Beirut tra macerie e speranza
Quel che avviene in Libano sta mettendo in crisi la storicamente già difficile convivenza interreligiosa. Oggi sembra che tutto stia precipitando. Le fotografie quotidiane ci restituiscono una drammaticità della situazione per davvero insopportabile. Eppure, la scelleratezza dei soliti noti, come dicono i trascorsi del “Paese dei cedri”, non è mai riuscita a eliminare il desiderio di una vita normale, di un rapporto pacificato tra famiglie musulmane e cristiane. Perché c’è sempre un bene a cui guardare. Come testimoniano alcune piccole ma fondamentali vicende nel pieno della tragedia
18 ottobre 2024
Non solo guerra
di Andrea Avveduto

Alcuni energumeni strattonano con forza le inferriate di una casa.
Vogliono sfondare il cancello ed entrare nell’abitazione di una famiglia che cerca riparo all’interno. Solo un uomo rimane in cortile, per affrontare con calma la furia degli aggressori e proteggere la famiglia. Pochi minuti e il cancello cede. Gli uomini, minacciosi, avanzano, arrivano fino all’uomo che cerca di fermarli: gli urlano in faccia, poi lo strattonano, volano anche degli schiaffi. L’uomo, proprietario della casa, cade a terra. A quel punto il capo di quella gang improvvista chiama delle donne e i bambini. “Venite, forza. Portate i bagagli”.
Le immagini che immortalano la scena arrivano dal Sud del Libano, e sono inequivocabili. Gli aggressori sono musulmani, e stanno cercando di entrare in una casa privata di Tiro per trovare rifugio ai bombardamenti israeliani. Il proprietario dell’abitazione è un cristiano libanese, poco disposto a mettersi in casa chissà quante persone. Musulmane per di più. Nel Paese dei cedri non è un caso isolato: le preoccupazioni legate alla tenuta sociale dei rapporti tra appartenenti a fedi diverse è da diverso tempo messo in discussione, e questo tipo di vicende – sempre più frequenti in questa nuova guerra – mettono sotto i riflettori un aspetto, quello delle tensioni interreligiose, che non si è mai del tutto sopito, nemmeno quando Giovanni Paolo II definì coraggiosamente il Libano come un “messaggio” di convivenza, di dialogo, di incontro. In effetti, lo è stato. E tutto il mondo guardava quel piccolo paese che si affaccia sul Mare Nostrum con fiducia, come per cristallizzarne l’esempio di convivenza e armonia. Le immagini di oggi ricordano i decenni di una delicata e precaria convivenza tra cristiani e musulmani, bilanciata tra momenti di conflitto e tentativi di riconciliazione. Oggi questa fragile convivenza è messa ulteriormente alla prova dalla crisi che paralizza il paese e dall’enorme afflusso di profughi, principalmente siriani, che negli anni hanno raggiunto il paese dei cedri in fuga dalla guerra. Tensioni e scontri riportano alla luce ferite non del tutto guarite, che affondano le origini nella complessità del passato.

Il martirio dei cristiani di Damour. E Sabra e Chatila…
La storia del Libano è molto particolare, un caso unico in tutta la regione. Per secoli, prima che venisse fondato lo stato moderno, le sue montagne erano una barriera naturale contro gli eserciti invasori. Per le minoranze religiose della regione, specialmente cristiani e drusi, divennero un rifugio. Nascosti in remoti villaggi di montagna, le diverse comunità che alla fine avrebbero formato la nazione libanese svilupparono identità, storie e culture distinte tra loro. Insomma il Libano, come ha scritto uno dei suoi grandi storici Kamal Salibi, era “la casa di molte dimore”.
Nel 1975 il paese conobbe la fase più difficile della sua storia. Siamo alla vigilia della terribile guerra civile, e nei successivi 15 anni lo stato libanese venne devastato dagli scontri combattuti da milizie di diverse confessioni. Lo scontro religioso era inevitabile. Beirut est, prevalentemente cristiana, era divisa dalla Beirut ovest, a maggioranza musulmana, da una “linea verde” che serpeggiava attraverso il centro della città, piena di cecchini e posti di blocco armati. A seconda della temperatura politica del giorno, o dei capricci dei giovani miliziani lì posizionati, attraversare questi confini poteva essere letale. Circa 17.000 libanesi furono fatti sparire con la forza durante la guerra, molti perché appartenevano alla “fede sbagliata” o per aver attraversato il posto di blocco sbagliato nel momento sbagliato.
Nel gennaio 1976, durante la guerra civile, la città di Damour, a maggioranza cristiana, situata a sud di Beirut, fu attaccata da una coalizione di milizie palestinesi musulmane e forze di sinistra libanesi. La città fu assediata e conquistata dopo intensi combattimenti. Le forze assedianti compirono atroci violenze contro la popolazione civile, uccidendo centinaia di persone e costringendo i sopravvissuti a fuggire.
La frattura era ormai evidente, e Israele vide un’occasione troppo ghiotta per non approfittarne. Quando lo Stato ebraico invase il Libano nel 1982, cercando di scacciare i militanti palestinesi che usavano il paese come base di lancio, creò un’alleanza con le milizie cristiane falangiste, che videro l’opportunità di riaffermare la loro supremazia sul paese e vendicarsi delle violenze subite a Damour.
Nel settembre 1982, l’esercito israeliano sparò razzi di illuminazione nel cielo sopra due aree di Beirut, Sabra e Shatila, popolate da famiglie palestinesi musulmani, permettendo alle falangi cristiane di andare casa per casa a massacrare principalmente donne e bambini. Fu un altro episodio terribile, destinato a lasciare una traccia indelebile nella memoria collettiva, ancora oggi occasione di corsi e ricorsi storici.
Sette anni più tardi Israele aveva già da tempo abbandonato i suoi alleati cristiani e tutte le fazioni della guerra civile libanese erano esauste. Deposero le armi in cambio di un nuovo accordo politico che distribuiva il potere in modo più equo. I libanesi che avevano passato anni confinati in determinati quartieri di Beirut o villaggi di montagna iniziarono un difficilissimo processo per ricostruire la coesione sociale. Cercata, invocata più volte, ma fortemente a rischio. Oggi sul Libano sono tornate le bombe. Le stime parlano già di un milione di sfollati che cercano riparo nelle scuole, nelle parrocchie, nelle moschee. E nelle case. Le immagini dei musulmani che cercano – con la forza – riparo dalla guerra nelle abitazioni cristiane sono l’icona di un paese che fatica a ritrovare quella coesione indicata (forse più desiderata) da san Giovanni Paolo II.

Oltre le diffidenze religiose
Beirut non smette di essere bombardata, mentre si prospetta una lunga guerra di attrito. Dopo un anno difficile, il bilancio dei morti e dei feriti è destinato ad aumentare. Così come pure le tensioni interreligiose. Fadi è responsabile dei progetti di Pro Terra Sancta in Libano, e racconta addolorato come la guerra abbia costretto “molte persone a confrontarsi con nuove sfide. Distribuire gli aiuti in modo efficace, in un contesto in cui mezzo milione di sfollati necessita di beni di prima necessità. O evitare che le antiche tensioni settarie o tribali riemergano e ostacolino gli sforzi di soccorso”. Le richieste di aiuto continuano ad aumentare man mano che le persone fuggono dalle aree più colpite e si riversano nella capitale.
I centri di accoglienza della ONG che opera da più di vent’anni in Medio Oriente sono ormai sovraffollati, le risorse scarseggiano, e le condizioni di vita sono estreme. “Stiamo parlando di persone – continua – che hanno perso tutto e vivono in situazioni incredibilmente difficili. In spazi di appena 25 metri quadrati, convivono fino a 20 individui. La tensione è inevitabile, soprattutto considerando che molti hanno perso la casa, la famiglia, tutto ciò che conoscevano, senza sapere cosa li attende nel futuro”. Eppure non possiamo non guardare anche quel bene che “nessuno è riuscito e riuscirà mai a distruggere”.
“Una cosa che mi ha colpito in questi giorni di dolore – dice Fadi – è vedere come le persone abbiano iniziato ad aiutarsi a vicenda, superando le differenze religiose. Cristiani e musulmani, che magari prima si guardavano con diffidenza, ora lavorano insieme per sopravvivere e alleviare le sofferenze reciproche”. Sempre più insieme, in questa sofferenza che li accomuna tutti. Ancora una volta segno che il dolore può chiudere in sé stessi, ma – come ricordava recentemente anche il Cardinale Pizzaballa – può anche aprire a nuove dimensioni, “può trasformarsi in risurrezione. Senza questa prospettiva, in Terra Santa nessun progetto politico potrà avere successo, e la pace resterebbe solo uno slogan poco credibile”.