Che cos’è siccità

Il film di Paolo Virzì dice di una sete che è metafora di una profonda crisi antropologica. Tre anni di assenza totale di acqua su Roma è il punto di rottura: l’umanità ha sete. La sopraggiunta condizione di siccità esprime un’urgenza fisica, corporea. Ha a che fare con la felicità. Con la domanda di felicità. E della sete di felicità s’intende, da quel dì, il fatto di Cristo. Assai corporeo, per sua struttura.
In questo tempo di evidente secchezza, di indurimento del cuore, c’è la necessità di una vita che “faccia acqua da tutte le parti”. Con la riscoperta di un’autentica dimensione materiale. L’esperienza unica di tornare a casa bagnati fradici


7 ottobre 2022


Roma ha sete. Molta sete: la pioggia non scende da tre anni. La terra è screpolata, il Tevere è un ricordo, blatte dappertutto che portano epidemia.
La condizione di generale secchezza nulla risparmia: la siccità è la metafora della crisi antropologica. Donne e uomini sono molto giù: tirano avanti con volti segnati e cuori rappresi. Donne e uomini hanno sete. E lo esprimono negli sguardi persi, nei dialoghi stracchi, nell’unica domanda che svela il problema alla radice: ma tu sei felice?
Paolo Virzì, al nocciolo, è di questo che parla nel suo ultimo film: siccità.
Anche lui si mette in fila nella lunga fila di proposte artistiche che vengono indicate come distopiche.

Ma l’allarme che fa risuonare il regista non è un effetto speciale, come neppure la resa incondizionata all’evidenza della catastrofe. L’umanità ha sete: l’assenza prolungata di acqua ne esprime l’urgenza. È questione di vita. Davanti al trauma, alla paura, al dramma che non risparmia, fa capolino nei momenti più acuti della lacerazione quella domanda che non ne può più di rimanere prigioniera: ma tu sei felice? Io sono felice?

 La siccità della ragione
Non crediamo sia casuale che Virzì abbia raccontato la condizione della siccità a Roma, il luogo sensibile della cristianità. Il cupolone si vede più volte, monache e sacerdoti per le strade si mischiano alla comunità smarrita e dolente. Anche sonnolenta. Infatti, i primi segnali dell’epidemia che colpisce sono quelli della letargia. Il sonno, appunto.
Chissà se il regista abbia pensato al sonno della ragione. Alla siccità della ragione. La pioggia che non scende è l’assenza di un bene. Di bene. Una cosa così vitale come l’acqua che ha preso le distanze da quelle vite. Una cosa materiale. Reale. In un tempo nel quale si fa molta fatica a vivere il reale per quello che il reale è.
Quasi lo si misconosce. Quasi fosse un corpo estraneo. Eppure la realtà è lì.

E l’assenza di acqua denuncia la centralità dell’elemento corporeo. La materialità. Il corpo e i sensi. Se così non fosse perché quel desiderio di domanda di felicità nelle ore più terribili di quelle aride giornate?

Viene da chiedersi se la siccità può durare per sempre. Se si possa convivere addirittura abituandosi all’assenza di acqua, a ciò che dovrebbe essere indispensabile alla vita. Ovviamente non diciamo come il film tenti una risposta a tali questioni.
Ma il tema della crisi antropologica non viene a terminare perché le urgenze non possono mai tradursi in normalità. La questione antropologica è un fatto dirompente, molto corporeo, assai materiale. E il cristianesimo, che di sete se ne intende, la sua presenza nel mondo la gioca proprio su questo terreno: il più vero, il più autentico, il più sdrucciolevole.
Dalla fede si prende le distanze perché è venuta a cadere la sua dimensione materiale: non è forse vero che per le strade sono sempre di meno le fontanelle? Recentemente il sacerdote e teologo spagnolo Pablo d’Ors ha detto che «la spiritualità non è altro che la consapevolezza della vita naturale. Non si tratta solo di recuperare questa “sensorialità”, propria della vera sacramentalità cristiana; il punto decisivo è che, senza di essa, il cristianesimo è perduto. A mio parere buona parte dell’allontanamento dalla fede da parte delle nuove generazioni è dovuto a questa perdita di corporeità».

 

Di nuovo connessi
La macchina da presa di Virzì mostra il papa che si avvia a guidare la preghiera per chiedere al Signore che faccia finalmente piovere. I fedeli sono lì in attesa. La piazza è silente, molti in ginocchio a mani giunte, il buio è rischiarato dalle fiaccole. L’invocazione del Santo Padre è con le braccia rivolte verso l’alto, supplicanti ma solide, certe nella speranza che qualcosa di buono possa venire da quel gesto che è anche di penitenza. L’immagine, così corporea, richiama ad un altro episodio della storia quando papa Pio XII, in mezzo alle macerie della Roma bombardata durante la Seconda guerra mondiale, alza le braccia al cielo domandando a Dio che faccia terminare quello scempio così insensato. La preghiera come gesto di assoluta concretezza.
Chissà se… L’acqua e le rose tornano. Di nuovo bagnati fradici. Bagnati fragili. Di nuovo connessi e non annessi alla disperante frattura. Non abbandoniamo il tavolo, non siamo fuori dal gioco.


Immagini:

– Foto di scena – Siccità di Paolo Virzì
– Earth day 2022, Deserto Sahara – @Lucia Laura Esposto
– Siccità film di Paolo Virzi – Tevere e Cupolone
– Coronavirus preghiera di Papa Francesco in piazza 28 marzo 2020
– Le sentinelle del parco Lambro -@Lucia Laura Esposto