La stanchezza, il riposo e la sindrome delle balene spiaggiate
Perché non conviene dimenticare in tutta fretta la riflessione dell’Arcivescovo di Milano Mario Delpini. Quello di Sua Eccellenza è stato un discorso denso, provocante, diretto. Con il suo appello al riposo di fronte alla stanchezza, non solo fisica, delle persone. A partire da quelle incisive e per nulla accomodanti parole un dialogo a tutto campo con il professor Mauro Magatti
17 gennaio 2024
La buona domenica
Conversazione con Mauro Magatti a cura di Nicola Varcasia

È già passato oltre un mese dal Discorso alla città dell’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini. Che cosa è rimasto in noi del suo appello al «riposo» di fronte alla stanchezza della gente, della terra e della città? Per non lasciare cadere l’incisiva questione (il rischio è notevole!) ne abbiamo parlato con Mauro Magatti, professore all’Università Cattolica del Sacro Cuore, sociologo e scrittore. Da sempre impegnato su questi fronti, nella prospettiva della generatività o, come spiega nel libro scritto con la sociologa Chiara Giaccardi (anche lei docente nello stesso ateneo) della “Generalibertà” (Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo, Il Mulino, 2023).
Professor Magatti, da dove nasce questa stanchezza?
Qualche anno fa il filosofo coreano Byung-chul Han aveva usato l’espressione della società della stanchezza, legata all’eccesso che caratterizza il nostro modello di vita sociale.
Quale eccesso?
Oggi è tutto “troppo”: abbiamo troppe informazioni, troppa mobilità, troppe opportunità in generale. Da una parte, il sistema tecno-economico, sempre più efficiente e pervasivo, crea nuove possibilità, connessioni e relazioni. Dall’altra, il soggetto, l’individuo, a cui è stato detto di realizzarsi, desiderare, godere, è rimasto solo. Questa combinazione genera un’accelerazione e un eccesso generalizzati. Da ciò deriva quel senso di stanchezza che è stato opportunamente ripreso dall’arcivescovo.
Che cosa succede se ci si ferma?
Quando si viene espulsi dal sistema, perché malati, anziani o comunque marginali, improvvisamente si cade nell’immobilità assoluta, in una specie di stasi. Abbiamo paura del vuoto. Siamo talmente pieni da lamentarci di questo troppo ma, nello stesso tempo, quando qualcosa si ferma, tendiamo a finire all’estremo opposto di uno stato semi depressivo.

Opposto allo stato semi depressivo, invece, il discorso dell’arcivescovo proseguiva con un grande richiamo allo sguardo contemplativo: «L’unico in grado di imprimere alla realtà umana, sociale e politica una direzione che componga aspetti vitali che si presentano in termini conflittuali».
Quello sguardo contemplativo è esattamente ciò che oggi è sparito. L’idea della domenica, dell’interruzione collettiva della corsa, è molto antica e non per sbaglio. Gli antichi avevano capito che c’è bisogno di far riposare la terra, il corpo e la mente. Senza uno spazio collettivo, però, è difficile che questo sguardo emerga. Nelle nostre giornate convulse, che non hanno limite, dove si lavora per turni e anche nel tempo libero bisogna “performare” facendo sempre delle cose meravigliose, questo spazio è stato espulso. Anche il periodo natalizio è sempre meno una vera interruzione se passiamo dal codice del lavoro al codice del consumo.
Non basta allenarsi?
Non è solo un fatto individuale, che si recupera con lo yoga o altre pratiche orientaleggianti alla moda. Dovremmo riprendere consapevolezza di questa antica parola della Bibbia, comprendere che l’alternanza tra l’otium e il negotium, tra il feriale e il festivo, è sana, rigenera noi come persone, la nostra creatività e la comunità.
Ma non è fondamentale il voler aumentare le possibilità di vita per ogni singolo individuo?
L’idea in sé per sé è giusta ma, quando viene estremizzata, radicalizzata, porta a esiti problematici. In questo caso stiamo parlando non solo della perdita dello sguardo contemplativo ma, più in generale, del senso religioso.
È anche un problema dei media? A Delpini sono bastate poche righe sulla gente «stanca di quella comunicazione che raccoglie la spazzatura della vita e le esibisce come se fosse la vita» per definire il quadro.
In proposito, mi viene da citare “Il tutto è falso”, la canzone di Giorgio Gaber. La cantava 25 anni fa, prima dei social e aveva già dentro tutto. Molto faticosamente, stiamo cercando di comprendere la questione dell’ecologia ambientale, cioè la dimensione ecologica della vita da considerare in rapporto con la natura. Ma siamo all’anno zero rispetto alla questione dell’ecologia dell’ambiente comunicativo.

Un’altra faccia del “troppo”?
Il risultato dell’idea per cui più cose circolano – nel senso di informazioni e contenuti – e meglio è la rappresentazione di un grande inquinamento comunicativo. Chiaramente, non possiamo né vogliamo immaginare di tornare alla censura, ma la domanda deve essere posta. Siamo come delle balene spiaggiate: non si sa il perché ma, a un certo punto, si disorientano e perdono le rotte. L’eccesso comunicativo provoca il disorientamento.
Come si riprende il largo?
L’unico antidoto che io conosco, anche per non finire tutto il giorno davanti alla televisione o sui social, è quello di infittire il tessuto dei legami, delle reti associative, partecipative e familiari. La partecipazione, l’impegno e l’ingaggio aiutano il singolo individuo a gestire la ricchezza comunicativa che, altrimenti, si trasforma in un problema.
Guardando a Milano, gli episodi – sia pur in fase di accertamento – di molestie contro le donne dell’ultimo dell’anno in piazza Duomo sembrano un eterno ritorno dell’uguale, che è l’esatto contrario del riposo.
Viviamo in un’epoca strana, in cui, per ragioni che in fondo conosciamo anche abbastanza bene, siamo portati a ritenere che tutte le questioni sulla vita sociale siano riconducibili a regole, istituzioni e misure di sicurezza. Penso ci sia una nota implicita nella nostra cultura, per cui non si può chiedere niente a nessuno.
In che senso?
Qualunque discorso che faccia appello e lavori per un approccio che fa leva sulla capacità dell’umano di essere un attore consapevole della tessitura della vita sociale, ormai, non c’è più. E io trovo che questo sia un costo. Certi episodi accadono, vanno combattuti, è naturale, ma riguardano pur sempre delle minoranze. Però ci fanno capire che siamo di fronte a una disattivazione della soggettività, per cui è sempre colpa della polizia che non aveva rinforzato il cordone di sicurezza, di qualcun altro, di qualcos’altro. È come se la nostra corresponsabilità di esseri umani fosse ormai un argomento che non ci interessa più.
È una questione che va oltre ai fatti di cronaca?
Credo sia un grande problema delle nostre società e che passa, ad esempio, dallo svuotamento della scuola. Non può dire più nulla di nulla perché, se dice qualunque cosa, è come se volesse imporre un punto di vista. Le stesse famiglie, soprattutto quelle più fragili, una volta erano aiutate almeno un po’ dai contesti tradizionali, popolari o religiosi. Oggi, invece, sono scorticate, stanno in mezzo.

È chiaro che se si creano tante e diverse fragilità e a un certo punto diventa impossibile gestirle tutte.
Da qui nasce il tema del senso di sicurezza. Si chiede più polizia o di mandare via gli stranieri. Sono tutti problemi seri. Ma, per dirla con una battuta semplice, la sicurezza alla fine siamo noi. Certo, ci sono delle cose che devono essere gestite, il problema della sicurezza è rilevante per Milano, che pure resta una città molto civica e solidale con tante realtà ben organizzate. Perciò, senza cedere a una rappresentazione distruttiva, che lo stesso arcivescovo ritiene sbagliata, questi problemi meriterebbero di essere riconsiderati.
Non bisogna tornare a proporre, senza paura o moralismi, il tema del senso?
A partire dagli Anni ’70, uno dei pilastri di questa epoca storica è stato la liberalizzazione del senso. Da molti punti di vista, è un traguardo importante. Lo vediamo bene nei contesti dove oggi il senso è obbligatorio, pensiamo all’Iran. Però non è sufficiente fermarsi a questo. Soprattutto nella nostra società, descritta all’inizio, dove siamo sopraffatti da questo troppo, la teorica responsabilità individuale di costruire un senso affonda.
Perché?
Il senso è saper mettersi in relazione con la realtà, con chi ci precede e chi verrà dopo. Un’operazione molto difficile oggi: siamo passati da una liberalizzazione a una evaporazione del senso. È talmente intenso il ritmo degli stimoli di varia natura e genere a cui veniamo sottoposti, che non c’è lo spazio per far emergere la questione e in molti non se la pongono più. Più si accelera e più la questione del senso sfugge e ci si trova stanchi.
Il senso è anche un riduttore della complessità?
Certamente, costruire qualcosa nella vita con un senso – mettendosi in relazione agli altri, al mondo, al gruppo a cui si appartiene – aiuta a decidere che non tutto ciò che passa davanti al naso meriti di essere inseguito. Il senso aiuta a dare forma anche all’affezione: a che cosa voglio bene? Perché faccio una certa cosa? Tutta la riflessione sulla generatività sociale svolta in questi anni ha a che fare con questo. È il filo della propria esistenza in rapporto agli altri che aiuta a non essere sommersi da tutto questo troppo in cui siamo immersi.