Reportage Palestina, un altro Natale in tempo di guerra
Le conseguenze del terribile conflitto sono appena iniziate. Non c’è accordo, non c’è tregua che basti a consolare i cuori di chi è rimasto. Una cosa è certa: la retorica delle armi ha stancato. Le voci della gente normale domandano la pace, la fine della traversata del deserto, per una Terra da tempo sofferente. Che ha vissuto un altro Natale di paura, solitudine, silenzi forzati, assenza di pellegrini. Senza alcuna esperienza pubblica della gioia. Reportage, nei giorni delle sempre attese celebrazioni sacre, dai luoghi dove è nato Gesù
17 gennaio 2024
Tra la gente
di Andrea Avveduto

Ci sono giorni, a Betlemme, dove è difficile camminare. Di solito accade quando la piazza della mangiatoia è piena di gente, e la coda per entrare nella Basilica della Natività può durare anche qualche ora. Giorni che fanno la felicità dei commercianti palestinesi e degli albergatori, come pure di tutti quelli che lavorano nel turismo. Questi giorni sono il 24 dicembre e il 6 gennaio, rispettivamente le vigilie del Natale cattolico e di quello ortodosso. Secondo un copione immutabile, i leader religiosi fanno il loro ingresso solenne in Basilica partendo dal monastero di Mar Elias, poco fuori la città che vide la nascita di Gesù.
Per questa occasione il muro si apre nei pressi della tomba di Rachele, e anche l’immutabile barriera di separazione sembra cadere, per un istante, davanti alla novità che sta arrivare. La folla di fedeli locali e i pellegrini seguono il lento corteo che dà l’inizio alle festività natalizie. L’albero di Natale in piazza illumina i suq della città vecchia e i tamburi degli scout accompagnano la marcia di patriarchi, frati, sacerdoti e fedeli. È la festa di Betlemme, dove – si dice – è sempre Natale. Ma qualche volta lo è un po’ di più.
Tutto chiuso e la piazza della mangiatoia si svuota in un attimo
Chi è stato in quei luoghi sa cosa vuol dire passare il Natale in Terra Santa. Coi suoi colori e la sua gioia, la vita e la sensazione che si ha per qualche istante di dimenticare le tante difficoltà che abitano la Palestina. Per questo ha del surreale vedere il giorno dell’Epifania la piazza deserta e la Basilica vuota. Il copione si ripete, identico, come sempre. Ma ad attendere il patriarca ortodosso, questa volta, non ci sono le folle di pellegrini e i tanti turisti con le macchine fotografiche. I pochi monaci, e un piccolo gruppo di fedeli ortodossi, accennano a dei sorrisi carichi di mestizia. In piazza l’albero non è stato allestito, e la cerimonia di rito si svolge con una sobrietà austera. Poco chiasso, niente tamburi. Il minimo indispensabile. I negozietti rimangono chiusi, perché non ci sono turisti, non ci sono clienti. Un ragazzo osserva annoiato la scena. Solo pochi minuti, poi torna dai suoi amici. La piazza della mangiatoia si svuota in fretta. Betlemme ci accoglie così. È il Natale in tempo di guerra. Per il secondo anno di fila. “Pensa che questo dovrebbe essere il periodo migliore per noi“. George vende rosari e oggettini di legno. Ha una piccola bottega, ma ha mandato via tutti gli artigiani. “Guarda intorno, vedi qualche pellegrino? Non ci sono pericoli, ma le persone hanno paura a venire. I problemi politici ci stanno strangolando. Ogni giorno è una battaglia per riuscire a vendere qualcosa“. Indica scaffali pieni di presepi in legno d’ulivo, rosari e candele che gridano in silenzio il loro abbandono. “Un tempo questi oggetti portavano vita alle nostre famiglie, ma ora sono solo polvere da togliere.”

Non ci sono più soldi per sfamare le famiglie
Al Suq le cose non vanno meglio. Si vende frutta e verdura, quei cibi che sono essenziali per sopravvivere. Poco altro. “Molti dei miei clienti abituali non comprano più”. Amina vende alcuni prodotti tipici palestinesi. “Non hanno nemmeno i soldi per sfamare le loro famiglie, figuriamoci per i dolci. Il costo della vita è insopportabile, e la disoccupazione sta distruggendo tutto“. Le difficoltà non si fermano qui. Khaled, un giovane artigiano che crea piccole sculture in madreperla, parla con frustrazione: “I materiali che mi servono non arrivano mai in tempo. Le restrizioni ai confini ci bloccano e ci fanno perdere opportunità. A volte penso di smettere, ma cosa farei altrimenti?”. La voce di Fadia, che produce candele decorate a mano, trema: “Il Natale dovrebbe portare gioia, ma qui porta solo ricordi di ciò che abbiamo perso”.

Tanti sono fuggiti via
Le conseguenze della guerra sono appena iniziate. Non c’è accordo, non c’è tregua che basti a consolare i cuori di chi è rimasto. E tanti, poi, se ne sono già andati. Solo in Israele sono più di 85.000 le persone che hanno lasciato il paese nel 2024. Tanto che per la prima volta, statistiche alla mano, la crescita demografica è pari a zero.
Di notte a Gerusalemme le sirene suonano spesso e volentieri. I missili sono in arrivo dallo Yemen, ma verranno tutti intercettati. Ci si è abituati, e spesso non si va neanche più a rifugiarsi nei bunker sotterranei.
La tensione che si respira in ogni angolo del paese è drammatica. I mitra puntati con cui i soldati ti accolgono ai check point sparsi nel paese sono una novità di questi mesi. “Prima ti puntano il fucile addosso, per non rischiare, e dopo essersi accertati di non trovarsi davanti a delle minacce, lo alzano”. Toni scuote la testa, mentre ci accompagna a visitare Sebastia, cuore della Samaria, un tempo centro fondamentale per tutta la regione e oggi piccolo paese chiuso dagli insediamenti. “Quasi ogni giorno subiamo delle incursioni dai coloni, la situazione è diventata davvero complicata”. A pochi metri da lì si trova l’insediamento di Shave Shomron, tra i più difficili di tutti. Chiuso da alte mura che ne garantiscono la piena sicurezza, abitato da coloni tutti armati. Quasi ogni giorno ingaggiano scontri con i vicini palestinesi. “Oggi siamo stati fortunati, forse perché è sabato, ma domani torneranno”. È una battaglia per conquistare terreno, è lo scontro di chi vede nell’altro un nemico da abbattere, un fastidio da allontanare. La solita guerra che gli israeliani non vinceranno mai e i palestinesi perderanno sempre.

La mattanza del 7 ottobre non ha cancellato tutto
Il Nord del paese è lontano dalle schermaglie militari, ma le cose non vanno necessariamente meglio. Tariq vive a Nazareth, in Galilea, una regione che spesso è stata dipinta per la sua positiva convivenza tra arabi ed ebrei. Ha una buona posizione in un’azienda israeliana di Haifa, e da sempre è a fianco di ebrei israeliani. “Non vedo una soluzione all’orizzonte”. La discussione si sposta subito sul piano politico, ed è qui che emerge l’aspetto più drammatico. “È vero, metà del paese è contro l’attuale primo ministro, ma le accuse che gli vengono rivolte sono solo sulla politica interna, non per quella estera”. Ciò che vuol dire è fin troppo chiaro. “Anche se lo accusano di corruzione, approvano senza nessuna remora quello che stanno facendo ai palestinesi di Gaza”. Mi mostra il cellulare, le chat sul gruppo whatsapp della sua azienda. “Guarda cosa hanno scritto”. I messaggi sono dei suoi colleghi. “Bombardateli tutti”. “Devono morire per quello che hanno fatto”. E così via. Rapporti incrinati, amicizie perse.
Il 7 ottobre ha cancellato molto. Ma non tutto. “Nel Nord ebrei e arabi si incontrano ancora. Ci sono delle esperienze di incontro che sopravvivono. “Un mio amico fa il medico. E’ ebreo e come me vive a Nazareth. Siamo vicini di casa”. Tariq si illumina quando racconta del suo amico. “Ogni sabato con un gruppo di amici medici va a curare i palestinesi che non hanno possibilità di accedere al sistema sanitario. È il suo unico giorno libero, capisci? Lo spende per andare ad aiutare quelli che tutti chiamano nemici!”. Qualcosa di straordinario in questo contesto di guerra. “Non sono molte esperienze di questo tipo, ma nemmeno così poche”. Certo non basteranno a fare la pace tra i due popoli, ma guai a sminuire quello che ha visto. “Non è retorica della pace. Semmai, è la retorica della guerra che ha stancato. Quella che fa credere a tutti che bastano le armi e gli eserciti per arrivare a una soluzione. Ma per questo abbiamo perso già abbastanza tempo, e non siamo mai arrivati da nessuna parte”.