L’educazione antidoto all’identitarismo che sfregia le identità
L’Europa, nel suo fianco est, è in rotta di collisione. Adesso è la Serbia dei giovani in fibrillazione. La frantumazione dell’Unione Sovietica ha prodotto la nascita e la rinascita di stati–nazione a forte matrice identitaria. Ma si tratta di una malintesa concezione dell’identità. Un castello di rabbia dove l’io è rattrappito, impaurito, ingessato, ostile al mondo. L’ideologia identitaria come tutte le ideologie, vecchie e nuove, alza steccati, divide. Come aveva intuito il grande Václav Havel. La via d’uscita da questo madornale scarabocchio? Il recupero dell’essenziale. Ovvero, quel pilastro che si chiama educazione. Che, per tutta la vita, don Luigi Giussani ha richiamato a coltivarlo e a frequentarlo con passione.
28 marzo 2025
Editoriale

In questi giorni la Serbia è in fibrillazione. Il 15 marzo nella capitale Belgrado si è svolta un’imponente manifestazione di protesta contro la corruzione e la mancanza di trasparenza del governo. Il più vistoso gesto di popolo – acceso in primo luogo dall’intraprendenza degli studenti universitari che nei mesi precedenti hanno animato la discussione e provocato il regime – della storia di quel giovane Paese nato sulle ceneri di una terribile guerra tra realtà che componevano la federazione jugoslava, con pulizia etnica e genocidi; durata, nella sua fase più tragica, quattro anni e conclusasi con gli accordi di Dayton del novembre di esattamente trent’anni fa.
Anche quest’ultima vicenda che sta scuotendo la Serbia (la situazione è in continuo divenire) come dei continui arresti in Turchia degli oppositori di Erdogan, ci dice che questione della democrazia che poi è saldamente connessa al gigantesco tema della libertà – non vi può essere democrazia in assenza di libertà – è oggi il tema più attuale e controverso. E nel fianco est del corpo Europa, ma non solo, è una spina nel fianco che fa molto male.

Il monito di Václav Havel
L’Europa orientale post-disfacimento dell’Unione Sovietica ha prodotto la nascita e la rinascita di quegli stati–nazione costretti dai regimi del socialismo reale a stare insieme e per lunghi anni con la forza. Un vero e proprio castello di sabbia (o di rabbia?) nato sul progetto totalitario di reprimere le identità ed annullare la memoria. Tuttavia la legittima aspirazione a riscoprire il gusto per la libertà negata ha dato forma a realtà allestite su una concezione di identità più oppositiva che propositiva. Più sospettosa e chiusa verso il mondo, più ingessata che libera di mostrare il volto nobile del desiderio di libertà e democrazia per troppo tempo trafugato. Vaclav Havel, l’uomo e il politico protagonista di pagine di storia fondamentali relative al risveglio dell’ex Cecoslovacchia, colse per tempo la natura profonda del problema che vi stava emergendo, cioè il dipanarsi emotivo e strumentale della progressiva affermazione di una malintesa concezione di identità. Lo strappo che porterà alla nascita della Slovacchia ha proprio in quella fissità, nell’idea astratta di libertà che si perde per strada l’io, nell’identitarismo quale sfondo e affondo ideologico e dunque risposta impaurita a qualsiasi manifestazione di alterità, i nodi irrisolti perché messi su ben stretti. Tali premesse e promesse reattive non potevano che sfociare nel sorgere di nuovi o nella riproposizione di stati – nazione difettati all’origine.

Ciò che è contro la libertà della persona
L’Europa orientale di oggi è una fotografia “mossa”. Che, evidentemente, tocca il presente e il destino di tutto il Continente. In primis dell’Unione Europea. Se il corpo è unico la spina nel fianco est reca dolore dappertutto. E la spina nel fianco dell’identitarismo, come vediamo, è ferita che si sta vieppiù diffondendo. Si vanno affermando realtà dove l’umano si va spegnendo. È come se l’umano fosse sottratto a sé stesso. Viviamo la menzogna di un integralismo valoriale che è contro la libertà della persona, contro la verità dell’io, contro la comunità che è movimento ideale. Perché, altrimenti, non è comunità, non è popolo, è qualcosa d’altro. Ma qualcosa d’altro che inquieta e perciò interroga.
L’ideologia identitaria sta facendo fuori l’identità. Ma dall’uomo senza identità non può che venirne un di meno di libertà, una parcellizzazione della democrazia, uno svuotamento di cultura. Tale deficit chiama in causa il punto che ha determinato l’allargamento della faglia: l’aver messo all’indice l’educazione per assecondare l’idolo di turno, il pensiero unico nelle sue molteplici diramazioni. Infatti, questo è un tempo di grande maleducazione. Don Giussani, davanti alle profondità delle crisi (ci sono sempre state seppur a diversa temperatura), suggeriva di tornare a prendere in considerazione l’essenziale. Ma, si badi bene, inteso come un ritorno… in avanti. Quell’essenziale si chiama educazione. L’educazione che è lo spartiacque che rende umano l’umano. Diceva il prete ambrosiano: “Educare è proporre una risposta a una domanda che vivi tu”. Come non sentire un’eco in Havel che negli ultimi anni ripeteva “Al totalitarismo si resiste soltanto se si sceglie di scacciarlo dalla propria anima”.
Parole che soffiano libertà, ristoratrici, che ti aprono e aprono. Nulla di meccanico, tutto profondamente ragionevole ed affascinante. Da scoprire e riscoprire.

Il linguaggio violento porta all’uso della violenza
In questo cono di luce, l’identità non è uno scudo ma una curiosità educata a mettersi in gioco a fin di bene. È rischioso spendersi così? Comporta dei rischi. Ma fuori da questa prospettiva liberante e dialogante in campo aperto, finanche avverso, il rischio è quello di essere segnati nel quotidiano da una mentalità arroccata.
La mentalità arroccata genera conflitti permanenti. Il cardinale Pierluigi Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, nei giorni scorsi ha detto all’intervistatore del “Corriere della Sera” che adesso in Terra Santa “non c’è nessun dialogo, né fiducia, manca un’idea del dopo”. E ha aggiunto: “Uno degli aspetti fondanti della guerra, non solo di questa ma di tutte le guerre, è il linguaggio violento. Un linguaggio di disprezzo, di rifiuto dell’altro, che inizia sempre prima della guerra e ne è una premessa. Il linguaggio violento porta a una mentalità violenta e infine all’uso della violenza”. A proposito di mondo maleducato che si prende a male parole, annichilito dall’identitarismo e altri integralismi.
In questo periodo apprendiamo che i potenti della terra parlano molto al telefono. Ma non è che, ascoltandoli, ascoltando il linguaggio che usano, maleducati come sono, piange il telefono?