Alla scoperta del sacro
Nella perdita di un padre non vi è mai nulla di scontato. Di banale. È un fatto che viene raccontato dal figlio quarant’anni dopo. Nel libro di Dario Voltolini, “Invernale” (La nave di Teseo), finalista al Premio Strega 2024, si dà conto di questo, senza concessioni al pietismo e alla retorica del dolore. Gino, il padre, fa il macellaio. La disgregazione della carne apre a domande, mette in moto. Il figlio non fugge via. Ecco un romanzo, scritto benissimo, che fa i conti con la vita nella sua interezza. Che ci restituisce il significato “carnale” della cultura. Nello spirito cristiano di don Giussani e secondo il richiamo radicale di papa Francesco, per confrontarsi con le parole dell’uomo di oggi. Come sta avvenendo nel ciclo “Quel che può la letteratura” proposto dal Centro Culturale di Milano di cui questo è stato il primo incontro. Perché la letteratura “può”, come dimostra questo gioiello di romanzo.
13 dicembre 2024
Conoscenza e rinnovamento
di Benedetta Centovalli

“Invernale” è un libro di forte compattezza, esatto nelle sue rispondenze, calibrato nell’urgenza di calarsi dentro la malattia e la morte del proprio padre nel racconto del figlio a quarant’anni di distanza da quella morte. Un tempo lungo di gestazione e un veloce tempo di scrittura: meno di due mesi, il lasso di tempo che passa dalla data dell’anniversario della nascita e quello della morte del padre.
Macellaio-artista sulla scena del mercato-teatro, il padre Gino è una persona che fa il proprio mestiere a regola d’arte, e su questo ha costruito la dignità della sua esistenza. Come nei preparativi per la caccia, come nel gioco del calcio, o nel dialogo serrato e arguto tra i banchi del mercato, è un padre che non lascia nulla al caso. La cerimonia della macellazione è per lui una forma di rispetto di sé e dell’animale, questo gli consente di sentirsi sempre dalla parte dell’animale: «Il venditore al minuto sa con certezza che, se c’è un confine fra gli animali e gli uomini, lui sta dalla parte delle bestie. Anche se le ammazza. Anche se le spolpa, le disossa. Anche se le trita, le apre, le affetta. Le accoltella. Le spacca. Le caccia» (pp. 51-2), il rispetto passa dal porzionare perfettamente quelle carni, nel lavorarle con perizia, in una gestualità consolidata negli anni che non lascia spazio a nessuna sciatteria o errore. Il libro si apre sulla descrizione accurata del lavoro che si compie nel mercato di Porta Palazzo, pagine e pagine che ci mostrano esattamente come le mani si muovono e agiscono in questa specie di liturgia della carne. Tagliare, spolpare, divaricare, pulire, disinfettare, riportare tutto al nitore iniziale.

Centro di trasformazione della coscienza
Un giorno però accade un incidente, succede quasi ad apertura di libro, il padre si taglia un dito della mano durante la porzionatura di un agnello, è un taglio che mette in stretta relazione uomo e animale, mescola il loro sangue e la loro carne.
La ferita presto curata e poi rimarginata apre però un varco alla malattia e a una particolare idea di sacroche attraversa il libro: «Eppure nel gesto si è infilato un nuovo aspetto. L’atto della macellazione ha ora in sé qualcosa che non si può vedere ma c’è: un incremento della sacralità e del rispetto che c’erano sempre stati» (p. 18). La ferita nella sua mente produce un’apertura al cambiamento, alla metamorfosi, a una diversa consapevolezza di sé. È una cesura tra il prima e il dopo. Come nel lettore quella ferita mette in relazione il Padre con l’Agnello – l’animale che sta porzionando nel suo banco al mercato –, crea un corto circuito e un’identificazione del padre come agnello sacrificale.
Per il padre l’incidente si trasforma in uno strumento di conoscenza e di rinnovamento, una specie di centro di trasformazione della coscienza e di intensificazione del sapere di sé. Come se tutta la sua vita si fosse concentrata proprio in quel punto e a quel punto dovesse arrivare:
Ogni vita converge a qualche centro,
dichiarato o taciuto;
esiste in ogni cuore umano
una mèta (E.D.)
Ci vorrà del tempo prima che questa trasformazione finisca in una diagnosi di tumore senza scampo, occasione per una riflessione più ampia: «Il cancro ha evidentemente un progetto suicidario, perché quando vince crepa pure lui. In questo, sembra comportarsi come il genere umano rispetto al pianeta che lo ospita, insieme alle altre bestie che però non sembra abbiano lo stesso progetto. Noi invece, fatti a immagine e somiglianza di Dio, a differenza del lombrico, della gallina e della iena, vogliamo la fine nostra e del nostro ambiente con noi» (pp. 90-91).
Ma intanto il padre è entrato in un processo di metamorfosi che lo porta ad avere una diversa consapevolezza di sé e un diverso sentimento del tempo fino all’approdo finale: «La vita, che non sa fare altro, procede. Ciò che avviene intimamente in lui, inteso come soma, comincia a manifestarsi all’esterno. Un modo più circospetto di camminare, una cautela nel gesto, un’attenzione a cose che altri non vedono» (p. 101). Quasi una lenta acquisizione del sacro, in un dialogo con il mistero ultimo della vita che cresce in cerchi concentrici intorno alla sua persona e la dilata verso un altrove dai connotati ignoti.

La parola chirurgica e l’attesa
Il racconto di Voltolini è talmente preciso e vincolato alle regole di un mestiere, quello di macellaio del padre (ma anche di una passione condivisa da entrambi per il calcio), che la sua scrittura vi aderisce in modo perfetto, se ne nutre, mestiere su mestiere, e l’afflato metafisico che inevitabilmente muove queste pagine sembra dovere essere riportato a terra, sulla linea dell’orizzonte, a una metafisica terrena fatta tutta di gesti e di parole. I quaranta anni di incubazione del libro hanno reso possibile una speciale restituzione da parte del figlio di quella dedizione paterna, la lama è diventata quella della parola chirurgica.
Agli occhi del narratore, un io che resta sempre discreto, nascosto dietro il giro rapido della frase esatta, a distanza di sicurezza dal dolore cieco, il padre si rivela tutto dentro quella ferita. Ci sono evidenti e (in)volontarie contaminazioni cristiane intorno alle quali ruota tutta la narrazione, ne fa fede la stessa copertina del libro, un particolare del Polittico dell’Agnello mistico di Van Eyck, con gli occhi umanissimi dell’Agnello in primo piano e la testa dell’animale ma privata degli attributi cristologici. Un io-narrante che coincide con lo scrittore che con rigore e assoluto equilibrio non indulge mai a facili affondi emotivi, non si lascia tentare dalla sentimentalità (d’altronde è troppo avvertito per farlo), ma marcia al passo veloce di un destino che si compie nel giro degli ultimi anni – sono i tardi anni Settanta – di un’esistenza troncata anzitempo.
Così la vita del padre si deteriora nella malattia e subisce, come la carne macellata, tutte le trasformazioni e si consuma nell’attesa: «Tu non è che la pensi, questa attesa, tu non so nemmeno se la vivi o la subisci o la abiti: forse – ma proprio forse (non so niente, ma niente!, spaventosamente niente) – tu semplicemente la sei» (p. 72).

Uno spazio di salvezza per il figlio
Cosa fa di “Invernale” un testo esemplare? È proprio la tenuta del narratore, la sua postura pulita e alta, distante e ferma nel dolore, questa è la novità e la forza del libro.
Il titolo “Invernale” allude proprio a uno dei pochi momenti in cui il narratore, Dario, si trova al centro della vicenda, cioè quando, verso la fine del racconto, sdraiato sul suo letto di casa sente salire dentro di sé uno strano gelo, un freddo improvviso, nel clima infuocato di quella fine luglio del 1982 quando l’Italia è Campione del mondo, e scoprirà a breve che suo padre è morto.
Così l’aggettivo invernale definisce proprio la tonalità emotiva di tutto il racconto, quell’intento raggiunto in pieno di conservare, preservare, quanto della nostra vita altrimenti andrebbe perduto ma senza il sovrappiù e il ciarpame del sentimentalismo a buon mercato.
Anche il padre, prima di morire, in due parole nette affidate alla madre e alla cugina, «Salutatemi Dario», disegna uno spazio di salvezza per il figlio imprigionato in quel lago di ghiaccio.
Congedo ultimo, requiem, lamento funebre, preghiera laica o bestemmia, ogni lettore potrà riconoscere in questo testo dedicato alla memoria del padre “la pesantezza e la grazia” (S. Weil) delle domande ultime e ineludibili della vita: «Esistono momenti in cui in un lampo appare in tutta la sua evidenza che c’è qualcosa che sta da un’altra parte rispetto alle emozioni e ai sentimenti. Qualcosa che sta prima di loro, che sta dopo e che quindi sta anche mentre, ma non è un’emozione, non un sentimento, non si sa cos’è. È un lago di pietra perpetua che si intravede in un baleno di notte, è uno stato» (p. 122).
Qui l’evento e il Video dell’incontro al CMC
https://www.centroculturaledimilano.it/il-padre-laddio-il-luogo-dario-voltolini-e-lultimo-romanzo/