Benedetto XVI: «Se noi non conosciamo più Gesù è la fine della Chiesa»

Quando nel 2016 usciva “Benedetto XVI Ultime conversazioni”, a cura di Peter Seewald (per Garzanti) il mondo scopriva un vero innamorato del Signore che, tre anni prima, aveva scelto di rinunciare al pontificato.
Ora che Joseph Ratzinger ha lasciato la vita terrena, diventa un’occasione conoscere la persona, il suo pensiero, la sua fedeltà semplice alla Chiesa di Cristo attraverso quel libro che resta così attuale, sincero e sorprendente. Parole profonde che comunicano speranza e responsabilità per tutti gli uomini. Un incontro privilegiato con un sacerdote divenuto per otto anni successore dell’apostolo Pietro.
Una lettura opportuna per mettere da parte luoghi comuni, cattiverie, chiacchiericci vari. Di quel libro rilanciamo alcuni passaggi di Ratzinger su temi cruciali che evidenziati all’uscita del libro con sottolineature a matita. Estratto dallo scaffale per vivere di nuovo un percorso di grande fascino


13 gennaio 2023
di Enzo Manes

Fuffa. E uffa. Proprio non ce la si fa ad uscire dal seminato. Il proprio. Per una volta ci saremmo volentieri risparmiati il solito supplizio di leggere cose francamente poco leggibili. A proposito della morte di Benedetto XVI, dico. Il papa conservatore. Il papa tradizionalista. Quello che aveva il chiodo fisso per la messa in latino. Che qualche consonanza, se non di più, con i lefebvriani. Quelli che però l’inciampo di Ratisbona. Il papa emerito che ha rappresentato l’alternativa al progressista papa Francesco.  E vogliamo mettere le sue coperture verso i casi di pedofilia dentro la Chiesa tedesca? Quelli che però è troppo tedesco (cioè?). Quello che è stato un prefetto di ferro: rigido come il freddo pungente che però non c’è più da tempo. Per non citare i buontemponi che hanno trattato la sua rinuncia come una fuga, l’ammissione di una sconfitta.  Insomma: fuffa. E quindi uffa, per permetterci almeno di esprimere una certa stanchezza e anche un po’ di tristezza.  Come atto di riparazione (non che sia sbagliato il commento alla morte di una personalità così dirompente e, in specie, un papa) abbiamo scelto di tornare al pensiero originale. All’autore. A Benedetto XVI. Lo abbiamo fatto estraendo dallo scaffale di casa “Benedetto XVI Ultime conversazioni”, a cura di Peter Seewald (uscito nel 2016 per Garzanti. Il 20 ottobre di quell’anno il Centro Culturale di Milano promosse l’opera con un incontro in Università cattolica, presenti il giornalista e scrittore tedesco e il professor Stefano Alberto, docente di Teologia). Ci aveva colpito.
Lo ricordavamo un dialogo serrato, avvincente, ricco, senza reticenze tra il papa emerito e il suo biografo ufficiale. Lo abbiamo letto allora con attenzione al punto che in più pagine la matita ne evidenziava passaggi significativi. Anziché scrivere ora qualcosa del contenuto di quello storico libro, mi sono limitato a riportare un buon numero di sottolineature apportate alla prima lettura.
Una sorta di percorso e un nuovo incontro con l’autore che spero favorisca anche la comprensione della bellezza affettiva esplicitata nelle sue ultime parole pronunciate negli attimi che ne hanno preceduto la morte; quel “Signore ti amo!” così semplice; un sì rivoluzionario perché fedele a Gesù, l’incontro definitivo della sua vita. 

Seewald con Papa Benedetto XVI

Il tramonto dell’eurocentrismo della Chiesa cattolica

Procediamo. A un certo punto Seewald gli domanda del suo rapporto personale con Cristo e quanto sia arrivato vicino a Gesù. Si va al cuore della vicenda. Benedetto XVI risponde: «(…) Nella liturgia, nella preghiera e nelle meditazioni per l’omelia domenicale lo vedo proprio davanti a me.
È sempre grande e misterioso, ovvio. Molte parole del Vangelo le trovo ora, per la loro grandezza e gravità, più difficili che in passato. (…) Da un lato, ci siamo, per così dire impratichiti. La nostra vita ha assunto la sua forma. Abbiamo preso le decisioni fondamentali. Dall’altro, sentiamo molto di più la gravità delle domande, anche la pressione dell’irreligiosità attuale, la pressione dell’assenza della fede fin dentro la Chiesa.E poi, appunto, anche la grandezza delle parole di Gesù Cristo che spesso sfuggono più di prima all’interpretazione».
Uno dei temi più dibattuti dopo l’arrivo al soglio di Pietro di papa Francesco è quello del tramonto dell’eurocentrismo della Chiesa cattolica.
Così Ratzinger: «(…) L’Europa conserva la sua responsabilità, i suoi compiti specifici. In Europa, tuttavia, la fede è in tale calo che il Vecchio continente può essere solo entro certi limiti la vera forza propulsiva della Chiesa mondiale. Contemporaneamente vediamo che sono i nuovi elementi, per esempio africani, sudamericani o filippini, a imprimerle una nuova dinamica, a rinfrescare l’Occidente stanco e infondergli nuova energia, a ridestarlo dalla stanchezza, a fargli tornare la memoria della sua fede».
Hitler ascese al potere con Ratzinger bambino (è nato nel 1927).
Questo il suo ricordo e la sua convinzione di quell’avvio di stagione funesta: «Per noi era chiaro che un religioso dovesse essere antinazista. E nostro padre lo era a tal punto che nessuno riusciva a immaginarsi che nella nostra famiglia qualcuno potesse militare a favore del regime. (…) Secondo la Tradizione il Signore fu crocifisso a trentatré anni e il 1933 era un grande giubileo, che fu celebrato anche ad Aschau, dove vivevamo, allora. Contemporaneamente ci fu questo trionfo del male. Ma il mondo interiore della religione era così vivo in noi che le cose esteriori potevano sì opprimerlo ma non distruggerlo».

Peter Seewald con don Stefano Alberto per la prima presentazione internazionale di Ultime conversazioni

Dio mi conosce e mi ama

Nell’invito per la sua prima messa è riportato il seguente motto: «Non siamo i padroni della vostra fede, ma i servi della vostra gioia». Seewald domanda a Ratzinger come sia arrivato a quel motto. Lui spiega in questo modo: «(…) Essere consapevoli che noi sacerdoti non siamo padroni, ma servi, dal mio punto di vista non era solo consolante, ma anche importante per poter accettare l’ordinazione. Pertanto consideravo questa frase un motivo centrale: un motivo che avevo ritrovato nella lettura della Sacra Scrittura, nei testi più diversi, e in cui mi sembrava si esprimesse particolarmente quello che ero io».
E, a proposito, di prima volta, per il papa emerito non è mai routine la celebrazione dell’eucarestia, ma vive il fatto della transustanziazione con totale abbandono, appunto come se fosse ogni volta la prima volta. Spiega: «È un’esperienza così emozionante che si resta sempre colpiti e si è presi completamente dall’evento che sta avvenendo sull’altare: la presenza del Signore stesso, il pane che non è più pane, ma il corpo di Cristo».
La fecondità di pensiero quale segno di totale apertura di Joseph Ratzinger emerge in questi due passaggi.
Nei quali confessa: «Ho ammirato molto Martin Buber. Anzitutto era il maggior rappresentante del personalismo, del principio dialogico, e tutta la sua filosofia ne è intrisa. (…) La sua visione personalistica e la sua filosofia, che traggono nutrimento dalla Bibbia, nelle storie chassidiche prendono una forma molto concreta. Tutto in lui mi affascinava: la pietà ebraica, in cui la fede è spontanea e contemporaneamente sempre attuale, calata nel presente, il suo modo di credere nel mondo di oggi, la sua figura complessiva».
E poi la sua passione per lo scrittore Herman Hesse, in particolare per i romanzi “Il lupo della steppa”e “Il giuoco delle perle di vetro”. Ecco come motiva: Ne “Il lupo della steppa” «l’analisi spietata della disgregazione dell’Io, che rispecchia quanto sta accadendo oggi all’uomo. Ero catturato da come l’autore mette a nudo questo aspetto, dall’intera problematica. Nel “Giuoco delle perle di vetro” – quando l’ho letto ero molto giovane e vivevo nel mondo protetto della mia casa paterna – mi ha colpito soprattutto l’idea che il protagonista alla fine deve partire. Che se ne vada un’altra volta. È il grande maestro del gioco delle perle di vetro, ma anche per lui non c’è nulla di definitivo. Ogni inizio contiene una magia, che costringe sempre a ricominciare da capo».
Per Ratzinger è nota l’affezione, supportata da studi assai approfonditi continuamente ripresi e aggiornati, verso sant’Agostino. Quell’incontro gli ha permesso di mantenere vivo il richiamo ideale e concreto testimoniato dal vescovo di Ippona: “Dai platonici ho imparato che al principio era il Verbo. Dai cristiani ho imparato che il Verbo si è fatto carne”. Dunque, nessuna contrapposizione ma compenetrazione.
Ciò ha affascinato Ratzinger: «Sono giunto alla convinzione che abbiamo bisogno del Dio che ha parlato, che parla, il Dio vivente. Il Dio che tocca il cuore dell’uomo, che mi conosce e mi ama. Ma in qualche modo Dio deve essere anche accessibile alla ragione. L’essere umano è un’unità. E un’entità che non ha niente a che fare con la ragione, ma procede su un binario parallelo, non sarebbe integrata nella totalità della mia esistenza, ma resterebbe una sorta di corpo estraneo».

Francesco e Benedetto

La liturgia è esperienza personale della Chiesa

Il 25 luglio 1968 viene resa pubblica l’enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI. Joseph Ratzinger racconta come la giudicò allora: «Nella mia situazione, nel contesto del pensiero teologico di allora, l’“Humanae vitae” era un testo difficile. Era chiaro che ciò che diceva era valido nella sostanza, ma il modo in cui veniva argomentato per noi allora, anche per me, non era soddisfacente. Io cercavo un approccio antropologico più ampio. E in effetti, papa Giovanni Paolo II ha poi integrato il taglio giusnaturalistico dell’enciclica con una visione personalistica».
Nella Via crucis del Venerdì Santo (2005) Ratzinger parlò di sporcizia all’interno della Chiesa. Molti intesero quelle parole in riferimento ai casi d’abuso che stavano emergendo nella Chiesa. Tuttavia, «c’erano anche quelli, ma ho pensato a tante cose. Un cardinale della Congregazione per la dottrina della fede viene a conoscenza di così tanti particolari, perché tutti gli scandali arrivano lì, che bisogna possedere una grande forza d’animo per sopportare. Che nella Chiesa ci sia della sporcizia è cosa nota, ma quello che deve digerire il capo della Congregazione per la dottrina della fede va molto oltre e pertanto volevo semplicemente pregare il Signore che ci aiutasse».
Quando nel 2007 papa Benedetto XVI compie ottant’anni esce il primo volume della sua preziosa trilogia dedicata a Gesù Cristo. Un’opera ritenuta di enorme importanza, un avvenimento straordinario, cifra del suo pontificato.
Quel lavoro lo ha motivato così nel dialogo con Seewald: «Come da un lato è importante la liturgia in quanto esperienza personale della Chiesa e tutto si perde quando la liturgia viene snaturata, così se noi non conosciamo più Gesù è la fine della Chiesa. E il pericolo che Gesù venga distrutto o svilito da un certo tipo di esegesi è enorme. Per questo ho dovuto addentrarmi un po’ nella lotta della giungla dei dettagli. Qui non è sufficiente interpretare spiritualmente il dogma, ci si deve addentrare nella discussione senza perdersi in dettagli esegetici, ma abbastanza perché si veda che il metodo storico – critico non ci impedisce di credere».

Benedetto XVI in visita nella Diocesi di Milano

La verità possiede noi, ci ha toccato

L’intervista, sul finire della conversazione, tocca un punto cruciale. Domanda al papa emerito: come vede il futuro del cristianesimo?.
Ecco come argomenta Ratzinger la risposta: «È palese che i nostri principi non coincidono più con quelli della cultura moderna, che la struttura fondamentale cristiana non è più determinante. Oggi prevale una cultura positivistica e agnostica che si mostra sempre più intollerante verso il cristianesimo. La società occidentale, quindi, in ogni caso in Europa, non sarà una società cristiana e, a maggior ragione, i credenti dovranno sforzarsi di continuare a plasmare e sostenere la coscienza dei valori e della vita. Sarà importante una testimonianza di fede più decisa delle singole comunità e Chiese locali. Avranno una maggiore responsabilità».
Il motto episcopale di Ratzinger recita così: collaboratori della verità. Interessante apprendere come vi sia giunto: «(…) È vero che non possiamo dire: ‘Io posseggo la verità’, ma la verità possiede noi, ci ha toccato. E noi cerchiamo di farci guidare da questo contatto. Quando fui ordinato vescovo mi vennero in mente queste parole della terza lettera di Giovanni, che noi siamo ‘collaboratori della verità’.  Con la verità, dato che è persona, si può collaborare. Per lei ci si può impegnare, cercare di farla valere. Mi sembrava che fosse la definizione autentica del mestiere del teologo: colui che è stato toccato dalla verità, che ha visto il suo volto, ora è disposto a mettersi al suo servizio, a collaborare con lei e per lei».
E l’amore per Dio? Dice Ratzinger: «Infine sono sempre diventato più consapevole che Dio stesso non è soltanto, diciamo, un sovrano onnipotente, una potestà lontana, ma è amore e mi ama e di conseguenza dovrebbe essere la bussola della mia vita. E io devo lasciarmi guidare da Lui, da questa forza che si chiama amore».
Non poteva mancare la domanda su cosa dirà all’Onnipotente quando si troverà al suo cospetto. Il papa emerito: «Lo pregherà di essere indulgente con la mia miseria».