La miglior difesa è l’UE

Cosa sta accadendo nel mondo? Comprendere questo è un passaggio fondamentale per uscire dall’angolo delle logiche irrealistiche. Ed è nell’orizzonte di tale apertura di conoscenza che il tema della difesa europea va inquadrato. Muovendo dalla fotografia scattata da papa Francesco a proposito del cambiamento d’epoca. «Dobbiamo capire di quali strumenti l’Europa si è dotata per affrontare questa circostanza storica. Il primo e più importante è l’Unione Europea. Perciò, rispondendo alla domanda sulla difesa, oggi siamo chiamati a capire se ha ancora senso il progetto politico che chiamiamo Europa unita». Dialogo a tutto campo con Mario Mauro, già ministro della difesa, a lungo vicepresidente del Parlamento Europeo, poi senatore.


28 marzo 2025
Uscita di sicurezza
Conversazione con Mario Mauro a cura di Nicola Varcasia

 In Europa doveva essere la legislatura del Green Deal. Della transizione economica, ambientale e sociale riveduta e corretta. Invece, i prossimi cinque anni della seconda Commissione guidata da Ursula von der Leyen – quindi i nostri – saranno probabilmente ricordati per la difesa e il riarmo. Come mai questo cambiamento di prospettiva? Le guerre non esistevano anche prima? Ne parliamo con Mario Mauro, già ministro della difesa, a lungo vicepresidente del Parlamento Europeo, poi senatore.

È stato davvero un fulmine a ciel sereno?
Per capire quello che sta succedendo adesso, bisogna capire quello sta accadendo nel mondo. E lo spunto più interessante da cui partire è una frase del magistero di Francesco. Non mi riferisco tanto a quella sulla Terza Guerra Mondiale a pezzi, a cui ci ha abituato il sistema mediatico, che pure è importante.

In che senso?
Quella è una constatazione giustissima, anzi, inoppugnabile, fatta nel 2014 in anticipo rispetto ai tempi. A cavallo tra il 2011 e il 2013, quando sembrava che la storia avesse quasi sciolto i nodi prodotti dalle accelerazioni di inizio secolo – come la guerra asimmetrica contro il terrorismo internazionale di matrice jihadista – i cattolici nel mondo, ossia quella sofisticata rete diplomatica della Santa Sede a capo della quale c’è proprio il Papa, sono stati quell’antenna sensibile che percepiva ben lontana la fine dei conflitti.

Qualcosa covava sotto la cenere.
Iniziava a verificarsi quello che oggi è stato fotografato anche nel recente discorso del presidente Mattarella al corpo diplomatico e cioè che in questo momento nel mondo ci sono 56 conflitti. Guerre che, pur con una motivazione regionale, servono alle grandi potenze per lanciare messaggi precisi, parlando a nuora perché suocera intenda.

Cosa ci suggerisce questo?
Qui vorrei rifarmi all’altro passaggio del magistero di Francesco, meno citato a livello internazionale, ma decisivo, sul fatto che noi oggi non viviamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca: il tema della difesa europea va inquadrato in questo giudizio del Papa.

Perché?
Ci aiuta a rispondere alla domanda più importante sul cosiddetto post Yalta. Gli accordi tra i vincitori della Guerra oggi non tengono più. Quel mondo è passato e un altro si è sostituito ad esso. Nel 1945 non comparivano Cina e India. E nemmeno il Sudafrica, il Brasile, o la Turchia così come la conosciamo oggi, con la pretesa di proiezione in chiave neo-ottomana di Erdogan. Non c’era l’istanza egemonica dei sauditi nel Golfo e neanche quella iraniana, egemonica fino alle propaggini del Mediterraneo.

Eccetto gli Stati Uniti, anche i Paesi vincitori si sono trasformati.
Infatti, quando implode il sistema sovietico, gli Usa rimangono per un po’ padroni del campo. Profonde trasformazioni hanno invece subito Francia e Inghilterra, che non sono più gli imperi di allora, ma le nazioni di oggi. In un mondo che contava due miliardi e mezzo di abitanti, i 500 milioni di europei rappresentavano un quinto della popolazione totale. Oggi gli abitanti sono 7 miliardi e 800 milioni, ma gli europei sono sempre gli stessi.

È in questa prospettiva che dobbiamo chiederci se l’Europa è attrezzata per preservare la propria sicurezza e garantire la prosperità dei cittadini?
Dobbiamo capire di quali strumenti l’Europa si è dotata per affrontare questa circostanza storica. Il primo e più importante è l’Unione Europea. Perciò, rispondendo alla domanda sulla difesa, oggi siamo chiamati a capire se ha ancora senso il progetto politico che chiamiamo Europa unita. Ed ecco perché non ha ragion d’essere un approccio che immagini di far derivare la difesa europea come l’ultimo atto, quando tutti i passaggi dell’integrazione – politica, economica e ideale – saranno compiuti.

Schuman De Gasperi Adenauer

Perché non è corretto?
È una giusta aspirazione politica, ma non è il metodo dei padri fondatori, che si sono rimessi insieme a partire dalla produzione comune di carbone e acciaio, cioè l’elemento che innescava la logica dei conflitti tra Francia e Germania. Un metodo induttivo, cominciato con la gestione di un elemento concreto nell’alveo di una finalità più grande.

Ma sulla difesa può esserci un interesse veramente comune da cui partire?
A me non preoccupa che oggi i paesi europei puntino a migliorare le condizioni del proprio sistema di difesa partendo dai bilanci nazionali. Mi preoccupa solo che lo facciano continuando a mirare all’integrazione europea. Solo questo potrebbe diventare pericoloso e darci, alla fine del percorso, non la difesa europea ma, per esempio, il riarmo tedesco.

Come mirare all’integrazione europea in questo campo?
Il passaggio alla difesa europea è nelle mani dei governi degli stati, che la possono attivare nell’ambito del Consiglio europeo con una decisione all’unanimità tra i 27 governi. All’Unione, come è noto, manca il requisito della statualità. Ed è la stessa ragione per cui l’Europa non vota le risoluzioni dell’Onu. 

Che cosa è possibile fare?
Come accade nella Nato, è possibile per i Paesi europei coordinarsi di più, dotandosi di maggiori capacità militari, con lo scopo di dare più garanzie di sicurezza ai cittadini. In questo momento così delicato è importante che questo processo non diventi un semplice utilizzo di denaro per riarmarsi, ma veicoli una leadership politica connotata da una chiarezza di visione.

L’Italia come si muoverà in questo contesto?
Al netto delle diatribe di casa nostra, non c’è un solo governo italiano che, al momento del dunque, quando si è trattato di disporsi a una maggiore integrazione europea, si sia tirato indietro. Perfino il breve governo cosiddetto giallo-verde, che portava sulla scena partiti di impostazione non tradizionale.

È un inaspettato fattore di unità nella politica italiana.
Se c’è una cosa che unisce il mondo politico italiano, anche quello più apparentemente contrario all’Europa, non è un rigetto viscerale dell’ipotesi di integrazione europea ma, piuttosto, le sue modalità di attuazione sulle cui formule, evidentemente, può esserci molta distanza. Tutti in fondo riconoscono che sarebbe un bene se l’Europa fosse qualcosa in più di ciò che è adesso. Ed è un buon auspicio rispetto ai passi che ci attendono.

Come si arriva a un’integrazione europea nella difesa?
Bisogna continuare a fare esattamente quello che si sta facendo, il famoso libro bianco ne è un esempio. Coordinarsi maggiormente, evitando che ogni paese costruisca i suoi sistemi d’arma. Il primo passo dell’integrazione è avere standard comuni, come accade per i principali competitor internazionali. Ma questo è esattamente il metodo che l’Unione europea ha già applicato nel campo dell’agricoltura, delle produzioni industriali, dei trasporti e delle infrastrutture. 

Ci sono segnali positivi?
In questa nascente integrazione nel settore della difesa, l’Europa sembra avere una certa capacità attrattiva. Ad esempio, nei confronti del più riottoso tra i partecipanti alla storia europea, il Regno Unito, tornato persino a sollecitare e a trainare. Le intemperanze della presidenza Trump stanno avvicinando anche il Canada, quasi in chiave di ventottesimo Stato dell’Unione Europea, invece che di cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti. Senza dimenticare la Turchia.

L’Europa attraente?
Lungi dall’essere morto, il progetto politico che chiamiamo Europa unita potrebbe avere ancora qualcosa da dire. Solo così, d’altra parte, riusciamo forse a spiegare la più difficile delle affermazioni sulla difesa europea, che è proprio di De Gasperi, il quale scriveva testualmente: «Non abbiamo bisogno solo della pace tra noi, ma di costruire una difesa comune». E ancora: «Non si tratta di minacciare o conquistare, ma di scoraggiare qualsiasi attacco dall’esterno, spinto dall’odio contro un’Europa unita».

Eppure, lo scetticismo sul Vecchio Continente sembra dominare.
Il parere di molti opinionisti è che l’Europa non conti niente. Il principio dell’unanimità e la mancanza del voto alle Nazioni Unite sembrerebbero confermarlo. Ma se veramente è così irrilevante, se davvero non esiste il famoso numero di Kissinger per chiamare l’Europa, perché Trump insiste nel dire che l’Unione europea è una creatura pensata e fatta per fregare gli Stati Uniti? Perché nelle preoccupazioni del leader della potenza più grande del mondo non c’è il timore per quello che possono fare la Cina o la Russia, quest’ultima ridotta alle relazioni tra Trump e Putin, visto quasi come il compagno di gioco che ogni tanto fa qualche marachella, ma solo perché provocato?

È un bel paradosso.
L’Europa è forte innanzitutto per la sua potenzialità, che gli attori internazionali capiscono più degli europei stessi. Cina, Stati Uniti e India temono l’Europa. Certo, l’unità tra popoli e nazioni che hanno avuto una storia di guerra e di relazioni difficili e parlano lingue diverse è faticosa. Ma parliamo anche di popoli e nazioni che più di altri avuto una comunanza di storia e hanno condiviso i cambiamenti profondi dell’umanità. Questi popoli devono rispondere a una domanda semplicissima.

Se è più conveniente stare insieme o dividersi?
Nel momento in cui rispondono a questa domanda si assoggettano alla logica del richiamo di De Gasperi e quindi possono ritrovarsi sul più ardito ma anche più ragionevole dei passaggi, realizzare una difesa comune. Questo passaggio serve anche per smentire un altro luogo comune, cioè che chi vuole una difesa comune sia un guerrafondaio.

Non è così?
Qualcuno allora dovrebbe spiegare perché tre guerrafondai come Adenauer, Schumann, De Gasperi siano anche destinatari, ognuno per ragioni diverse, di un processo diocesano che mira alla loro beatificazione.

Sarà sufficiente la rinnovata celerità delle istituzioni europee?
Non lo sappiamo. La guerra russa è in piena attività produttiva e nessuno dei nodi tra le altre grandi potenze è stato risolto, in primis quello tra americani e cinesi.Non tutti gli Stati sono d’accordo, lo sappiamo ma, nelle interlocuzioni con Trump, i Paesi membri devono trovare la forza e la libertà di ricordargli che alcune questioni noi europei le affrontiamo insieme, in un altro tavolo. L’Italia conterà grazie ai buoni rapporti del governo con l’amministrazione americana.

Kyiv, omaggio in piazza Maidan dei soldati morti sul fronte (foto Sir)

Forse ci siamo un po’ persi nelle polemiche sul manifesto di Ventotene.
Dobbiamo dare il beneficio al testo di Ventotene di un minimo di storicismo, collocandolo nelle percezioni del tempo. Detto questo, la formulazione del progetto politico che chiamiamo Unione europea, più che a Ventotene, la riconduco alla formulazione dei cosiddetti padri fondatori, che sono quelli e non altri. Però è giusto ricordare che questi due filoni culturali hanno sempre collaborato nella costruzione europea e oggi hanno il fondamentale dovere di integrarsi reciprocamente. L’uno ha immaginato che il motore dell’Europa unita fosse il dirigismo rivoluzionario. L’altro invece ha pensato che fosse la profondità delle radici, l’identità culturale. L’errore sarebbe voler escludere qualcuno, come è stato fatto con l’accordo non scritto che ha tenuto lontano dalla partecipazione al processo di interrogazione una parte significativa delle destre europee. Ma un errore altrettanto grave sarebbe pensare di rovesciare il tavolo oggi, escludendo coloro che, non solo in chiave socialdemocratica, sono parte della nostra esperienza culturale e politica.