Cultura è toccare la carne e il sangue degli uomini

Il deficit di cultura è questione che riguarda tutti. Divenuta sempre più architrave fragile. E sempre più materia per specialisti. Eppure nulla si costruisce in assenza di cultura viva. Carnale. E dunque vicenda che non può non interessare la Chiesa proprio per la sua dimensione universalistica. «La concretezza dell’universale incarnato nella Chiesa è strettamente legata a Gesù Cristo e, quindi, alla concretezza dell’uomo».
Parla il sociologo professor Sergio Belardinelli.


5 luglio 2024
Il posto della Chiesa
Conversazione con Sergio Belardinelli a cura di Nicola Varcasia

@Pepi Merisio – Lago di Endine ghiacciato

«Se la cultura non evoca costantemente l’Abc, rischia di ridursi a qualcosa da intellettuali. In tal caso divento molto diffidente». La conversazione con Sergio Belardinelli, sociologo, già docente all’Alma Mater di Bologna, è terminata con una battuta, in realtà un richiamo a tornare all’essenziale nei discorsi umani o, per dirlo con le sue parole «a ciò che tocca la carne e il sangue». Il dialogo era partito da un suo recente articolo sul Foglio “sull’universalismo concreto della Chiesa cattolica” quale tassello mancante all’Europa di oggi.

L’abc

C’era dunque ampia materia per proseguire con lui il dibattito che .CON sta alimentando sul tema della cultura (anche) cattolica, avviato proprio sul Foglio dal collega Alfonso Berardinelli, proseguito sulle pagine del nostro magazine grazie all’intervento di Franco Nembrini e ai successivi dialoghi con don Paolo Alliata e Riccardo Bonacina.
Come si arriva, dunque, all’Abc partendo dalla dimensione universalistica della Chiesa? Intanto, ricorda il professore, la Chiesa porta l’universalismo nel nome, cattolico è un sinonimo, katholikós è l’universale per definizione. Una caratteristica inconsueta: «Nessun’altra istituzione al mondo può pretendere l’universalità, sarebbe persino pericoloso, se lo facesse. Le istituzioni politiche del mondo hanno un carattere inevitabilmente particolare, e funzionano tanto meglio quanto più sono consapevoli che qualcosa inevitabilmente e sempre resta fuori dalla loro portata».
Quando la Chiesa dice di essere universale lo fa perché sa di incarnare, non solo a livello istituzionale, qualcosa che tocca il cuore di tutti gli uomini: «La concretezza dell’universale incarnato nella Chiesa è strettamente legata a Gesù Cristo e, quindi, alla concretezza dell’uomo. Per questo la Chiesa non considera, o non dovrebbe considerare, nulla che sia umano come non pertinente rispetto al suo magistero». A patto, però, avverte il professore, di ricordarci che nessun tema mondano può pretendere di esaurire tale tensione universalistica.

Spettatori nel foyer del Teatro Donizetti (1967) ©MUSEO DELLE STORIE DI BERGAMO, ARCHIVIO FOTOGRAFICO SESTINI, FONDO PEPI MERISIO

L’alert

Se l’unica cosa di cui la Chiesa è esperta è l’umanità, ci si domanda, che cos’è la cultura cattolica se non il suo saper parlare di tutto ciò che tocca il sangue e la carne degli uomini: speranza, futuro, sesso, famiglia, nascita, morte, libertà, misericordia, pace; ma anche risentimento, vendetta, guerra, odio, rancore o invidia?
La risposta all’interrogativo si traduce in un alert: «Se questi sono i temi della cultura cattolica, quando la Chiesa si ferma eccessivamente, o con un impegno quasi esclusivo, su tecnicalità politiche – come il premierato o l’autonomia indifferenziata – o su altri argomenti pur importanti come l’ecologia o il liberismo, la sua spinta perde mordente». Se questa è la missione, diventa persino improprio il discorso sulla crisi della cultura cattolica: «Quando va in crisi la carne e il sangue degli uomini è la cultura tout court ad esserlo. Diciamolo pure con Woody Allen, forse la cultura cattolica sta male, ma non è che la cultura cosiddetta laica se la passi troppo bene».
Soffriamo tutti della stessa crisi, contrassegnata da un conflitto tra antropologie inconciliabili: «Tanto è vero che il dibattito, anzi, il conflitto culturale su argomenti scottanti – come le intelligenze artificiali, la biologia sintetica o l’aborto – è talmente polarizzato che sta scatenando conflitti la cui radicalità fa pensare a uno scontro tra due mondi».
Anche la cultura è destinata a cedere il passo al clima bellico che stiamo respirando? «Assolutamente no, c’è una grande opportunità per la Chiesa: in questo caos, l’unico elemento unitario che si può far valere è un’idea di uomo; un’idea di uomo che trascenda costantemente e irriducibilmente le condizioni biologiche e socio-culturali della sua esistenza».
Per questo stiamo male, soffriamo e siamo inquieti e non riusciamo a sentirci a nostro agio da nessuna parte, nonostante le “chiacchiere” di chi vorrebbe ridurci a questo o quell’aspetto bio-sociologico, pretendendo magari di imporci un presunto bene in nome della presunzione di stare dalla parte giusta della storia: «Tutti i progetti di costruzione sociale a tavolino sono destinati a fallire, per fortuna».
L’expertise della Chiesa è tale per cui, seguendo san Paolo, essa può veramente mettere le mani dappertutto e trattenere ciò che dappertutto è buono: «Dove c’è un po’ di umano che pulsa, dove c’è un po’ di carne e un po’ di sangue, quello è il posto ideale per la Chiesa e per la cultura cattolica, anche se i cattolici non sempre se ne rendono conto. In questi giorni sto leggendo Follia di Patrick Mcgrath, non propriamente direi un prodotto della sagrestia europea: un romanzo pieno di umanità, in questo caso sofferente e disperata, che però è quella di ciascuno di noi. Finché qualcuno terrà vivi questi temi le porte degli inferi non prevarranno».
Come ha osservato su queste pagine anche Nembrini, la questione della cultura cattolica è soprattutto la questione di una fede che non pulsa più come dovrebbe: «La fede di per sé è cultura, capacità di animare la carne e il sangue delle persone in un certo modo che, però, risulta pervasivo in certi momenti e meno in altri».
Anche in questo caso c’è materia per essere ottimisti e proprio in quanto cristiani: «La pagina evangelica del servo inutile è oggi forse quella più evocativa della nostra dimensione nel mondo. Ci spinge a fare del nostro meglio, con la chiara consapevolezza che non siamo noi i padroni della situazione. Quindi possiamo fare tutto anche con leggerezza».
È una riflessione molto interessante quella del professor Belardinelli che, dal 2008 al 2012, fu chiamato a coordinare il Progetto culturale della Chiesa italiana, voluto fin dal 1994 dall’allora presidente della Cei, Camillo Ruini. In una fase che non difettava certo di creatività e di impatto sociale delle proposte.
Il punto, concorda Belardinelli, non è il successo del qui e dell’ora. Non è che i cattolici siano incapaci di organizzare cultura, con eventi che fanno parlare i giornali ma, probabilmente, le cose veramente rilevanti sono altre: «Spero che emergano tanti artisti cattolici e, se non ci sono, mi auguro che i cattolici sappiano imparare dagli artisti non cattolici perché un artista, proprio per la dimestichezza che ha con l’umano, dovremmo sentirlo sempre vicino come un alleato prezioso. Anche quando ci irrita e lo sentiamo lontano anni luce dalle nostre posizioni».
L’altro errore da non commettere è pensare che la cultura sia soltanto ciò che viene consumato oggi: «Non voglio affermare che tutto ciò di cui si parla o si vede in tv o nei diversi festival culturali sia da buttar via, però mi rifiuto di pensare che la cultura oggi sia esclusivamente questo».
La domanda resta la stessa, per tutti: quanto siamo fedeli a noi stessi in ciò che facciamo? «Credo che tra i cattolici come tra i non cattolici ci sia un mondo di persone molto fedeli a se stesse che producono cultura e che magari non vediamo adesso, le scopriremo in futuro. D’altra parte, è sempre stato così».  

A sinistra, Dino Buzzati e la fioraia – A destra, Interpretazione di Francesco Santosuosso per il ciclo di Serate Dino Buzzati nella città contemporanea del CMC del 2020

Pace e cultura

Resta forse da chiedersi quanto il contesto ecclesiale favorisca la diffusione della cultura cattolica oggi: «In questo momento, si percepisce una crisi generale, che tocca inesorabilmente anche la Chiesa. La sensazione è che la Chiesa annaspi un po’, come molti altri. Non morde la realtà, neanche su temi grondanti sangue come la pace, anche perché forse non ha scelto le categorie giuste».
Ma quali sono queste categorie? «Come ha scritto Pierbattista Pizzaballa sull’ultimo numero della rivista Vita & Pensiero, che invito tutti a leggere, l’unica condizione per parlare seriamente di pace è condividere il dolore delle persone coinvolte». Ma cosa possiamo fare noi che non siamo lì, a Gaza come in Ucraina? «Possiamo pregare e cercare di acquisire il massimo della consapevolezza con ciò che, come cristiani, dovrebbe esserci abbastanza congeniale: il senso di un male che morde il mondo da sempre e che il più delle volte è veramente il misterium iniquitatis».
Pace e cultura sono legate nel tentativo di cercare di elaborare discorsi che non si facciano prendere la mano da questa o quell’altra parte, con la retorica delle ragioni degli uni e degli altri: «Credo che i pochi che sono ancora capaci di farsi ascoltare quando parlano di queste tragedie sono coloro che riescono a mobilitare qualcosa che ci tocca nel cuore e nella mente e che ci fa sentire qualcosa che è nostro. Ed è, appunto, un mistero, è l’umana cattiveria, l’umana capacità di violenza. Insistere un po’ sul Caino che è in noi può essere anche da un punto di vista pastorale più efficace che entrare nel merito delle diatribe, magari prendendo partito per questo o per quell’altro. Ho la sensazione che siamo tanto più efficaci quanto PIU’ sappiamo evocare il giudizio di un Altro».
Il punto non è, naturalmente, non giudicare, perché gli uomini quando parlano giudicano, il problema è che c’è modo e modo di giudicare: «Quanto amore riusciamo a mettere nei nostri giudizi? Quanto, nei nostri giudizi anche duri nei riguardi dell’altro, riusciamo a tener viva la consapevolezza che proprio quell’altro è una persona come me, dotata di una dignità il cui valore non è minimamente scalfito nemmeno dalle peggiori nefandezze che possa aver compiuto?».

©Ugo Zovetti. Passeggiata domenicale al Monte Stella. Milano anni 60

Una sintesi… colturale

La conversazione partita dall’universalismo cattolico e arrivata al riconoscimento della dignità di sé e dell’altro trova una possibile sintesi culturale, anzi, colturale: «L’universalismo concreto della Chiesa cattolica non è dire o fare qualcosa di speciale. Tutti giudicano e ci si può trovare d’accordo anche con i giudizi di persone lontanissime da noi». Ad esserci richiesta è una consapevolezza particolare che non è pertinenza degli intellettuali: «Se mi è concesso, vorrei ricordare mia nonna e la dimestichezza invidiabile che, con la sua terza elementare aveva con tutto ciò: giudicava senza indulgenza e senza chiacchiere le parole, i pensieri e le azioni che non le piacevano, ma rifuggiva sempre dal giudicare le persone. Ci vuole una sensibilità da coltivare, non a caso cultura viene da colere, l’arte di coltivare e di coltivarsi. Ce l’abbiamo ancora?».
Non c’è quasi bisogno di nominare il padreterno, siamo tornati proprio l’Abc: «Se la cultura non evoca costantemente l’Abc, rischia di ridursi a qualcosa da intellettuali. In tal caso divento molto diffidente. Preferisco piuttosto ripensare all’esame di coscienza a cui mi aveva abituato mia nonna: un’esortazione a coltivarci, appunto, a guardarci dentro, un modo di imparare e a prendere dimestichezza col nostro cuore e col cuore degli altri».