C’è brace sotto la cenere nel Tigrai bombardato e alla fame

In una regione dell’Etiopia – l’ex Abissinia – da quattro anni è in corso un conflitto che ha già provocato 500mila morti. Nel disinteresse del mondo. È uno di quei tragici tasselli della terza guerra mondiali a pezzetti che continuamente evoca papa Francesco. La dottoressa Anna Carobene è stata in quella terra martoriata per quindici mesi presso la missione salesiana di Kidane Mehret, nella città di Adua. E, insieme al giornalista Alessandro Cozzi, ha scritto un libro che racconta il dramma della popolazione civile. Così come i piccoli ma fondamentali sussulti di speranza.


12 aprile 2024
Guerre dimenticate
Conversazione con Anna Carobene a cura di Nicola Varcasia

Il 5 novembre 2024 gli Stati Uniti eleggeranno il loro nuovo presidente.
I riflettori del mondo saranno puntati sull’evento. Lo stesso rito si è ripetuto (come tante altre elezioni americane in passato) anche 4 anni fa. Tra l’altro, con gli stessi contendenti e la medesima attenzione spasmodica all’esito del voto.
Inevitabile che sia così. Tuttavia, con diabolica e ricercata concomitanza, in quelle stesse ore del 2020, a migliaia di chilometri di distanza, nella regione del Tigrai, in Etiopia, partiva «in sordina rispetto al mondo, ma con cruda evidenza per chi sta lì», il bombardamento etiope sulla città Macallé che dava il via a una nuova guerra: l’invasione del Tigrai da parte delle truppe eritree.
Le comunicazioni vengono interrotte, gli occidentali mandati via. Il tutto con il benestare del presidente dell’Etiopia, Abiy «per ironia premio Nobel per la Pace nel 2019».

Disinteresse dei media

A raccontare questi fatti, con grande umanità e precisione, sono Anna Carobene e Alessandro Cozzi, autori di “Quel po’ di brace sotto la cenere” (Paoline Editoriale, 2024), un libro che squarcia il velo su una delle più violente guerre dimenticate del mondo di oggi, tassello della terza guerra mondiale a pezzetti, secondo l’ormai famosa, tragica e profetica definizione di Papa Francesco.
Il sottotitolo del libro pone l’attenzione su quello che può sembrare un dettaglio, ma che è sostanza: “Storie vere da un non luogo: il Tigrai”. Perché la devastante guerra scatenata ai danni degli abitanti di questa regione sconosciuta ai più, ma in realtà assai nota a noi italiani con il nome di Abissinia, coniato all’epoca della sciagurata campagna coloniale fascista, è rimasta sostanzialmente ignorata, tranne che per qualche meritevole articolo di “Avvenire” e pochi altri media.
Dentro la cronaca di un conflitto assurdo e violento – «nel quale sono state arruolate anche le bambine dai 12 anni in su» – emergono le storie e gli incontri vissuti in prima persona da Anna, nei 15 mesi di sua permanenza in Tigrai, presso la missione salesiana di Kidane Mehret, nella città di Adua, prima che la pandemia di Covid chiudesse il mondo e le impedisse di tornare.
Biologa e ricercatrice all’ospedale San Raffaele di Milano ci racconta il modo quasi rocambolesco con cui è approdata in Tigrai per svolgere il periodo sabbatico che aveva richiesto. Suor Laura Girotto, la superiora della missione, voleva costruire un ospedale ma, inizialmente, l’Ordine non aveva dato il permesso. Troppo complicato e velleitario trovare i fondi e i professionisti della sanità per quelle zone.

Suor Laura Girotto

«Trovarsi dentro un miracolo»

Come si capisce fin dalle prime righe del libro, sister Laura, che ha creato dal nulla la missione di Kidane Mehret, che oggi include una meravigliosa scuola con 1.500 studenti, non è una persona che si dà per vinta tanto facilmente.
Con la semplicità e determinazione dei santi convince l’Ordine a concederle il permesso, perché «è inutile fare una scuola se i bambini muoiono di infezione», a patto che sia lei stessa ad occuparsi di tutto: così, nel suo pellegrinaggio tra associazioni e movimenti tra le realtà della chiesa in cerca di fondi e professionisti, l’incontro con Comunione e Liberazione e quindi con Anna, che ne fa parte, a cui è stato richiesto di avviare il laboratorio analisi del nascente ospedale.
La storia raccontata nelle pagine di questo libro non è però quella di un’avventura professionale sui generis, ma quella dei sette protagonisti dei singoli capitoli il cui destino si è intrecciato con quello di Anna nei mesi della sua permanenza in Africa, sullo sfondo dell’incombente guerra.
Testimonianze in cui l’umano irrompe in modo impensabile proprio laddove l’umano stesso e il rispetto della vita sembrano definitivamente tramontati, come quella della piccola Brikti, curata in modo ignobile da un presunto medico locale e poi trasferita in Italia grazie all’interessamento di Sister Laura, che fa percepire ad Anna di «trovarsi dentro un miracolo».
O quella del giovane Esaq costretto a fuggire ai massacri compiendo un viaggio della speranza in Kenya: un episodio reale, che riassume in modo emblematico il tragitto di decine di migliaia di sfollati – dimenticati – tra coloro che sono riusciti a partire per sfuggire al genocidio. Parola purtroppo che occorre utilizzare per descrivere quello che è accaduto e sta ancora accadendo.

Le colpevoli “influenze” straniere

Leggendo il libro, con gli approfondimenti successivi di cui sono disseminati i vari racconti, si inizia infatti a comprendere l’intreccio tra “ragioni” tribali e influenze straniere di questa guerra dimenticata e sconosciuta. Perché una cosa è certa, come conferma Anna: «Capire questa guerra dal punto di vista politico locale è abbastanza complicato, anche a causa dei precedenti conflitti esistenti tra le etnie locali, però, senza le armi fornite dalle potenze straniere – che rendono instabile tutta la gestione del Corno d’Africa – non si sarebbe combattuta. Nei bombardamenti sono comparsi per la prima volta i droni turchi, secondo quella che sembra essere una macabra prova generale di ciò che sarebbe accaduto in Ucraina».
Eppure, tra le pieghe di questo inferno o, come appunto ricorda il titolo, sotto la cenere di questo incendio c’è ancora un po’ di brace che emana un calore buono ad alimentare la speranza. La stessa che ha dato origine a un’altra storia nella storia che rende questo libro ancora più particolare. E che ha inaspettatamente consentito ad Anna Carobene di trovare un valido aiuto nella stesura del libro nella persona di Alessandro Cozzi, autore e giornalista che sta scontando una lunga pena nel carcere di Opera, a Milano.
Tornata dall’esperienza africana e impossibilitata a tornarci a causa della pandemia, Anna ha chiesto – con un piglio che ricorda quello di Sister Laura – di fare la volontaria nelle carceri, avvicinandosi all’associazione Incontro e Presenza. Proprio lì ha incontrato Cozzi, che ha prestato la sua penna e la sua passata esperienza autorale per dare forma ai racconti esistenziali e ai preziosi riferimenti geopolitici di cui è intessuto il libro.

Adesso si muore di fame

La situazione nel Tigrai resta di una gravità impensabile. Le stime più prudenti parlano di non meno di 500mila morti tra i bombardamenti e la carestia provocata: «Sono stati impediti i rifornimenti e l’accesso all’energia, hanno circondato l’intera regione, distrutto tutto e la gente che è rimasta prigioniera ha continuato e continua tuttora a morire di stenti, anche se formalmente i combattimenti sono cessati. Gli aiuti non vengono fatti arrivare fin lì, sono bloccati prima: non li bombardano più ma li fanno morire di fame. Tutto questo continua a passare nel silenzio, il genocidio più grande di questo scorcio di secolo. Senza contare le decine di migliaia di esuli in Sudan e Kenya», sintetizza Anna Carobene.
Ma come va a Kidane Mehret? «La missione non è stata bombardata e l’ospedale di Adua che nel frattempo è stato costruito è stato l’unico di tutto il circondario a non essere stato toccato. Lì sono stati a presi a lavorare tutti i medici degli ospedali statali che invece sono stati attaccati. Nell’anno della guerra sono stati fatti nascere più di 3mila bambini».
Fatti come questo, alimentati dalla presenza (e naturalmente non solo da quella) della missione di Sister Laura, autorizzano a sperare che prima delle prossime elezioni americane la comunità internazionale decida di togliere la cenere sopra la brace risparmiando dalla morte per fame e di stenti altre migliaia di persone.