Bob Dylan: “Non voglio essere quello che loro vogliono che io sia”

“Complete Unknown” è il bellissimo biopic che ci fa incontrare l’inarrivabile artista premio Nobel per la Letteratura. Un viaggio dentro un mondo in presa diretta. Tra canzoni indimenticabili, amori, amicizie sincere, il racconto di una porzione di storia dove esplode il suo rifiuto di farsi rinchiudere in un unico registro espressivo. Fuori dagli schemi, sempre, mister Robert Zimmerman. Film da vedere. E poi via con lui sulla magica Triumph!


14 febbraio 2025
C’era una svolta
di Walter Gatti

Dal Film Complete Inknown – Bob Dylan interpreta to da Timotee Calamet

Tra i film attualmente in programmazione, “A Complete Unknown” si ritaglia un posto speciale. Perché? Prima di tutto perché mette sullo schermo le vicende di uno dei personaggi più importanti e noti della cultura degli ultimi sessant’anni, Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan, cantautore classe 1941 e premio Nobel per la letteratura nel 2016. Poi perché sta registrando incassi imprevedibili. E, per finire, perché mostrando gli intrecci tra Dylan e gli altri folksinger nella New York dei primi anni Sessanta, riesce a farci entrare con immediatezza e quasi in presa diretta in un mondo di giovani spiantati, alternativi, avventurosi, utopisti e smarriti che tra coraggio e idiozia intraprendente hanno avuto – piaccia o non piaccia – una certa parte nella definizione di un nuovo mondo.

I presupposti

Detto questo parliamo del film. Ben girato da James Mangold (che aveva già firmato “Quando l’amore brucia l’anima, bel film su Johnny Cash e June Carter), e basato sul libro “E Dylan prese la chitarra elettrica, il film gode di una manciata di attori perfetti e di una emozionante ricostruzione dei fatti che, detti in breve sono questi: un diciannovenne aspirante folksinger arriva a New York per andare a trovare Woody Guthrie, il re della musica folk, malato con una sindrome neurodegenerativa senza possibilità di guarigione. Dylan incontra Woody e fa pure amicizia con Pete Seeger, l’altro nume tutelare della musica tradizionale nordamericana (il cantante di “Where Have All the Flowers Gone”, quello che ha reso famosa “Guantanamera” ed ha resuscitato “We Shall Overcome”). Il folk in quei giorni non è solo “un genere”, ma è un sistema di linguaggio politico-culturale: fare musica folk (e quindi stare lontano dal rock’n’roll, da Elvis e Chuck Berry e compagnia) era una scelta di campo. Fare folk equivaleva a stare con le masse rurali ed operaie, contro i poteri, contro l’industria, contro l’establishment. E la regina del folk era Joan Baez, coetanea di Dylan, che già aveva all’attivo tre album ed una reputazione in ascesa nel mondo giovanile e nella controcultura.

La collaborazione tra Bob Dylan e Johnny Cash

La storia

Il film si svolge così, da questi primi incontri, con la relazione di Dylan con Suzi Ruotolo (che finisce sulla copertina di “The Freewhelin”, l’album del 1963 che contiene “Master of War e “Blowin’ in the Wind”), all’amore con la Baez, alle brevi esibizioni nei club underground del Greenwich Village, alle registrazioni dei primi dischi, alle lettere scambiate con Johnny Cash, alla ‘svolta elettrica’, che più che una scelta artistica (prima Bob incideva solo con le chitarre acustiche, poi arrivano basso-batteria-hammond e Fender Stratocaster) assume le sembianze di un rifiuto ad essere incasellato in una categoria rigida, fosse anche una categoria ‘buona, dura e pura’. E da qui il film (dopo aver raccontato amori e dolori, paure per la minaccia nucleare della Baia dei Porci e ispirazioni che portano a canzoni poi diventate famose) si sviluppa nella paradossale vicenda finale del festival di Newport 1965, quando il caos regna sovrano sopra e sotto il palco della prima esibizione elettrica di Dylan nel tempio della ‘musica intransigente’.

Vederlo o non vederlo?

Fin qui la trama. Ma perché bisogna vederlo? Perchè Timothée Chalamet sembra Dylan? Perché Norton pare proprio Pete Seeger e via discorrendo? È chiaro che nel film sono tutti bravissimi e il regista, Mangold, non è nato domani. Insomma: il film era quasi una sicurezza ed anche (diciamo così) il placet dato dallo stesso Dylan alla sceneggiatura stava a confermare che lo stesso protagonista reale si riconosceva in quei toni e in quella narrazione. Personalmente però, al di là di vedere Dylan che abbozza “Girl From North Country” a casa Seeger o la ricostruzione dei fatti di Newport, quello che mi ha più coinvolto è proprio la ricostruzione di un’epoca, del Greenwich, delle relazioni tra folksinger, della musica che nasceva, di un tempo di fioritura, degli occhiali da sole e delle Triumph: il tutto porta dentro ad un tempo di nascita.
Funziona tutto soprattutto perché il film ti avvolge con il fascino di un tempo ricostruito con amore, con affetto, con passione, più che con puntiglio. Poi è chiaro che stiamo parlando di un autore inarrivabile, quello che ha scritto “Like a Rolling Stone” e “It’s All Over Now”, e tutto questo aiuta. Ma potrebbero esserci le canzoni senza l’epoca e senza l’epica. Invece c’è tutto. E tutto è al suo posto e ci arriva come la vita. E quindi il film è bello. Molto bello. Perché non manca nulla. Il tutto intorno alle canzoni. Il mondo attorno a Dylan, che rimane il personaggio più inafferrabile dell’intera storia.

Dal Film Complete Unknown l’attore Timothée Chalamet interpreta Bob Dylan


E dopo?

Potremmo alla fine domandarci: ma Dylan è tutto lì? Cosa è accaduto dopo? Come ha fatto il ragazzino che arriva a New York per rintracciare il suo mito musicale a diventare il riferimento di migliaia di cantautori (più o meno cloni) e di milioni di ascoltatori? Quesiti leciti, ma irrisolti, visto che il film intende solo giungere ai fatti di Newport. Irrisolti soprattutto perché Dylan, proprio da quei primi anni, non vorrà mai cambiare idea attorno alla considerazione centrale attorno a cui ruota il film: “non voglio essere quello che loro vogliono che io sia”. In una delle battute acide della sceneggiatura, il protagonista dice: “Loro vogliono che canti Blowin’ in the Wind per tutto il resto della mia vita”. Ebbene lo farà, continuerà a farlo, a cantarla. Ma cercando di rendere i suoi brani più famosi irriconoscibili, mascherandoli.
Da lì in poi quasi tutte le sue canzoni assumeranno una veste ritmica (e a volte anche melodica) differente, saranno cantate in modo imprevedibile quasi per giocare con il pubblico. Come a dire: io e le mie canzoni non siamo un prodotto di consumo. Già pochi anni dopo il periodo raccontato nel film di Mangold, in “Before the Flood” (superbo disco registrato live con The Band, il gruppo che Martin Scorsese ha immortalato nel film “The Last Waltz”), “Blowin’ in the Wind”diventerà un poderoso rock, lento, invadente e trascinante. È la stessa canzone, ma è anche un’altra cosa. Una cosa sconosciuta. Completamente sconosciuta.