Cosa c’è dietro l’offerta di Unicredit per Banco Bpm

La realtà e le tante illusioni. Così è se vi pare la storia del “Risiko bancario”. Ma non è un gioco. Anche se in gioco vi sono i soldi, una montagna infinita, protagonisti indiscussi di quella pratica aggressiva che fa diventare monopolisti. La corsa alle fusioni degli istituti di credito è da molto tempo una corsa continua. Contro il tempo. Con vincitori e vinti. E soprattutto ad uscire sconfitti sono le insegne delle banche territoriali, quelle più inclini nell’attività di sostegno all’economia reale. E intanto gli azzardi proseguono. Come dimostra l’ultima offensiva guidata da Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit 



13 dicembre 2024
Gigantismo bancario
di Gianfranco Fabi


Lo chiamano ‘Risiko bancario’, ma non si tratta di un gioco alla Putin, dove si muovono i carri armati per conquistare i territori; sarebbe meglio chiamarlo ‘Monopoli’, il passatempo dove i soldi sono protagonisti assoluti per acquistare terreni, case e stazioni ferroviarie con l’obiettivo, appunto, di diventare monopolisti e far fallire gli avversari.
Ma al di là delle definizioni quello che è indubbio è che i sistemi bancari, ma soprattutto quello italiano, hanno attuato a cavallo dei due secoli una vera e propria corsa alle fusioni, alle acquisizioni, alla creazione di nuovi gruppi. Ma insieme si deve registrare la scomparsa di grandi e storici protagonisti positivi dell’economia italiana.

Storia di fusioni

L’ultima operazione è stata lanciata a metà novembre da Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit, il secondo gruppo bancario italiano, che si è proposto in matrimonio agli azionisti di BancoBpm con l’intento di creare un nuovo grande gruppo che si collocherebbe al terzo posto in Europa. Una proposta che è stata subito rispedita al mittente da Giuseppe Castagna, amministratore delegato di BancoBpm: l’offerta non riflette in alcun modo la redditività e l’ulteriore potenziale di creazione di valore per gli azionisti, può bloccare le iniziative avviare per migliorare efficienza e affidabilità, mette a rischio almeno seimila posti di lavoro per l’eliminazione delle attuali sovrapposizioni tra le due banche.
La storia è tutt’altro che chiusa, ma in attesa degli sviluppi forse è opportuno riflettere sullo scenario del sistema bancario e della filosofia che ha dominato negli ultimi anni nelle mosse sia dei banchieri, sia dei regolatori con in prima fila la banca centrale e il Governo. Ebbene, come dimostra peraltro la stessa storia di Unicredit e BancoBpm, siamo di fronte a progressive aggregazioni e a forti concentrazioni di potere e di capitali.
Basti pensare che in Unicredit sono progressivamente confluite banche storiche come il Credito Italiano, Rolo Banca 1473, le Casse di risparmio di Verona, di Torino, di Trento e Rovereto, di Trieste e Cassamarca così come la Banca di Roma, poi Capitalia, e il Banco di Sicilia.
Allo stesso modo BancoBpm è nato dalla fusione della Banca popolare di Milano con il Banco popolare che a sua volta raggruppava la Popolare di Verona che aveva a suo tempo assorbito (anzi, possiamo dire anche salvato) le Popolari di Lodi e Novara.
Alla radice del BancoBpm vi è quindi una storia troppo spesso dimenticata, una storia che si intreccia con il modello di sviluppo economico del Paese fondato sul dinamismo dei territori e sulla rete di piccole e medie imprese. È la storia delle Banche popolari, nate nella seconda metà del XIX secolo, con la fondazione della prima Banca Popolare a Lodi nel 1864, sul modello della Volksbank tedesca: banche strettamente locali caratterizzate dalla formula cooperativa con la caratteristica del voto capitario: ogni azionista ha un solo voto in assemblea indipendentemente dal numero di azioni che possiede. In questo modo la banca sviluppa la partecipazione dei soci e tiene lontane le ipotesi di conquista o di scalata che caratterizzano le normali società per azioni.

La «foresta pietrificata»

Le banche popolari, che si sono sviluppate soprattutto tra Lombardia e Veneto, possono essere considerate tra le protagoniste di quel miracolo economico che negli anni ’50 e ’60 ha posto l’economia italiana all’attenzione del mondo per la grande capacità di superare le distruzioni della guerra, di sfruttare l’apertura europea dell’economia, di far leva sulla sensibilità al bello e ben fatto che hanno portato il Made in Italy ad essere il marchio con la maggiore reputazione al mondo…dopo la Coca Cola.
Nel suo complesso tuttavia il sistema bancario, in cui le popolari rappresentavano solo il 20%, era molto frammentato, fortemente dipendente dalla politica soprattutto a livello locale, con una scarsa apertura internazionale. Nel 1988 Giuliano Amato coniò la definizione «foresta pietrificata» per definire le banche, per l’allora bassa dinamicità, per non dire immobilità, dei vertici e delle strategie. E proprio ad Amato, con l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi si deve l’approvazione del Tub (Testo unico bancario) che ha attuato la prima riforma, quella che ha trasformato le Casse di risparmio in società per azioni. Questa riforma ha tagliato uno dei legami più forti tra politica e credito e ha dato vita alle Fondazioni bancarie che ora hanno un ruolo importante in quello che viene chiamato “welfare sussidiario” per interventi sociali, culturali e assistenziali.
Se quella di Amato e Ciampi può essere considerata una riforma benemerita, perché ha aperto il sistema bancario alle logiche di mercato non condizionato dai partiti, non altrettanto si può dire della riforma delle banche popolari varata con un decreto legge dal Governo di Matteo Renzi nel gennaio del 2015. Si può ricordare che ministro dell’economia era Pier Carlo Padoan che oggi ritroviamo, guarda caso, alla presidenza di Unicredit. L’obiettivo della riforma era ufficialmente quello di “rendere più forte il sistema bancario” (parola di Renzi) rendendo contendibile sul mercato il controllo di istituti che erano cresciuti negli anni mantenendo immutata l’originaria formula cooperativa, una formula fortemente legata ai territori. E gli effetti si sono visti.
Sono più le banche scomparse di quelle sopravvissute. Il Credito Valtellinese è stato conquistato e assorbito dai francesi del Credit Agricole. Le banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) sono state integrate in IntesaSanpaolo. Quest’ultima ha conquistato Ubi banca che a sua volta aveva assorbito da poco un’altra popolare, Banca Etruria. La Banca popolare di Bari è passata, dopo vicissitudini giudiziarie, sotto il controllo pubblico del Mediocredito Centrale. Il Banco popolare (che raggruppava Verona, Lodi e Novara) si è fuso, come abbiamo visto, con la Popolare di Milano, in posizione dominante, dando vita proprio a BancoBpm (il cui maggior azionista è ancora il Credit Agricole con il 10%).

Scena dal film La vita è meravigliosa di Frank Capra 1946

Cancellazioni ‘impopolari’

Ma c’era veramente bisogno di cancellare la storia delle grandi popolari, una storia di partecipazione, di legami con il territorio, di concreta vicinanza con l’economia? No, non vi è nessuna prova che la forma giuridica di banca cooperativa abbia in qualche modo ostacolato la crescita di questi istituti di credito e messo in crisi il sistema finanziario.
È perlomeno temerario pensare che fossero le banche popolari il vero problema della solidità del sistema bancario. È vero che la storia della finanza italiana è anche la storia di fallimenti, di dissesti e bancarotte, ma è altrettanto vero che le crisi hanno interessato tutte le tipologie istituzionali (Spa, banche popolari, casse di risparmio, banche di credito cooperativo, banche di famiglia) e di tutte le dimensioni (grandi, medie e piccole).
Si può iniziare con la fine dell’Ottocento con lo scandalo della Banca romana, il padre di tutti gli scandali bancari italiani, esploso dopo un’indagine da cui emersero gravi irregolarità nella concessione dei prestiti con fenomeni di corruzione di giornalisti e politici.
Negli anni più recenti sono passati alla storia i dissesti del Banco Ambrosiano nel 1982, con le trame occulte di Roberto Calvi, della Cassa di risparmio di Prato, di quella di Venezia e delle piccole casse meridionali nel 1995 e nello stesso anno il crollo del Banco di Napoli, la più grande banca del Mezzogiorno. Nessuna di queste era una banca popolare.
Si potrebbero poi citare molte altre banche il cui fallimento è stato evitato grazie a un grande numero di fusioni e acquisizioni sotto l’attenta e interessata regia della Banca d’Italia. I due grandi gruppi che attualmente dominano il sistema bancario italiano, Intesa Sanpaolo e Unicredit, sono cresciuti sull’onda di piccole o grandi acquisizioni, alcune per salvare istituti in difficoltà, altre in una logica win win per rafforzare strutture e dimensioni.

La desertificazione degli sportelli

Negli anni ’90 la Banca d’Italia, guidata da Antonio Fazio, ha stimolato una pericolosa gara alle acquisizioni e fusioni che ha portato alla sparizione di banche con grandi tradizioni come erano la Banca Mantovana, l’Antonveneta, la Popolare di Lodi, e che è sfociata nella spericolata politica delle acquisizioni di quel Monte dei Paschi di Siena che solo negli ultimi mesi è uscito da una crisi durata più di vent’anni.
L’effetto di questi movimenti è stato quello che, un po’ forzando i toni, i sindacati hanno chiamato “desertificazione del sistema bancario”. I dati comunque parlano chiaro.  Alla fine del 1993 in Italia operavano 1037 banche che nel 1999 erano già divenute 876 scese poi a 760 alla fine del 2010 ed ora sono poco più di 400. Un destino analogo lo hanno avuto anche gli sportelli scesi negli ultimi dieci anni da 32.881 a 21.650. In oltre tremila comuni non vi è alcuna presenza delle banche.

Il fattore umano perduto

Solo in parte questo andamento è stato determinato dall’avvento dell’home banking e dal fintech, cioè della possibilità di effettuate quasi tutte le operazioni da remoto. Alla base c’è la volontà di tagliare i costi e di chiudere le presenze contabilmente meno efficienti e redditizie, presenze che tuttavia possono essere importanti per larghe fasce di popolazione e per le piccole e medie imprese nel territorio.
Ma nell’esercizio del credito se è vero che le tecnologie possono fare molto, è ancor più vero che il fattore umano, le relazioni dirette, la valutazione dell’affidabilità sono elementi che non possono essere sostituiti dai più sofisticati algoritmi o dall’intelligenza artificiale.
E peraltro le più accurate indagini, come quella curata da Marco Onado dell’Università Bocconi, dimostrano come sia positiva la presenza di banche radicate sul territorio. “Le community banks -spiega Onado – svolgono una funzione importante nell’economia del nostro Paese. La diversità aumenta l’efficienza e la resistenza dell’ecosistema bancario. La ricerca scientifica e i dati Bce confermano che le banche piccole e medie possono essere efficienti e redditizie”.
Nella zona euro con circa 350 milioni di abitanti, operano oggi 250 banche e istituti di medie e piccole dimensioni. Negli Stati Uniti, la culla stessa del capitalismo finanziario, con 333 milioni di abitanti, vi sono ben 10.500 community banks e credit unions. Secondo l’economista Stefano Zamagni, il ruolo delle banche di territorio continua ad essere fondamentale perché le medie e piccole dimensioni sono del tutto compatibili con redditività ed efficienza, come avviene con le multinazionali “tascabili” mentre, caso mai, sono le grandi dimensioni (too big too fail: troppo grandi per poter fallire) a costituire un pericolo per il sistema”.

Marco Onado – Stefano Zamagni

Un sistema che allontana dall’economia reale

L’operazione Unicredit BancoBpm risponde alla logica del gigantismo bancario una logica che ha portato le grandi banche internazionali a crescere enormemente negli ultimi vent’anni, ma dedicando solo una piccolissima parte dei loro profitti allo sviluppo dell’economia e ai prestiti alle imprese. È sempre in agguato il tentativo diabolico di fare i soldi con i soldi, cioè di cavalcare quella finanza speculativa che permette di fare profitti a breve o brevissimo termine, ma che allontana il sistema dall’economia reale, dal lavoro, dalla produzione, dall’innovazione che sono gli unici fattori che possono creare ricchezza.
Il sistema bancario dovrebbe valorizzare le potenzialità dell’economia e della società. I legami con il territorio e con la popolazione, come quelli delle banche popolari, hanno costituito dall’Ottocento ad oggi un valore aggiunto importante anche nell’ottica della sostenibilità sociale. Un valore che rischia sempre più di essere disperso per l’effetto congiunto di leggi velleitarie e di strategie speculative. Come quella che si intravvede in controluce nell’affare Unicredit-BancoBpm
«Le banche – scriveva Luigi Einaudi nel 1945 chiamato a governare la Banca d’Italia dopo la guerra –non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo in utile, ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel miglior modo il pubblico».