Inculturare il Vangelo nel cambiamento d’epoca 

In occasione dell’Anno giubilare dedicato alla speranza il cardinale José Tolentino De Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, teologo portoghese e poeta di riconosciuto talento, ha voluto incontrare delegazioni di centri culturali cattolici giunti in Vaticano da tutto il mondo. E in spirito collaborativo con la Chiesa, li ha invitati ad agire come Paolo di Tarso; “Come artigiani della speranza, l’esempio di Paolo all’Areopago di Atene continua a ispirarci: dobbiamo spiegare a tutti che il ‘Dio ignoto’ (At 17, 28) è in definitiva il vero ‘Dio della speranza’ (Rm 15,13)”.


28 febbraio 2025
La sfida della speranza
di Camillo Fornasieri

Il Cardinale Josè Mendonca Tolentino Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione

Sentir riecheggiare, non come parola d’ordine, ma come sfida incarnata nel presente, che la cultura è speranza, è una buona e lieta notizia. Specie in questo frangente della Storia così aggredito da logiche di sopraffazione e negazione della verità.
Il richiamo, raffigurato dal calore dell’abbraccio materno, viene dalla Chiesa nell’anno giubilare indetto da papa Francesco e incentrato, per l’appunto, sulla virtù della speranza.
Il cardinale José Tolentino De Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, teologo portoghese e poeta di riconosciuto talento per il suo disinteresse verso quella poesia che frequenta i territori della purezza così affine al bel mondo; privilegiando, piuttosto, la poesia dei sentieri accidentati, quelli propriamente impuri che, ovviamente, il bel mondo scansa con neppure malcelato fastidio. Si può dire che Tolentino De Mendonça sia, in tal senso, un artigiano della parola che gli è stata affidata. Un artigiano che batte il ferro finché caldo, che vive la cultura come speranza. Ecco perché, forse, ha inteso intitolare l’incontro – avvenuto qualche giorno fa – con una quarantina di centri culturali (tra cui il Centro Culturale di Milano e l’Associazione italiana centri culturali) provenienti in Vaticano da tutto il mondo “Artisans of hope”.  Un’occasione di dialogo importante perché assai urgente nel contenuto: ricollocare al centro della scena, cioè della realtà viva, il rapporto imprescindibile tra fede e cultura.  

A cosa servono i centri culturali

Il cardinale è andato dritto al punto: “A che servono i centri culturali? E perché la Chiesa ne ha bisogno? Perché è necessario anche nella nostra epoca inculturare il Vangelo”. Inculturare il Vangelo è un lavoro di precisione missionaria. E ai delegati dei centri culturali il Prefetto ha spiegato che “vi chiamiamo artigiani perché al contrario del modello industriale, meccanico e massificato, l’artigiano lavora i fili del Vangelo nel tessuto della vita quotidiana”. In gioco, perciò, non ci sono modelli da appiccicare alla realtà di tutti i giorni. Il tessuto della vita quotidiana non ne ha bisogno. Ci vuole altro affinché l’artigiano della cultura riesca a suscitare interesse, a proporre gesti culturali che suscitino interesse, appassionino l’uomo. Perché la persona umana ha bisogno di cultura per trovare una sua piena realizzazione.

L’occasione dei mutamenti culturali

Papa Paolo VI con l’enciclica “Evangelii Nuntiandi” (esce nel 1975) veicola con decisione il concetto di evangelizzazione della cultura. Lo fa per offrire una risposta propositiva all’evidenza di una dolorosa frattura, quella tra cultura e fede. È un’epoca tempestosa, quella. Squassata da esplosioni eruttive confuse che producono per lo più lacerazioni di tipo ideologico laddove la fede viene messa sbrigativamente alla porta, in quanto ritenuta inadeguata, vecchia.
Tuttavia i mutamenti culturali, anche quelli più virulenti, non possono comunque non interpellare la Chiesa: se la cultura è nella vita, la fede, l’annuncio di Cristo, non può in alcun modo defilarsi. E se di dolorosa frattura tra cultura e fede si tratta, tale accadimento non può essere una ingessatura definitiva.
Una Chiesa ingessata è l’abbandono della speranza. Dunque: via il gesso e bagno continuo di realtà. Ecco perché nel 1995, papa Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, afferma che i centri culturali cattolici (eccoli già gli artigiani!) “offrono alla Chiesa singolari possibilità di presenza e di azione nel campo dei mutamenti culturali.
Mutamenti che non si interrompono mai. Le interruzioni dalla realtà sono un corto circuito di umanità. Ha chiarito perciò il cardinale Tolentino De Mendonça: “Anche noi viviamo in un’epoca di mutamenti costanti. Papa Wojtyla li definiva luoghi di ascolto, rispetto e tolleranza e noi siamo qui per stabilire un dialogo, aperti alla diversità che c’è nella Chiesa”.

Oltre gli interessi e i desideri personali

Stare dentro i mutamenti culturali con chiarezza e cordialità è la grande responsabilità che investe i centri culturali cattolici in quanto artigiani della speranza. E ciò è possibile solo coltivando uno spirito di autentica relazione. Di affidamento alla comunità come luogo sempre acceso. Ha detto ancora il Prefetto: “Nella ‘Evangelii gaudium’ Papa Francesco sostiene che una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali”. Ed ha aggiunto: “I centri culturali cattolici esistono proprio perché, invece, la Chiesa crede nel valore della comunità. Vogliamo un progetto che vada oltre i vantaggi e i desideri individuali. Questa capacità di sognare, di pensare insieme il lavoro culturale è qualcosa che ci sta veramente al cuore”. Ecco il valore della comunità dove la Chiesa è il perno di realtà che sanno fare rete in forza di uno spirito creativo, baldanzoso, amante del bello perché vero e del vero perché bello”.

La sfida su terreni sconnessi

In giro c’è troppa solitudine, i dispositivi elettronici la fanno da padrone, il mal essere è un dramma che fa male. Le nostre città sembrano prigioniere dell’assenza di vivere e, in modo particolare, le giovani generazioni faticano anche solo a parlarsi, a dirsi qualcosa di elementare ma fondamentale. Che abbia il sapore di un progetto.
I centri culturali cattolici possono servire per offrire una chance di incontro. La speranza che questi incontri possano accadere sta in un fatto: la cultura è speranza oppure non è. Questo Giubileo è allora l’occasione per farci i conti e rilanciare la sfida sui terreni sconnessi, quelli dove la poesia germoglia, come testimonia la creatività del poeta Tolentino De Mendonça. Che, nel suo intervento, ha concluso con queste parole che sono un bel toccasana: “Infine, i Padri della Chiesa, che ci hanno fornito l’alfabeto teologico, si dividevano in tre atteggiamenti nel loro approccio alla cultura: polemico, smascherando gli errori della cultura pagana e condannandola; missionario, utilizzando la cultura pagana come ponte per annunciare il messaggio cristiano; teocentrico, tutto ciò che è buono e compatibile con la dottrina cristiana deve essere utilizzato come fonte teologica, poiché Dio è il creatore di tutte le cose. Per questo motivo i Padri si sono avvicinati alla cultura, attraverso la categoria della ‘chrȇsis’ (retto uso), discernendo gli elementi di questa relazione, sia imprimendo l’estetica cristiana nell’humanitas della cultura classica, sia traendone elementi per la loro riflessione. Come artigiani della speranza, l’esempio di Paolo all’Areopago di Atene continua a ispirarci: dobbiamo spiegare a tutti che il ‘Dio ignoto’ (At 17, 28) è in definitiva il vero ‘Dio della speranza’ (Rm 15,13)”.