uguali, non c’è differenza fra straniero e non straniero”. La ragazza chiede perdono a mia figlia, dicendo “scusa se ho alzato la voce ma sono ancora convinta che tu sia straniera”. Questa è una delle difficoltà che noi non riusciamo a far superare ai nostri figli. Mio figlio quando aveva dieci anni, parlavamo di calcio, perché lui tifa il Milan, gli ho chiesto: “ma tu perché sostieni solo il Milan? Ci sono squadre anche in Giordania” e lui ha replicato: “perché io sono italiano”. Ed io: “ma come sei italiano? Tu sei straniero, sei giordano” e lui “ma va, io sono italiano”. “Fammi vedere il passaporto, vedi il passaporto è giordano”. Si sentiva italiano, ma lo sarebbe stato effettivamente solo a diciotto anni.
Un’altra grande questione da affrontare è la costruzione della Moschea.
Da quasi più di 25 anni siamo in trattativa con il Comune di Milano per avere un luogo di culto degno per la comunità, perché anche questo rappresenta un problema della nostra comunità, soprattutto delle nuove generazioni. È vero, potremmo pregare anche nei magazzini, ma il problema grosso è dare un luogo di culto a questi ragazzi che nascono e crescono in questa società. Mia figlia a otto anni diceva “papà perché il mio compagno di scuola va a pregare di domenica nella sua bellissima chiesa, l’altro nella sinagoga, e noi sempre in quel capannone?” e io non sapevo come rispondere.
A Milano ci sono centomila musulmani a Milano, la città è cambiata moltissimo, non solo per la presenza dei musulmani ma per la presenza di persone da tutto il mondo: questo non fa perdere la cultura del Paese, anzi è un arricchimento per la società. Quindi la diversità dobbiamo guardarla come arricchimento e non come minaccia o una sfida da combattere.
Finalmente il Comune di Milano dedicherà un luogo per la nuova Moschea, abbiamo partecipato a un bando per trasformare quella struttura in un luogo di culto. Noi, come Casa della Cultura Mussulmana abbiamo insistito per trovare un luogo in Via Padova perché la storia della comunità musulmana parte da lì, dal 1975.
La struttura concessa dal Comune risale al 1939. Abbiamo ottenuto il permesso di demolire l’edificio e di ricostruirlo; vogliamo fare una cosa bella per Milano: un abbraccio con l’arte islamica con quella italiana. Al progetto stanno lavorando architetti che si sono laureati al Politecnico con altri progettisti italiani, insieme ad altri che hanno studiato architettura islamica.
L’idea non è quella di fare la classica forma della Moschea islamica, ma di fonderla con lo stile italiano in modo da realizzare un edifico sacro moderno.


 

Intervento di Benaissa Bounegab

Vivo a Milano dal 1975 e sono arrivato come studente, dovevo laurearmi e tornarmene a casa. Questo era il mio grande progetto; nella vita facciamo tutti dei progetti però non sappiamo mai dove andremo a finire. Ero uno studente di ingegneria. Mi sono iscritto al Politecnico pensando di diventare professore universitario nel mio Paese;

tuttavia, il mio destino è stato un altro: operare per il bene della comunità. Per questo abbiamo fondato la Casa della Cultura Mussulmana.
La mia intenzione era inizialmente quella di portare in Algeria quello che avevo imparato. Finita la scuola, dunque, dovevo tornare a casa, dicevo, tra sei mesi torno giù, ma siamo come le piante: ovunque si vada queste fanno le radici. Mi sono sposato e ho iniziato a pensare a come guadagnarmi “la michetta” per i miei figli. Ma continuavo a dire, poi torno in Algeria tra sei mesi. Ormai mi sono rassegnato: sono meneghino.
Perché? Perché negli anni, il quartiere di Via Padova, nella sua storia e con noi, è cambiato moltissimo. Qui arrivano persone da tutto il mondo musulmano, arrivano parlando lingue diverse, con usanze e religioni diverse. I musulmani si avvicinano alla nostra Casa della Cultura. Con il tempo abbiamo imparato come dobbiamo comportarci con le persone che arrivano: hanno bisogno di capire la società dove stanno. Hanno bisogno di trovare un lavoro, se sono maschi o femmine, e si sposano con italiani, nasce un mondo multicolore. Arrivano senegalesi, pakistani, con i loro vestiti colorati, ed è una gioia a vedere tutte queste persone che sono cresciuti a migliaia di chilometri l’uno dall’altro e si rispettano a vicenda, crescono insieme; i loro figli crescono nelle scuole italiane. Quindi abbiamo una panoramica ricchissima, abbiamo cercato di inserire i nostri figli nel teatro della zona, ci siamo detti: l’importante è che i nostri figli sappiano comunicare, ogni persona ha portato qualcosa nel proprio zaino.
Il problema che si poneva era gestire il “braccio di ferro dolce” con la società milanese, tra repulsione o attrazione.
Non siamo dei politici, non abbiamo fabbriche, abbiamo solo le nostre persone e le relazioni con questo bel centro della Casa della Cultura.
A Milano abbiamo sempre puntato sullo smussamento degli spigoli che le persone portano con sé. Parliamo a chi arriva della politica di questo Paese, suggeriamo come debbano comportarsi.
Spesso difendiamo dai mass media le persone la nostra comunità, e le stimoliamo per riuscire a coinvolgerli nei micro e macro progetti della città.
All’interno della nostra Moschea, c’è un unico grande tappeto fatto di tanti tappeti di tanti colori: costruire la coesione di una città è come fare quel tappeto.
Dal momento in cui mi sono detto: finisco l’università e poi torno a casa, sono passati oramai 48 anni. Perché? Perché ho trovato tante cose importanti, profonde, che non mi lasciano andare.
Mi ricordo quando negli ’70 e ’80 non c’era neanche un negozio o una macelleria che vendesse carne musulmana; c’era un negozio di un italiano e l’associazione ha fatto un contratto con questo negozio per venderci carne macellata alla maniera islamica, e tutta la comunità andava da lui a comprare e una persona era stata incaricata di insegnarli come fare.
Ora via Padova ne è piena di macellerie islamiche. Se vuoi puoi comprare, dolci arabi, marocchini, puoi trovare facilmente nei minimarket i datteri algerini. La città cambia e questo è un arricchimento, guardando anche solo per esempio il mondo alimentare. A casa mia, ho due figli che preferiscono il cibo giordano e altri due che vogliono solo quello italiano quindi nella mia famiglia c’è un arricchimento: una volta mangiamo italiano e una volta giordano. Per fortuna ho mia moglie che sa cucinare!


 

 

La Fanzina di Via Padova e dintorni

Questa Fanzina dedicata a Via Padova si inserisce nell’ambito del progetto del Centro Culturale Milano “Cultura, per abitare, per ricordare, per cambiare”, progetto sostenuto da Fondazione Cariplo nel Bando “Per la Cultura”.
Il progetto fonda queste tre azioni/verbi su una nuova piattaforma di osservazione dei cambiamenti in atto, dal racconto del vivere attinto dalla popolazione, dall’impulso a realizzare i cambiamenti conoscendo la realtà umana e urbana e non a prescinderne. Il progetto riguarda diversi quartieri periferici della città e i nuovi luoghi urbani identificati da un sapere locale del cittadino, in via sperimentale.

La città deve essere destinataria di una incessante opera di manutenzione nel senso più ampio del termine. Una manutenzione globale intesa sia come struttura intera  (architettonica, urbana e umana), cioè primariamente come aggregazione sociale di utenti-cittadini. Il progetto si prefigge di tentare in primis il coinvolgimento di coloro che vivono nelle aree urbane meno coinvolte, rendendoli protagonisti di osservazione e narrazione sul proprio abitare. Le periferie non sono più un’unica zona di confine, intermedia. La periferia tende a diventare “quartiere” con caratteristiche proprie.

Via Padova è una lunghissima via che attraversa diversi quartieri e distretti di Milano. Comincia il suo lungo percorso da Loreto e dal suo piazzale, prosegue attraversando NoLo, la zona del Trotter, il CasorettoTurro e Rottole, Cimiano, Crescenzago e termina a Cascina Gobba praticamente, costeggiando, nell’ultimo tratto, anche il canale della Martesana e sconfinando nel Comune di Vimodrone.

Via Padova è un grande quartiere popolare e multietnico a nord-est di Milano, delimitato a est da viale Palmanova, che costeggia la linea 2 della metropolitana quando emerge in superficie. Confina a ovest con Precotto e Gorla. Prende il nome dalla lunga via che lo percorre al centro, e che presto sarà interessata da un vasto progetto di riqualificazione urbano nel tratto tra via Giacosa e via Arici.
Il primo tratto è denso di esercizi arabi e sudamericani, qui troviamo una popolazione multietnica per la maggior parte composta da immigrati dal Sudamerica, dall’Asia e dal Magreb, che creano un piccolo mondo a sé stante, a due passi da Loreto, rendendolo uno dei quartieri più multietnici, particolari e diversificati della città.

Nel quartiere di Via Padova, la realtà della Casa della Cultura Musulmana presiede e coordina la più ampia comunità musulmana composta da geografie e provenienze dal mediterraneo nordafricano e anche provenienza da non residenti nel quartiere nel quale risiede.

Casa della Cultura Musulmana è una associazione riconosciuta e presente da diverso nel quartiere di viale Padova e con sede al n. civico 147, con scopo la divulgazione culturale e l’incontro con la cittadinanza. Ha svolto diverse iniziative in collaborazione con il Comune di Milano, ospitato istituzioni cittadine per informare e per diffondere il senso civico della amministrazione e della partecipazione alla vita pubblica e rappresentativa della città. Ha conseguito come prima classificata il Bando per la gestione e creazione del centro Moschea bandito dal Comune di Milano e che vedrà in via Esterle (nei pressi) la realizzazione di una moschea in stile architettonico lombardo.

Tra le principali iniziative che hanno avuto luogo nel quartiere di Via Padova negli ultimi anni si segnalano i diversi incontri con la cittadinanza ad opera della Casa della Cultura Musulmana in via Padova 147 e le attività de il Circolino di Crescenzago.

Il progetto della Fanzina – realizzato dal Centro Culturale di Milano in collaborazione con gli studenti della Scuola di Comunicazione e Valorizzazione del patrimonio artistico dell’Accademia di Brera – coinvolge questa porzione di comunità nei suoi elementi più giovani e in età di scolarizzazione, ma anche alcuni adulti e lavoratori insieme. Lungo il Via Padova inoltre è stata considerata anche quella comunità che si raduna attorno alla chiesa di Santa Maria Rossa/via Berra, lungo la Martesana, confinante col Quartiere adriano, composta anch’essa da giovani e adulti.

E’ un tentativo di dare una risposta al bisogno di rigenerazione identitaria, al bisogno di preservare la memoria collettiva del quartiere, per far nascere un maggiore senso di appartenenza; al bisogno di coinvolgere i giovani che vivono sul territorio, affinché si pongano quale parte attiva in questo processo di rinnovamento culturale; e al bisogno di coinvolgere la popolazione di origine straniera che vive sul territorio, per generare anche  in questo caso un maggiore senso di appartenenza alla comunità.
Non ultimo realizza un metodo di approccio all’evento umano affinchè l’evento urbano architettonico non si sovrapponga in modo astratto al tessuto cittadino.

foglio Fanzina 1 Voci da Viale Padova
foglio Fanzina 2 Voci da Viale Padova

Cento anni di mutualità
Cooperativa San Filippo Neri di Precotto

Un simbolo del cooperativismo cattolico che per oltre un secolo ha saputo tenere insieme le persone, i sentimenti e le esperienze
Si può anche pensare che la Cooperativa San Filippo Neri di Precotto, a Milano, sia la sorella minore dell’organizzazione nazionale di Confcooperative essendo questa nata il 14 maggio 1919, mentre la San Filippo è più giovane solo di alcuni mesi, essendo stata costituita il 7 settembre 1919.
Ma ambedue maturano la propria nascita nell’ambito di quel fervore di iniziative dei cattolici del primo ‘900 fiorite dopo la pubblicazione della “Rerum Novarum” (1891), e la costituzione dell’Opera dei Congressi.
Come a livello centrale, anche nell’allora Comune di Precotto (Milano) la cooperazione cattolica nasce ben prima del 1919. Il filantropo don Luigi Cislaghi, parroco locale, per primo definì “cooperatori” gli uomini cattolici impegnati nella costituzione della “Società Cattolica di Mutuo Soccorso San Michele Arcangelo fra operai e lavoratori di Precotto”, costituita nel 1909 e rimasta attiva per alcuni decenni.

Era una forma di cassa mutua per remunerare i lavoratori dei giorni non lavorati causa malattia. Un’analoga forma di assicurazione, la “Società Cattolica di San Sebastiano” costituita il 14 maggio 1914, aveva il compito di aiutare i contadini del Comune nella cura e prevenzione sanitaria del bestiame da campo.
I tempi erano maturi perché quegli stessi uomini dessero vita a una società con la solida struttura di una cooperativa a proprietà indivisa: la società cooperativa San Filippo Neri in Precotto, costituita il 7 settembre 1919 presso il notaio Ettore Papi di Milano, iscritta alla Camera di Commercio al n. 71340, esercitante il ramo “Consumo”. Il suo primo Statuto porta la data del 9 settembre 1920; poi modificato nel 1932.

Dalle prime attività legate ai bisogni della famiglia o della piccola azienda agricola (tra le finalità, la tutela del risparmio e la vendita a prezzi calmierati di generi di prima necessità, di attrezzi e di prodotti agricoli), quasi subito le prospettive della cooperativa si allargano all’idea di sperimentare la formula della “cooperazione di abitazione”.
La preoccupazione, volta a sostenere gli iscritti in tutte le necessità vitali, porterà i dirigenti della cooperativa, già negli anni 1922-23, a preoccuparsi per la casa da dare ai soci: cercare terreni dove costruire, acquistare alloggi, edificare.
A soli 4 anni dalla costituzione, la cooperativa acquisterà in viale Monza 222 a Milano la prima casa a 2 piani f.t. (1923), che dieci anni dopo verrà sopraelevata e portata a 3 piani.
Subito dopo la seconda guerra mondiale si mette mano alla costruzione di una seconda casa al n. 220 di 5 piani f.t. L’attività edificatoria rimane costante seppur non ravvicinata tra i diversi momenti storici.
Passeranno circa 15 anni e la prima casa verrà abbattuta per far spazio a un edificio di 8 piani f.t. (1963). Nel nuovo millennio si allarga ancora di più la superficie dedicata alle case dei soci attraverso 2 sopraelevazioni autorizzate dal Comune di Milano tra il 2008 e il 2012, mentre nel 2017 la San Filippo formalizza con la cooperativa Solidarnosc Acli-Cisl l’acquisto di 5 unità immobiliari in una zona adiacente.
Oggi la cooperativa San Filippo Neri a Precotto è considerata una delle istituzioni più amate dai cittadini perché – oltre a gestire 7 negozi di proprietà situati al piano terreno dei due edifici e 37 alloggi con prossimi altri 5 – è conosciuta per la cucina della omonima trattoria (che allestisce quotidianamente centinaia di coperti), ma soprattutto è apprezzata dal quartiere e dalla comunità parrocchiale per l’attività di sostegno continuo svolta a favore dell’asilo, della chiesa e dell’oratorio.
Anche per tali considerazioni il presidente Vittorio Magni ha ricevuto dalla cittadinanza milanese, l’8 febbraio 2019, il Premio alla Virtù Civica.


 

Il bellissimo discorso e augurio di Papa Francesco ai cooperatori di Confooperative

Nel corso dell’udienza speciale concessa il 28 febbraio 2015 ai cooperatori di Confcooperative papa Francesco ha rivolto loro un importante discorso, di cui pubblichiamo alcuni passaggi:

I cinque incoraggiamenti del Papa

«Qui, oggi, voi rappresentate valide esperienza in molteplici settori: dalla valorizzazione dell’agricoltura, alla promozione dell’edilizia di nuove case per chi non ha casa, dalle cooperative sociali fino al credito cooperativo, qui largamente rappresentato, dalla pesca all’industria, alle imprese, alle comunità, al consumo, alla distribuzione e a molti altri tipi di servizio.
So bene che questo elenco è incompleto, ma è abbastanza utile per comprendere quanto sia prezioso il metodo cooperativo, che deve andare avanti, creativo. Si è rivelato tale di fronte a molte sfide. E lo sarà ancora! Ogni apprezzamento e ogni incoraggiamento rischiano però di rimanere generici. Voglio offrirvi, invece, alcuni incoraggiamenti concreti.» […]

1 «Il primo è questo: le cooperative devono continuare ad essere il motore che solleva e sviluppa la parte più debole delle nostre comunità locali e delle società civile».

2 «Un secondo incoraggiamento è quello di attivarvi come protagonisti per realizzare nuove soluzioni di Welfare, in particolare nel campo della sanità, un campo delicato dove tanta gente povera non trova più risposte adeguate ai propri bisogni […] A voi sta il compito di inventare soluzioni pratiche, di far funzionare questa rete  nelle situazioni concrete delle vostre comunità locali, partendo proprio dalla vostra storia, con il vostro patrimonio di conoscenze per coniugare l’essere impresa e allo stesso tempo non dimenticare che al centro di tutto c’è la persona».

3 «Il terzo incoraggiamento riguarda l’economia, il suo rapporto con la giustizia sociale, con la dignità e il valore delle persone».
«Noi non sappiamo che realizzando una qualità nuova di economia, si crea la capacità di far crescere le persone in tutte le loro potenzialità. Ad esempio: il socio della cooperativa non deve essere solo un fornitore, un lavoratore, un utente ben trattato, dev’essere sempre il protagonista, deve crescere, attraverso la cooperativa, crescere come persona, socialmente e professionalmente, nella responsabilità, nel concretizzare la speranza, nel fare insieme.
Non dico che non si debba crescere nel reddito, ma ciò non basta: occorre che l’impresa gestita dalla cooperativa cresca davvero in modo cooperativo, cioè coinvolgendo tutti.
Uno più uno tre! Questa è la logica. “Cooperari”, nell’etimologia latina, significa operare insieme, cooperare, e quindi lavorare, aiutare, contribuire a raggiungere un fine. Non accontentatevi mai della parola “cooperativa” senza avere la consapevolezza della vera sostanza e dell’anima della cooperazione».

4 «Il quarto suggerimento è questo: se ci guardiamo attorno non accade mai che l’economia si rinnovi in una società che invecchia, invece di crescere. Il movimento cooperativo può esercitare un ruolo importante per sostenere, facilitare e anche incoraggiare la vita delle famiglie. Realizzare la conciliazione, o forse meglio l’armonizzare tra lavoro e famiglia, è un compito che avete già avviato e che dovete realizzare sempre di più.» […]

5 «Il quinto incoraggiamento forse vi sorprenderà! Per fare tutte queste cose ci vuole denaro! Le cooperative in genere non sono state fondate da grandi capitalistici, anzi si dice spesso che esse siano strutturalmente sottocapitalizzate. Invece, il Papa vi dice: dovete investire, e dovete investire bene! In Italia certamente, ma non solo, è difficile ottenere denaro pubblico per colmare la scarsità delle risorse. La soluzione che vi propongo è questa: mettete insieme con determinazione i mezzi buoni per realizzare opere buone».

Tenetevi per mano…
«Infine non lasciate che viva solo nella memoria la collaborazione del movimento cooperativo con le vostre parrocchie e con le vostre diocesi. Le forme di collaborazione devono essere diverse, rispetto a quelle delle origini, ma il cammino deve essere sempre lo stesso! Dove ci sono le vecchie e nuove periferie esistenziali, dove ci sono persone svantaggiate, dove ci sono persone sole e scartate, dove ci sono persone non rispettate, tendete loro la mano! Collaborate tra di voi, nel rispetto dell’identità vocazionale di ognuno, tenendovi per mano!»

Salvate la vostra identità cristiana
«So che da alcuni anni voi state collaborando con altre associazioni cooperativistiche – anche se non legate alla nostra storia e alle nostre tradizioni – per creare un’Alleanza delle cooperative e dei cooperatori italiani. […] Vi sono cooperative cattoliche e cooperative non cattoliche. Ma la fede si salva rimanendo chiusi in se stessi? Rimanendo solo tra di noi? Vivete la vostra Alleanza da cristiani, come risposta alla vostra fede e alla vostra identità senza paura! Fede e identità sono la base. Andate avanti, dunque, e camminate insieme con tutte le persone di buona volontà! E questa anche è una chiamata cristiana, una chiamata cristiana a tutti. I valori cristiani non sono soltanto per noi, sono per condividerli! E condividerli con gli altri, con quelli che non pensano come noi ma vogliono le stesse cose che noi vogliamo. Andate avanti, coraggio! Siate creatori, “poeti”, avanti!»


 

Cooperativa San Filippo Neri, società cooperativa a Precotto
anno di fondazione: 1919
indirizzo: viale Monza 222 – Milano; e-mail: coop.sanfilipponeri@yahoo.it
referente: Vittorio Magni, presidente

Descrizione:
Il 7 settembre 1919 si costituisce la Cooperativa San Filippo Neri per favorire le condizioni economiche dei soci iscritti fra la popolazione di Precotto: tra le sue finalità: la tutela del risparmio e la vendita a prezzi calmierati di generi di prima necessità, di attrezzi e di prodotti agricoli. Preoccupata di sostenere i soci nelle proprie necessità vitali, la cooperativa arriverà anche a costruire, alcuni anni più tardi, le stesse abitazioni per i soci in viale Monza 220 e 222.

 

Eventi più significativi:

1919 – Costituzione della Cooperativa

1923 – Acquisto della casa a 1 piano in viale Monza 222

1934 – La casa di viale Monza 222 viene sopraelevata e portata a due piani

1949-50 – Viene costruita la casa di viale Monza 220, a 4 piani

1963 – Viene demolita la casa di viale Monza 222. La proprietà in viale Monza arretra, cedendo al Comune 190 mq per la costruzione della metropolitana. Al posto della casa demolita, si costruisce una nuova casa a 7 piani fuori terra.

2008 – Alla casa di viale Monza 220 si aggiunge una sopraelevazione di 1 piano, ottenendo 2 nuovi alloggi di 3 locali ciascuno.

2012 – Anche alla casa di viale Monza 222 si aggiunge la sopraelevazione di 1 piano, ottenendo anche qui 2 nuovi alloggi di 3 locali ciascuno.

2017 – La Cooperativa San Filippo formalizza con la Cooperativa Solidarnosc Acli-Cisl l’impegno all’acquisto di 5 unità immobiliari nella nuova realizzazione di via Columella 40. Gli alloggi verranno consegnati nel 2022, con rogito 11 luglio e inizio affitto dal 1° settembre 2022.

2019 – La Cooperativa San Filippo festeggia in settembre, con l’intervento dell’Arcivescovo e il pranzo sociale, il Centenario di vita dalla costituzione avvenuta il 7 settembre 1919. Per l’occasione viene prodotto il libro sulla storia della cooperativa e viene posizionata la targa: cooperativa san filippo neri dal 1919 al servizio delle famiglie di precotto alla presenza del Corpo Musicale di Crescenzago e del presidente di Municipio 2.
Nel febbraio dello stesso anno il presidente Vittorio Magni, in riconoscimento dell’attività svolta dalla Cooperativa, aveva ricevuto il Premio alla Virtù Civica Panettone d’Oro.

 

Crescenzago, l’antico borgo comunale
Il Naviglio Martesana, alcune vie e piazze

Uno dei borghi più antichi e nobili della città di Milano, Crescenzago. Partiremo perciò dall’elemento “canale” sul quale prospetta l’officina di Bresciani. Come nacque il Naviglio Martesana?
Scriveva Pietro Verri nella sua “Storia di Milano”: il duca Francesco «intraprese infine e condusse pure al suo temine la grand’opera del canale, ossia il Navilio che da Trezzo conduce a Milano le acque dell’Adda. […] questo canale che chiamasi tra noi Navilio della Martesana fu progettato l’anno 1457. Bertola da Novate fu l’ingegnere, cui Francesco Sforza trascelse per quest’opera: egli era nostro cittadino milanese. Fu condotto a termine l’anno 1460».
Seguendo un progetto del duca Filippo Maria Visconti risalente al 1443 finalizzato alla costruzione di un canale per l’irrigazione dei campi agricoli e l’attivazione dei numerosi mulini del territorio, il duca Francesco Sforza incarica un gruppo di “ingegneri ducali” di intraprendere i lavori del “Navilio nostro de Martexana”, perché diventi un’opera di utilità pubblica che vada a congiungersi con la fossa interna cittadina. Durante il ducato di Ludovico il Moro, nel 1496 gli ingegneri guidati da Bartolomeo della Valle, dopo essere riusciti a superare le difficoltà del dislivello con la costruzione delle conche di Gorla, di San Marco e dell’Incoronata, rendono navigabile il Naviglio della Martesana, lo portano alla cerchia interna e lo congiungono al Naviglio Pavese.

Piazza Costantino
Volgendo lo sguardo intorno a piazza Costantino, nel giro di pochi metri incontriamo numerose tracce cariche di storia: il ponte sul Naviglio, villa Lecchi, il vecchio Municipio di Crescenzago, il borgo popolare alle sue spalle, la corte rurale di via Amalfi 3, nota come Cort di Mont (Corte dei Monti).
Un tempo il vecchio ponte aveva una forma tipica conosciuta come forma “a dorso di mulo”, molto pronunciata che provocava grossi problemi al passaggio di carri pesanti. Così nel 1913 il Consiglio Comunale ne decide il rifacimento. Poco dopo l’inaugurazione del nuovo ponte, il Consiglio delibera la costruzione di due lavatoi sulla Martesana: uno in sponda destra, coperto, l’altro in sponda sinistra, tuttora visibile. Quando nei primi anni ’70 il ponte verrà ricostruito nelle forme attuali, il lavatoio coperto di piazza Costantino verrà demolito. L’edicola sulla parete di Villa Lecchi riproducente l’Annunciazione a Maria del Morgari ricorda il drammatico episodio del 25 aprile 1945 quando don Enrico Bigatti, frapponendosi tra i due schieramenti riuscì a evitare una tragica sparatoria tra partigiani e tedeschi in fuga.  Nel 1949, in occasione dell’inaugurazione del restauro del dipinto, per la prima volta viene eseguito in pubblico il canto La Madunina del pont, con parole di don Bigatti e musica del maestro Danilo Dusi (Crescenzago, 1928-1985):

Te se ricordet, in temp de guera,

quand, o Madona, i por giovinott,

del Bôsch, di Trecà, de via Berra,

de tutta Crescenzàg, con ‘te el fagott

passavan de chi per andà ‘l frunt,

e ti te piangevet in sul punt?

Quand la matina vu a lavorà,

e quand la sera se vegn a cà,

la Madunina l’è semper là..      

Il vecchio borgo popolare
Oltre piazza Costantino all’inizio di via Padova (prima dell’annessione denominata “via Milano”), al n. 275 troviamo la Cort de l’America, un tempo centro popolare del quartiere dove si trovavano la posta, la farmacia, il tabaccaio e l’edicola. Il nome venne formandosi nel tempo per la presenza di molti emigranti partiti per l’America.
In via Meucci 3, nella divaricazione formata dal giardino di quella che tu la villa dei Fratelli Sada (spazio oggi occupato da un’abitazione multipiano), nella parte bassa di villa Lecchi incontriamo l’associazione socio-culturale “Villa Pallavicini” nata nel 1996 con il progetto dichiarato di «mantenere vivo uno spazio di libertà e lasciare che la città lo riempia con fantasia e creatività». Oggi le sue funzioni spaziano fra diverse attività: dai corsi di italiano per stranieri ai corsi di danza, o di sarto-ria; dalla gestione di uno sportello sociale all’ospitalità offerta per riunioni di comitati e di associazioni.
Finalità più ricreative connotano le attività del Circolo Famigliare Romeo Cerizza di via Meucci 2, nato nel 1912 in un caseggiato costruito da una cooperativa edificatrice popolare: oltre ai locali interrati dispone di uno storico campo di bocce per il gioco “a la milanesa”. Nel dopoguerra è stato dedicato a romeo Cerizza, giovane partigiano abitante nel caseggiato e fucilato dai fascisti il 9 marzo 1945.

Il Municipio e Villa Lecchi
L’edificio a due piani prospiciente la piazzetta iniziale di via Amalfi ospitava fino al 1923 (anno dell’annessione all’amministrazione comunale milanese del Comune di Crescenzago) il Municipio del comune stesso, costruito nel 1880.
L’autonomia del Comune di Crescenzago inizia dopo la morte avvenuta nel 1795 dell’ultimo abate commendatario di Santa Maria Rossa, Carlo Villana Perlas.
Successivamente il Comune viene retto da una Deputazione fino all’Unità d’Italia (1861), epoca dopo la quale l’amministrazione viene assegnata a Consigli Comunali eletti.
I Sindaci che in vari periodi, dal 1870 fino al 1923, dirigono l’amministrazione comunale sono: De Ponti Domenico, Beretta Beniamino, Beretta Guido, Faini Vittorio, Sirtoli Giuseppe, Pessina Attilio.
Con la sopraelevazione di un piano effettuata nel 1898 l’edificio poté ospitare anche la Scuola Elementare.
Oggi l’edificio, al piano terra, ospita l’Anpi Crescenzago, costituitati nel secondo dopoguerra, l’associazione Legambiente e il Corpo Musicale di Crescenzago la cui nascita risale al 1894.
A sinistra del Municipio, si staglia sulle acque della Martesana Villa Lecchi, risalente al XVIII secolo, rimasta famosa per aver dato ospitalità il 31 dicembre 1815 all’imperatore Francesco I d’Austria e alla sua consorte Maria Luisa. A metà dell’800 in questo palazzo fu attiva la ditta Mangili, una stamperia di stoffe azionata da un motore la cui ruota motrice ha lasciato il segno ancora visibile sul fianco destro dell’edificio.
Un fatto singolare legato alla stamperia Mangili è quello tramandato negli anni come il luogo dove sono nati i coriandoli.
In realtà l’ingegner Mangili si accorse che dalla foratura dei fogli utilizzati come lettiere dei bachi da seta si potevano ricavare tanti dischetti di carta. Tali dischetti nelle feste di Carnevale sostituirono gli autentici coriandoli, ch’erano il frutto della pianta omonima, incorporati nei confetti lanciati per tradizione durante la festa. Il busto di Enrico Mangili si può ancora ammirare nel giardino dell’Istituto Infantile di Crescenzago, di cui fu un importante benefattore.

La nobile Riviera di Crescenzago e le Ville Albrighi e Petrovic
Nei secoli XVI-XVIII, con il Naviglio divenuto navigabile, le famiglie aristocratiche di Porta Orientale e della contrada di San Babila costruiscono qui, lungo le sponde della Martesana, splendide dimore di campagna, ove passare la villeggiatura estiva e seguire i lavori agricoli delle tenute sparse nel territorio di questa “piccola Brianza”, come veniva chiamata allora.
Tutti gli edifici avevano ingresso pedonale da via Amalfi, lungo il Naviglio, con darsena privata per l’imbarco, e ingresso carrabile da via San Mamete, un tempo chiamata via Lazzaretto in ricordo dell’ospizio qui esistente in epoca precedente.

Le prime due dimore storiche che si incontrano sono Villa Sioli-Albrighi e Villa Petrovic.
Al n. 15 di via Amalfi la villa Sioli (in passato chiamata Albrighi, Can-diani, Griffoni) mostra all’esterno uno stile neo-gotico, accompagnato all’interno da decorazioni in cotto, disegni in rilievo, soffitti d’epoca a cassettoni e decorazioni graffite alle pareti.
Più avanti, al n. 27, incontriamo Villa Petrovic, già appartenuta alla famiglia Barinetti, caratterizzata da un impianto neoclassico di grandi dimensioni: pianta quadrata con cortiletto interno, facciata ottocentesca prospiciente il Naviglio.
La villa ha ospitato un tempo il collegio Tronconi, scuola per educatrici, acquistata nel 1919 da Emilio Siena, che per trent’anni, fino al 1948, la destinò alla funzione originaria di casa-collegio per istitutrici e maestre d’asilo.

Villa De Ponti e Villa Pino
Della Villa De Ponti, abitazione della famiglia del sindaco Domenico De Ponti, abbiamo già scritto in precedenza.
L’ultima dimora che incontriamo prima della curva su via Idro è un edificio neoclassico fatto costruire dal generale napoleonico Domenico Pino (1760-1826), di cui Santino Langé scriveva: «Il blocco rettangolare è mosso sulla facciata verso la Martesana da un corpo semicilindrico sporgente in posizione mediana: il piano nobile, quasi un piano rialzato, è raccordato da due rampe di scale simmetriche ai lati della rotonda».

Al centro dell’antico Comune, Palazzo Berra
Lungo via Berra incontriamo il nucleo medievale di Crescenzago, dove sorge, al n. 10, il palazzo che fu sede nel XII secolo della comunità di Sant’Agostino, divenuto a fine ‘700 proprietà della famiglia Berra. Qui nel 1251 papa Innocenzo IV fa sosta nel suo viaggio verso Trezzo e nel 1322 vi muore Matteo Visconti, signore di Milano, perseguitato da papa Giovanni XXII.
Nelle forme attuali il palazzo risale alla metà del secolo XV e consta di due parti distinte disposte attorno a due corti: la prima vede la presenza di un chiostro rettangolare lungo 20 metri per 13,5, con portico ad archi ellittici e colonne binate. La seconda corte conserva l’aspetto romanico lombardo con portico ad archi a sesto acuto, colonne e capitelli in pietra, finestre con strombature in cotto.
Soppresso il convento nel 1772 a seguito della riforma laica dello stato voluta dall’imperatore Giuseppe II, qualche decennio più tardi l’edificio viene acquistato dal possidente Domenico Berra.
Nato a Crescenzago, l’avvocato Domenico Berra (1771-1835) fu insigne autore di trattati sull’agricoltura e la coltivazione delle marcite: Dei prati del basso Milanese detti a marcita è la sua opera maggiore pubblicata nel 1822.

Chiesa di Santa Maria Rossa
«Piccola Chiesa di pertinenza degli Arcivescovi di Milano qui esisteva, nel 933 ceduta ai Canonici R. Lateranensi. Nel 1140 su antiche rovine sorge questo tempio, da larghi censi e privilegi dotato, assurse nei secoli a splendore…» tale è l’incipit della lapide posta all’inizio della navata laterale di destra.
La chiesa, il cui nome s’indovina dal colore dei laterizi, presenta una facciata romanica (rinnovata negli anni 1922-25) con tetto a capanna, sovrastante un fregio ad archetti in cotto su intonaco bianco. Due solide paraste angolari concluse da pinnacoli in cotto ne delimitano la facciata, caratterizzata da sette monofore strombate e tripartita da due paraste minori con semicolonne e capitelli in pietra, che introducono la divisione interna in tre navate.
Dei tre portali sormontati da una lunetta mosaicata con angeli, quello centrale mostra anche una Madonna con il Bambino. La decorazione si conclude con 24 bacini di ceramica colorata.
All’interno, nel presbiterio predomina su tutti l’affresco absidale del Cristo Pantocratore, seduto in trono nella classica mandorla iridata mentre regge con la mano sinistra il libro della propria natura divina: SUM DOMINUS MUNDI LUX CELI REX-QUE PROFUNDI / IMPERO DISPONO STRUO DESTRUO DAMNOQUE CORONO.
La decorazione alla base della volta a botte narra gli episodi terminali della vita di Maria: da un lato Seconda Annunciazione e Dormitio Virginis, dall’altro Funerale della Vergine e Assunzione. Il medaglione centrale della volta a crociera prospiciente il presbiterio presenta un Agnus Dei con i simboli della passione (un fiotto di sangue), e della vittoria della vita sulla morte (il vessillo).
Nella prima cappella della navata di sinistra si può ammirare una copia del trittico attribuito al Bergognone con le figure delle martiri Santa Caterina, Sant’Agnese e Santa Cecilia (l’originale è conservato nel museo diocesano di Milano).
Il primo altare della navata di destra è dedicato a San Grato, difensore dai fulmini, in segno di ringraziamento per la protezione avuta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Accanto alla sacrestia una cappella è dedicata alla beata Madre Eugenia Picco, nata a Crescenzago nel 1867, morta a Parma nel 1921.

L’Istituto Infantile in via Padova
Lasciato il centro storico, lungo via Padova scopriamo un edificio che testimonia l’attività sociale dei Crescenzaghesi di fine ‘800, l’Istituto Intantile, comunemente chiamato “l’Asilo”. Sede centrale per parecchio tempo delle istituzioni del Comune di Crescen-zago, l’istituto Infantile viene istituito nel 1889 e inizia la sua attività il 27 ottobre 1890.
Tra i fondatori, si ricordano il cavalier Francesco Giani, presidente, il sindaco ing. Beniamino Beretta, il parroco don Carlo Parapini, e i rappresentanti delle famiglie più in vista: i Mangili, i De Ponti e altri benefattori, tra i quali la signora Emilia Nathan Berra che dona il terreno su cui sorge l’istituto. Inizialmente l’istituto, che si propone quale “modello” di asilo infantile, si chiama Asilo Infantile Rurale di Crescenzago e ospita anche la Scuola Magistrale per educatrici dell’infanzia contadina, impostata secondo il metodo froebeliano, aperta nel 1892 e intitolata al prof. Giuseppe Sacchi (1804- 1891). Conosciuto e apprezzato in tutta Europa, l’istituto il 6 novembre 1897 riceve la visita della regina Margherita. Nel 1900 vi si progetta uno dei primi “banchi modello” per aule scolastiche, con due posti a sedere, sedili mobili, cassetti laterali, spigoli arrotondati, che viene premiato all’Esposizione pro infanzia del 1903.
Nel 1909 alla Gobba si effettuano i primi voli del dirigibile “Leonardo da Vinci” costruito dall’ing. Enrico Forlanini, e proprio nell’Istituto Infantile poco dopo si tengono i festeggiamenti indetti dall’amministrazione comunale per onorare l’inventore.

Il lazzaretto di Crescenzago
Dalla via San Mamete si entra nell’officina e negli uffici di Bresciani fabbri.
E l’entrata ufficiale della sua azienda. Un’entrata un po’ malconcia, per la verità, insieme con tutta la facciata dirimpetto alla strada: ma Bresciani ha assicurato che presto sarà completamente rinnovata e ammodernata.
Tuttavia non tutti sanno che questa facciata rappresenta una parte dell’antica Cascina Lazzaretto, a sua volta uscita dalle mura del lazzaretto che esisteva qui nella seconda metà del ‘500.

A metà del ‘400 scoppia in Europa una grande pestilenza.

A Milano dove le urgenze igieniche prescrivevano di trasferire fuori città gli appestati, anche per mezzo di barche, furono presentati al duca Galeazzo Maria Sforza diversi progetti, tra i quali un lazzaretto ben attrezzato da edificare in loco Crescenzago, raggiungendolo con barche lungo il Naviglio Martesana. Tale progetto tuttavia non venne mai realizzato, forse per difficoltà economiche o per la grande distanza dalla città. Negli anni 1484-90 la pestilenza convinse Ludovico il Moro a realizzare il progetto fuori di Porta Orientale.

Ciononostante il borgo di Crescenzago venne spesso utilizzato per il ricovero dei malati di peste. Durante il contagio del 1576, visitando il territorio di Crescenzago, il card. Carlo Borromeo dispose che venisse allestito un ricovero lungo il Naviglio Martesana, con un oratorio, oggi conosciuto come San Mamete al Lazzaretto. Nel XVIII secolo il lazzaretto venne ridotto a cascina.

 

La chiesa di San Mamete

Guardando la via San Mamete verso est, non ci sfugge la sagoma della chiesetta di San Mamete, unico edificio rimasto in piedi a testimoniare l’esistenza qui dell’antico lazzaretto, oggi purtroppo assediata da nuovi palazzi.

Eretto nella seconda metà del 1500, per esplicito desiderio del card. Carlo Borromeo, come luogo di cura spirituale verso i malati della grande pestilenza di Milano, anche quando il lazzaretto venne dismesso, l’oratorio continuò ad assolvere alla propria funzione religiosa per gli abitanti delle cascine circostanti.

La chiesina ha un piccolo campanile con una sola campana che porta la data del 1683. Per molti anni vi si celebrò una Messa nel mese di maggio, per la benedizione dei campi, e il 18 agosto, festa di San Mamete. Ma nel 1957 durante la visita pastorale, l’arcivescovo di Milano card. Montini stabilì che vi si celebrasse una Messa almeno una volta la settimana, la domenica, data la distanza delle cascine dalla chiesa parrocchiale di Santa Maria Rossa. Poi la tradizione decadde, fino a che, con l’espandersi del quartiere Adriano, si sentì il bisogno di attrezzare la cascina antistante, che venne chiamata “Stalla Cattedrale”, a luogo di celebrazioni domenicali in attesa della costruzione in via Trasimeno della nuova chiesa di Gesù a Nazareth (che reca una suggestiva e contemporanea Via Crucis dell’artista Letizia Fornasieri).

 

La via Padova

Anche la storia di via Padova diventa interessante per il nostro racconto.

Scrive Luciano Marabelli: «Come è nata via Padova? Da un punto di vista toponomastico via Padova è nata nel 1923 dopo l’aggregazione degli undici comuni della cintura esterna a Milano. Prima di allora, era nota come Postale Veneta o come Provinciale Veneta. Rientrati gli Austriaci dopo il Congresso di Vienna (1814-1815), l’asse di sviluppo della città venne spostato a nord-est (di-rezione Vienna). Fu così nel 1925 venne aperta la nuova Provinciale Veneta che oggi conosciamo come via Padova. Il nuovo tracciato integrava e sostituiva in parte la precedente Strada delle Rottole e serviva a preparare la futura espansione della città.

La sua costruzione fu relativamente semplice e veloce, in quanto attraversava in gran parte terreni agricoli.

A quel tempo anche il futuro piazzale Loreto era solo il punto terminale del nuovo Corso di Loreto (attuale corso Buenos Aires) ed era circondato da campi e fontanili.

«La nuova Provinciale Veneta diventava una delle più lunghe strade in uscita da Milano: la lunghezza era superiore ai cinque chilometri. I quattro comuni che attraversava erano: Greco (dal Rondò di Loreto all’attuale via dei Transiti); Corpi Santi di Porta Orientale (fra via dei Transiti e via Giacosa); Turro (fra via Giacosa e via Prinetti); Crescenzago (da via Prinetti sino a via Olgettina passando per i borghi delle Tre Case e della Gobba).

«Nel tratto interno al Comune di Crescenzago la via era identificata con due toponimi locali: Via Milano, o Via per Milano, da piazza Costantino a via Prinetti; via Venezia, o via per Venezia, da piazza Costantino sino al confine con Vimodrone.

«Sino agli anni ’60 via Padova era costituita da tre lunghi rettilinei, il primo tratto da piazza Loreto arrivava in linea retta sino al ponte di piazza Costantino, il secondo tratto, all’altezza di via Bellu-no, piegava leggermente a destra e seguendo inizialmente il corso del naviglio arrivava sino alla Gobba dove, sempre piegando di qualche grado a destra, partiva un altro lungo rettilineo che arrivava al confine del Comune di Milano e proseguiva poi per Vimodrone, Cernusco e Gorgonzola».


 

Crescenzago. Una famiglia di fabbri ieri e oggi

La storia dei Bresciani
Nei primi anni del Novecento, quando Crescenzago era ancora un Comune autonomo, Saverio Bresciani iniziò la sua attività di feree (fabbro) in un vecchio cortile di via Milano; dopo l’annessione a Milano del 1923 la via cambiò denominazione e divenne via Padova. Quando la casa fu demolita Saverio spostò la sua officina in via Padova 223 dove proseguì l’attività assieme al figlio Renato.
In quegli anni la zona fu investita da un grande sviluppo economico; fabbriche ed officine presero il posto delle stalle e dei prati. Furono molti i dipendenti dei Bresciani che dopo aver acquisito i segreti del mestiere aprirono un’attività in proprio; nella zona, un esempio per tutti furono i fratelli Mapelli che aprirono un’officina in via Giulietti.
Nel 1984, Giuseppe Bresciani, trasferì la sua attività lungo il Naviglio della Martesana in via S. Mamete, nei locali un tempo occupati dalla filanda De Ponti.
La ditta Bresciani Giuseppe è nata al civico 2 di via Paradisi, angolo via Pieri. E’ rimasta lì fino al 1984, anno in cui Giuseppe si è trasferito qui in via San Mamete, dove ha comprato l’officina.

“Nel frattempo avevo avuto già tre figli, e abitavo in via Toscanelli 3. Ma avevo una decisione importante da prendere: rimanere in Ponti Radio, con uno stipendio sicuro, oppure mettermi in proprio? Ho pensato: rischio, e mia moglie è stata dalla mia parte, mi ha incoraggiato, lei che dove lavorava aveva uno stipendio maggiore del mio. Ho rischiato, sapendo che se fosse andata male sarei tornato a fare l’operaio. L’officina qui si è sviluppata grazie ai vecchi clienti di mio padre, che hanno ripreso a darci fiducia nel lavoro. Con l’avvio della mia officina, ho cominciato con piccoli lavoretti che mi si offrivano quotidianamente, ma ho sfruttato tutte le opportunità che arrivavano, non rifiutando mai nessun lavoro.

Così facendo, tuttavia, sei arrivato al punto di lavorare per i migliori negozi del centro di Milano. Com’è avvenuto tutto questo?

“Solo con il passaparola. Perché io di pubblicità non ne faccio. Del resto, in 50 anni di attività, non mi è mai capitato di dovermi cercare lavoro… È sempre stato il cliente che è venuto a cercarmi tramite conoscenze comuni o vedendo i lavori realizzati”

Senza dubbio perché lavori bene. Probabilmente sei il migliore sulla piazza di Milano…

“Guarda, vengono da tutte le parti, anche dall’altra parte della città, spesso per dei lavori banali, come una piccola saldatura. Ma io non rifiuto mai niente. Anche perché mi dispiace: come faccio a mandare via uno che ha attraversato la città per venire qui. Cerco di accontentarlo immediatamente”

Considero che hai fatto porte di ingresso, gli esterni e gli interni per i migliori negozi di via Montenapoleone, via Sant’Andrea, via della Spiga, hai lavorato per l’industria del lusso.

“Sì, è vero, ho tanti clienti, ma i progetti non li faccio io. Ci sono tanti architetti che lavorano per questi negozi, e che si fidano di me: mi passano i progetti e io li eseguo. Come scale modernissime progettate da loro ed eseguite da me. Ho fatto anche delle scale che sono andate a New York. Gli abbellimenti poi sono di diversi tipi, alcuni modernissimi, altri più tradizionali, con volute che tendono al barocco: tutte cose richieste dai clienti. Anche cose molto particolari, per esempio, sempre per New York, ho tatto scaffalature in stile arabo. Ho lavorato anche per la galleria Vittorio Emanuele di Milano, per il Castello Sforzesco e per le ristrutturazioni di grandi alberghi storici milanesi. Ho lavorato in Russia, in Germania, in America, a Londra, Madrid, Lisbona. Sono arrivato fino agli Emirati Arabi Uniti lavorando con Fantini Marmi, un’eccellenza italiana nel suo campo, per le strutture che sorreggono gli imponenti mosaici della Grande Moschea di Abu Dhabi, la terza più grande del mondo. Un’opera monumentale, di grandissimo valore artistico che richiede soluzioni strutturali complesse e accuratissime. In questo lavoro ho sempre fatto una scommessa con me stesso. Qualcuno mi diceva che non ero capace di fare una certa cosa: io gli dimostravo che la facevo meglio di quanto lui s’immaginasse. Un giorno mi portano una lampada recuperata da un antiquario di Varazze. Me la mettono sul tavolo dicendo: “Scommettiamo che tu non sei capace di farla uguale?” Non solo l’ho fatta uguale, ma ne ho fatte una decina per un viale che portava in mezzo alle vigne. Quando mi provocano sul mio orgoglio personale, mi metto d’impegno ed eseguo ogni cosa che mi chiedono. Ho riprodotto dei cancelli dell’800, che in gergo si chiamano “veramente falso”…Riuscivano a incentivare la mia fantasia con la scommessa: “Non sei capace di farlo, scommettiamo?” E io lo facevo.

Lavoravi tu o i tuoi dipendenti?

“Lavoravo io. Molto allora. Adesso mi sto riposando. Ma all’inizio, di giorno lavoravo e la sera o di notte facevo le fatture e i preventivi con mia moglie. Non posso dire di essermi stancato o avere avuto momenti di noia. L’importante è fare ciò che ti piace e credere nel progetto… per arrivare all’obiettivo. Un modo di essere che oggi non tutti i giovani hanno”.

Ma tua moglie ti ha sempre sostenuto…

“Sì. Lei mi ha aiutato molto nell’amministrazione. Ci ha creduto. Pensa che quando ci siamo licenziati entrambi per iniziare questa impresa, in quel momento lei guadagnava più di me. Lavorava nel campo dell’editoria per la moda. Eppure ha lasciato tutto per questa nuova avventura…”

È molto bello tutto questo, romantico. Il romanticismo dell’imprenditore che si fa da sé, che costruisce con le sue mani il proprio destino. Andrebbe raccontata a qualche giornale.

“Sì, è una storia speciale. Oggi non crederebbe nessuno che io nel 1978 prendevo un 1.070.000 di lire, puliti, e anzi mi avevano offerto delle partecipazioni in azienda, e abbiamo deciso insieme, mia moglie e io, di licenziarci e partire! Oggi chi lo farebbe? Bisognerebbe essere pazzi oppure molto determinati, con un preciso progetto in testa”

Probabilmente ti sentivi addosso la voglia di provare a fare qualcosa di tuo…

“Sì, ma all’inizio mi ha “incastrato” mio padre, che mi chiese: “Cosa facciamo di questi quattro pezzi? Li vendiamo? Ma no, andiamo avanti!”

È stata una scommessa sul futuro… E adesso? Oltre a te, chi dirige l’azienda?

“Oggi abbiamo sviluppato anche nuovi settori. Ci sono i figli Eliana e Luca che dirigono i lavori. Ho tre figli: due femmine e un maschio. Ma la seconda femmina s’è trasferita ad Ascoli, dove fa la coordinatrice pedagogica di asili nido. Qui son rimasti due figli a dirigere, in collaborazione con il responsabile delle attività esterne (riparazioni e montaggi) e il responsabile dell’officina. All’esterno facciamo in media 350 interventi al mese, installazioni e riparazioni. I lavori li prendono loro, ma non solo: qui in ufficio c’è lo staff di 7-8 persone. Io sempre di meno.

E le aziende per le quali hai lavorato?

“Posso dire che per il settore Moda ho lavorato con tutte le grandi aziende. Attualmente il 70% dei clienti è costituito da amministrazioni condominiali, e poi da molti architetti, cioè gente del mestiere”

Le prospettive per il futuro?

“L’azienda andrà avanti: questa è la mia visione del futuro. D’altronde ho già due figli in azienda, ho 6 nipoti maschi, è in arrivo il settimo: qualcuno prenderà le redini dell’azienda. Il più grande ha 20 anni e sta facendo un tirocinio presso una impresa edile, perché la formazione si imposta come ho fatto io: prima vai fuori e impari a obbedire, poi magari vieni qui e impari a comandare, se sei capace. Sicuramente la ditta Bresciani andrà avanti…Magari con altri nomi, con un’altra organizzazione, ma andrà avanti”.

“Allargarmi? No, non ci penso. Perché un tempo avevo miei operai fissi per la manutenzione dislocati presso le aziende di questo territorio: alla Falck, alla Breda, gruppo RCS, alla Fabbri ecc. Ero diventato troppo grande. Avevo 70 operai collocati presso le ditte esterne: per esempio erano alla Rizzoli, ma la Rizzoli era a Cimiano, in via Scarsellini, in via Solferino. Poi da via Solferino sono stati trasferiti al nuovo stabilimento di Pessano con Bornago… Erano addetti alla manutenzione: per ogni necessità gli operai erano già sul posto. Li vedevo una volta al mese, il giorno della distribuzione dello stipendio. Ma non mi piaceva. Ora invece li ho tutti qua. La mattina alle 7 ci vediamo tutti. Una trentina di lavoratori. Abbiamo 13 automezzi. Ogni coppia prende il suo mezzo e parte. Qui rimangono solo 2-3 in officina. Poi ci sono gli impiegati in ufficio. Quando ne avevo una settantina ho dovuto rimpicciolirmi per cercare di stare vicino ai figli, per insegnargli, e creargli l’esperienza. Quando prenderanno in mano l’azienda saranno loro a decidere se vorranno allargarsi, ma io a 72 anni sto bene così. La mia prospettiva è questa: andare avanti fino a lasciare tutto ai figli.

Parliamo delle tue attività non professionali. Come ti è venuta questa voglia di diventare presidente della Banda di Crecenzago?

“Un giorno ho ricevuto una delegazione di musicanti, che mi hanno chiesto se potevo aiutarli, anche economicamente. Ho accettato, anche perché stare con la Banda è sempre un piacere. D’altronde io sono di Crescenzago e amo il mio territorio; così come l’altro giorno ho accompagnato una classe di scolari delle elementari a visitare Casa Berra. Per la Banda poi ho un affetto particolare: loro sono i miei “banditi”, non bandisti, banditi. Perché, molto simpaticamente, ogni cosa mi chiedano per sviluppare l’attività io gliela dò. Loro sono artisti nella musica, così come io sono un artista nel mio mestiere di fabbro. Il mio maestro di musica, insegnante alle elementari, mi ha detto una frase rivelatrice: “Il suono del triangolo è il suono dell’acciaio, così come quello dell’incudine non è un rumore, è un suono!” Ormai ci sono tanti strumenti nuovi, usciti da poco, e utilizzati anche nelle grandi orchestre, che si basano sul suono dell’acciaio”.


 

La Banda Musicale di Crescenzago

 Dopo l’Asilo Infantile (fondato nel 1889), la Banda Musicale di Crescenzago è la istituzione più antica del quartiere. L’anno di nascita infatti risale al 1894. Ma è anche la più antica fra le poche bande cittadine rimaste a Milano. Il luogo di nascita si fa risalire in via Padova 281, presso il tabaccaio Andreoni.
Ma i suonatori non avevano una sede e nemmeno una divisa che arriverà soltanto tre anni dopo, nel 1897.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Banda viene ospitata provvisoriamente al Circolo Cerizza, prima di trasferirsi con altre associazioni nei locali dell’ex-municipio.
Negli anni ’60 con una nuova divisa, che prende lo stile aeronautica, anche la Banda si modernizza. Considerata tra le bande più antiche e prestigiose della città, la Banda di Crescenzago non dimentica ogni 1° gennaio di andare nei palazzi delle istituzioni cittadine a suonare gli auguri di Buon Anno, e viene calorosamente ricambiata dai sindaci come Aldo Aniasi e Carlo Tognoli che si dichiaravano onorati di partecipare alle feste della Banda.
Alla fine degli anni ’90, in un momento di grave difficoltà per la Banda di Crescenzago, al punto che si pensava di chiudere, un giornalista arriva alle prove e tra i suonatori scopre 7 ragazzini, che saranno chiamati La Banda dei Ragazzini, una garanzia per il futuro, autentici campioni: Walter Pomarico, clarinetto, futuro capobanda, Alessandro Maldera, flauto, vincitore delle selezioni italiane del premio Mozart, Guido Caccia, 13 anni, vincitore dei concorsi Endas e Stresa, Michela Boldrini, 21 anni, clarinetto, Maurizio, 12 anni, clarinetti, “musicista per caso”.
Ma le difficoltà per la Banda non avevano termine. Quello del 1987-2017 fu considerato un trentennio doloroso, poiché il Comune chiedeva di aumentare il canone d’affitto. La banda andò sotto le finestre del Comune ed eseguì un concerto di protesta. Il “Corriere” intitolò: “La banda gliele suona al Comune”.
Nel 2007 avviene l’episodio più grave: con il programma di “cartolarizzazione” il Comune mette in vendita l’edificio. I cittadini si mobilitano a difesa della Banda e delle altre associazioni e raccolgono 3.000 firme. L’edificio è ancora nelle mani delle banche con il compito di vendita. Il conflitto non è ancora risolto.
Tuttavia nel 2022, in considerazione della sua ultracentenaria attività a favore della popolazione di Milano, il Corpo Musicale di Crescenzago riceve dall’Amministrazione Comunale al Teatro Dal Verme la Civica Benemerenza dell’Ambrogino del Comune di Milano.

 

Il racconto dei Comuni e delle vicende che hanno portato, 100 anni fa, il 14 Dicembre 1923, all’aggregazione al Comune di Milano di 11 Comuni contermini – Affori, Baggio, Chiaravalle, Crescenzago, Gorla-Precotto, Greco, Lambrate, Musocco, Niguarda, Trenno, Vigentino. Marco Balsamo di Agorà futura racconta la loro storia che ripercorre la millenaria storia degli antichi borghi attorno alla città di Milano.

Oltre al centenario dell’aggregazione al Comune di Milano degli antichi Comuni milanesi, nel 2023 cade anche un’altra importante ricorrenza, che ha segnato il volto urbanistico oltre che amministrativo della città: il 150° ­anniversario dell’aggregazione a Milano del Comune dei Corpi Santi (8 giugno 1873). Una storia a dir poco curiosa, oltre che quasi del tutto sconosciuta, quella del Comune “a forma di ciambella” (dove il “buco” era Milano!), nato per volontà del governo austriaco (1782) aggregando il vasto territorio formato da cascine e borghi che circondava la città, oltre la cerchia dei Bastioni spagnoli.

 

AFFORI

Affori, un antico comune situato nella periferia settentrionale di Milano, ha una storia che affonda le sue radici nell’antichità. Sebbene l’origine precisa del borgo sia oggetto di dibattito tra gli storici, si ritiene che le prime tracce della sua esistenza risalgano all’epoca romana, con possibili insediamenti già nell’VIII secolo.

BAGGIO

Il vecchio comune di Baggio, situato nella periferia occidentale di Milano, racchiude una storia affascinante che si estende attraverso secoli di evoluzione e cambiamenti. Le sue radici affondano nell’antichità, con tracce della sua esistenza che risalgono all’epoca romana. Tuttavia, è nel Medioevo che Baggio inizia a emergere come un centro abitato significativo.

CHIARAVALLE

Nel cuore della regione Lombardia, immerso nella storia e nella bellezza del suo paesaggio, si trova il vecchio comune di Chiaravalle, un gioiello intriso di tradizione e fascino. Situato nella periferia sud-orientale di Milano, questo antico borgo racchiude una ricca storia che si perde nei meandri del tempo.

CRESCENZAGO

Nel tessuto urbano della città di Milano, tra le vie trafficate e i quartieri moderni, si cela un tesoro nascosto di storia e tradizione: il vecchio comune di Crescenzago. Situato nella periferia nord-orientale della metropoli lombarda, questo antico borgo ha radici profonde che affondano nei secoli passati, testimoniando il susseguirsi di eventi e trasformazioni che hanno plasmato il suo carattere unico.

GORLA-PRECOTTO

Gorla, nella zona nord-orientale di Milano lungo l’attuale viale Monza, è una località ricca di storia e tradizione. Si trova vicino al canale navigabile della Martesana, dove sono ancora visibili le antiche ville patrizie lungo la pista ciclabile che lo costeggia. Il nome potrebbe derivare dal latino “gulula”, con il significato di “anfratto”.

GRECO MILANESE

Situato nella periferia nord-ovest di Milano, il vecchio comune di Greco Milanese è un’incantevole gemma storica che racchiude secoli di tradizione e fascino. Circondato dalla ricca campagna lombarda e adiacente ai moderni quartieri residenziali della metropoli, Greco Milanese rappresenta un ponte tra il passato e il presente, testimoniando il susseguirsi di eventi che hanno plasmato la sua identità unica.

LAMBRATE

Lambrate, quartiere di Milano situato nella zona orientale della città, ha una storia ricca e antica che risale a tempi lontani. Originariamente un comune autonomo, Lambrate trae il suo nome dal fiume Lambro, celebre per la sua limpidezza e abbondanza d’acqua. Il termine “Lambrate” ha origine dal latino “Lambra”, che significa “pescoso” o “limpido”, con l’aggiunta del suffisso “-ate”.

MUSOCCO

Musocco, antico comune oggi incorporato nel tessuto urbano di Milano, prima del 1923 costituiva un comune autonomo. Le prime testimonianze della sua esistenza risalgono alla visita pastorale di San Carlo Borromeo nel 1605, quando la zona ospitava circa un centinaio di abitanti dediti principalmente all’agricoltura.

NIGUARDA

Le radici di Niguarda affondano nel IV secolo, come dimostra il ritrovamento di un antico sarcofago paleocristiano durante i lavori di restauro a villa Corio. Questa scoperta archeologica è una testimonianza tangibile della presenza umana in quest’area fin dai tempi antichi. Nel Medioevo l’area era parte integrante del territorio della Pieve di Garbagnate, un’antica suddivisione amministrativa della diocesi di Milano.

TRENNO

Situato nella periferia nord-occidentale di Milano, il nome “Trenno” potrebbe derivare dal termine latino “Trinius”, che indica un territorio attraversato da tre strade principali, suggerendo l’importanza strategica dell’area fin dai tempi antichi.

VIGENTINO

Il nome Vigentino ha radici antiche e diverse teorie tentano di spiegarne l’origine. Alcuni suggeriscono una derivazione dal latino “vigilantes”, forse in riferimento a un antico corpo di guardia lungo la strada per Milano. Altri ipotizzano una connessione con il numero venti, indicando la distanza di 20 miglia romane da Pavia o forse l’estensione del territorio per “20 iugeri”, la quantità di terra che una coppia di buoi poteva arare in un giorno.