Hans Urs von Balthasar: “Siete la sola cosa in Europa”
Così il grande teologo Hans Urs von Balthasar mentre ascolta racconti di vita di un gruppo di amici che vive l’esperienza cristiana fiorita in quel laboratorio umano, in quel luogo di incontro con la persona di Cristo che è stato il Centro Peguy. Tutto questo all’alba del ’68. La testimonianza piena di gratitudine di uno di quei giovani dopo aver letto l’ultimo libro di don Luigi Giussani “Una rivoluzione di sé. La vita come comunione (1968 – 1970)” per i tipi Rizzoli. «In effetti alla pur legittima domanda ‘Ma, in concreto, voi cosa fate?’ non ho mai ritenuto di poter rispondere con una lista di iniziative. Il Péguy è stato il luogo che ci ha aperto gli occhi su cosa sia una compagnia guidata al destino. E le vite guidate al destino sono lì da guardare, sono la risposta».
18 ottobre 2024
Quelli del Péguy
di Walter Ottolenghi

L’unica cosa in Europa. La seule chose en Europe. Siete la sola cosa in Europa, continuava a ripeterci. Lui era Hans Urs von Balthasar, uno dei maggiori teologi del XX secolo. Il posto era la cascina ristrutturata di Gudo Gambaredo, hinterland meridionale di Milano , la data il marzo 1971. Noi eravamo “quelli del Péguy”, per lo meno quelli che quella sera erano stati chiamati per raccontare al nostro ospite l’esperienza che stavamo vivendo. Una serata assolutamente informale, parlando a ruota libera, a conclusione della giornata in cui il teologo svizzero aveva tenuto una conferenza organizzata dal Centro culturale San Babila su “L’impegno del cristiano nel mondo”.
Von Balthasar, senza tanti giri di parole, ci apriva gli occhi su una realtà di fatto che lui vedeva con un acume e una prospettiva che ancora non eravamo riusciti a mettere a fuoco
(Cfr https://it.clonline.org/news/cultura/2017/10/12/Balthasar+e+Giussani+Quell%27incontro+a+Einsiedeln+) Parole, le sue, che per quanto significative di un riconoscimento non potevano che suscitare un certo sconcerto. Con la gratitudine per il riconoscimento ricevuto rimaneva comunque la constatazione della solitudine. Come trovarsi improvvisamente a traversare un mare o forse un deserto molto più vasto di quanto si fosse immaginato.
La provocazione ricevuta assieme al complimento faceva però più chiarezza su un punto: se “noi” eravamo la “sola cosa” allora era solo con quel “noi” che aveva senso affrontare la traversata. La compagnia con cui il deserto diventa meno deserto e forse la carovana ce la può fare.
Del resto ai mari in burrasca e alle tempeste di sabbia in quegli anni ci eravamo abituati con una certa rapidità. È storia: gli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70 sono stati decisamente turbolenti, di una turbolenza così vasta da non poterla aggirare. Non avevi altra scelta che passarci in mezzo. Molti la esorcizzavano sottovalutandone la portata, altri pensarono di poterla cavalcare. Per qualcuno di questi ultimi fu un modo per mettere le basi di una carriera in diversi settori dove la capacità di influenzare l’orientamento del mercato, pardon, delle masse, sarebbe stata particolarmente apprezzata. Per moltissimi invece, alla fine, lasciò solo un bilancio di delusioni, frustrazioni, un bagaglio di disorientamento con cui non sarebbe stato facile mettere insieme la pars construens della propria vita.
La speranza in una “agape”
Se la nostra speranza era in un “noi” ovvero “la sola cosa”, a questo noi ci si arrivava solo grazie a un cammino di consapevolezza di tanti “io”, un’esaltazione della personalità di ciascuno che trovava nell’altro non solo un riflesso delle sue stesse speranze, ma anche una fonte di scambio delle risorse proprie di ciascuno. Insomma, un’esperienza vera di carità, di “agape”, come chiamavamo alcuni nostri momenti di incontro. Un’esperienza dove l’amore umano e l’amore divino si incrociano e si inseguono. Il “noi” è luogo fisico di questo incrocio, di questo incontro.
Ma come si arrivava al Péguy per chi non era stato tra i suoi fondatori e, se non altro per ragioni di età, non ne aveva una conoscenza diretta e nemmeno sapeva bene cosa ci si facesse? Ero all’ultimo anno di liceo e la sconosciuta casa editrice Jaca Book aveva esordito con la pubblicazione de “Il senso religioso” di don Luigi Giussani, che era stato mio insegnante di religione. Presente nella vita del nostro “raggio”, il primo con cui era iniziata l’esperienza di GS, fino a quando ci aveva lasciati seguendo l’ordine di approfondire i suoi studi negli Stati Uniti. L’uscita di questo breve libro significò molte cose. Intanto ritrovare il contenuto delle lezioni che ci faceva in classe, espresso molto meglio degli appunti che ero riuscito a prendere, e poi, leggendolo, continuare e completare il filo del discorso che si era interrotto alla fine del ’65. Significava anche un’altra cosa: che don Giussani era tornato alla base, anche se, rispettando scrupolosamente le direttive che aveva ricevuto, si teneva a distanza dal mondo delle scuole e, sotto questo aspetto, era sparito dal radar.

Il luogo dell’amicizia
Parlando con amici di qualche anno più grandi venni però a sapere che comunque, in quanto sacerdote della diocesi ambrosiana, poteva pur sempre ricevere chi si rivolgeva a lui alla ricerca di una direzione spirituale. Trovai il modo di procurarmi il suo nuovo numero di telefono e lo chiamai. Il rapporto venne così ripristinato, in modo più libero e personale di prima. Era il periodo in cui stava riallacciando i rapporti con i suoi vecchi amici, con gli ex ragazzi con cui aveva iniziato l’avventura di GS, quasi tutti raccolti, a Milano, nel Centro Culturale Charles Péguy. Era quindi il luogo dove l’amicizia con don Giussani aveva trovato casa e iniziai a frequentare il centro nella sede, che oggi definiremmo “cool”, al prestigioso indirizzo di via Dante 7.
Il primo evento cui partecipai fu un incontro con esponenti della neoavanguardia letteraria, movimento che si poneva un obiettivo di rottura dei canoni linguistici e narrativi che avevano caratterizzato i primi anni del secondo dopoguerra. Confesso che ne uscii un po’ frastornato, faticando a trovare i nessi con la storia che mi aveva portato fin lì. Comunque ammirato dallo spirito di iniziativa e dalla curiosità con cui quelli del Péguy si spingevano nel loro desiderio di comprendere la contemporaneità e di costruire occasioni dirette di incontro con i suoi protagonisti. Per inciso, la neoavanguardia si schiantò un paio d’anni dopo, non riuscendo a reggere l’assalto della politicizzazione che i movimenti nati dal ’68 tentavano di insinuare a tutti i livelli della società civile. Evidentemente anche nella neoavanguardia le idee erano un po’ confuse: potevo ritenermi giustificato. I primi passi erano comunque fatti e il coinvolgimento divenne sempre più intenso.

Cambiamenti e provocazioni
Il ’68 era alle porte e anche all’interno del Péguy si capì rapidamente la portata di quanto stava succedendo o, meglio, stava per succedere. Non si poteva certo prevedere con esattezza quale piega avrebbe preso la situazione, ma c’era la sensazione di un brontolio sismico che preludeva a qualche evento epocale. I sismografi più sensibili a questi segnali erano, come sempre, quelli che anticipano i cambiamenti esprimendo un disagio che gli strumenti di analisi sociologica, per non parlare della politica o dell’economia, riescono difficilmente a percepire. È il mondo della musica, della letteratura, del cinema, dell’arte in tutte le sue forme. Segnali spesso attutiti dal rumore di fondo del vecchio che resiste. Così come il mondo della ricerca, dove le nuove frontiere del sapere sono determinate da piccoli rivoli che si confondono con tanti altri tentativi che non portano da nessuna parte. Da questo punto di vista anche “quel” Péguy si sarebbe rivelato prezioso: un osservatorio attento e appassionato sull’umanità in continua trasformazione e pronto a condividere le proprie riflessioni e le proprie scoperte. Soprattutto per quanto riguarda i nessi e le implicazioni nei confronti di un’esperienza cristiana vissuta e le provocazioni poste da nuove opportunità di inculturazione, dimensione costante ed essenziale della presenza del cristianesimo nel tempo e nello spazio.
Da questo punto di vista la Jaca Book rappresentava un importante punto nevralgico dell’attività del Péguy. Dopo l’esordio con Il Senso Religioso l’attività divenne costante e copiosa. Le pubblicazioni della collana “Cronache alla Prova” divennero presto uno strumento di confronto e di elaborazione da parte del “movimento” che dal Péguy stava nascendo. La “Jaca”, infatti, non era solo una casa editrice, ma era – anche grazie alla rete di relazioni italiane e internazionali che aveva costituito – una finestra sulla contemporaneità. Un “hub”, si direbbe oggi, di riferimento che esplorava e trasmetteva i più vivaci e interessanti – e anche provocatori – segnali di trasformazione nella cultura, nelle arti, nelle scienze, nelle esperienze religiose, nei rapporti sociali e politici. E li proponeva, con le sue pubblicazioni, sia a un mondo culturale italiano atrofizzato nella sterilità delle divisioni ideologiche, che lo confinavano in un provincialismo stereotipato, sia al rinascente “movimento” rappresentato dal Péguy e da altre realtà che si stavano ricostituendo allo stesso modo anche al di fuori dell’area milanese, fornendo strumenti di riflessione e giudizio. E un sostegno a quanti volessero intraprendere nuove iniziative nel campo della ricerca o della diffusione del movimento. Dalla Jaca partirono le prime elaborazioni che dettero forma a una presenza nelle università, che più tardi prese il nome di CL, sia i primi concreti sostegni ad una testimonianza del movimento al di fuori della sfera italiana e svizzera, opera che venne poi sviluppata dalla totale dedizione di don Francesco Ricci.
Maturazione di una consapevolezza
L’essenza della maturazione di consapevolezza all’interno del Péguy, e presto anche oltre come accennato, si fondava sostanzialmente su due pilastri: il carisma di don Giussani, la sua paternità e la sua presenza di educatore permanente, e l’infaticabile lavoro di elaborazione e comunicazione delle persone coinvolte in vari modi attorno all’attività della Jaca, sia portandone avanti l’attività editoriale sia raccogliendone stimoli e provocazioni in un proliferare di nuove iniziative e progetti. Della presenza universitaria si è già detto. I primi esempi che vengono in mente sono l’attività di ricerca (CR2 – Centro Ricerche 2 e poi ISTRA – Istituto Studi sulla Transizione), il mondo della scuola e dell’educazione (“Libera Scuola”) e molto altro. Tutti spunti che confluivano dei momenti comuni di riflessione e discussione nella sede del Péguy, trasferita in fasi successive nei più capaci e spartani seminterrati di piazza Aquileia e via Ariosto, o “in trasferta” per le occasioni che richiedevano una presenza articolata su più giornate. E tutte cose che si intersecavano strettamente con la presenza e l’opera di don Giussani: non erano solo un tentativo di dare corpo al suo insegnamento e alle sue continue sollecitazioni ma erano anche sostanza viva di confronto e richiesta di giudizio.
Un frutto di questa “sinergia” fu l’opera di ricostituzione della rete di rapporti con realtà locali sparse un po’ ovunque, nate attorno all’esperienza di GS. Rete che si era sfaldata durante la permanenza all’estero di don Giussani e che non si sapeva bene come stesse affrontando il vento del cambiamento. Iniziò un’opera instancabile di una triade formata da don Giussani, Sante Bagnoli e Paolo Volpara – i principali responsabili di Jaca Book – di visite sistematiche a queste comunità e ad altre che si aggiunsero col tempo e col passaparola.

Un centro di movimento
Il “centro culturale” nel giro di pochissimi anni si trasformò in un centro di movimento. Punto di riferimento di una realtà articolata ormai in luoghi geografici diversi e con la ricchezza di forme diverse quanto diverse erano le genialità e le vocazioni dei singoli e dei gruppi che ne mettevano in comune le similarità e la vicinanza. Ciascuno era portato ad essere fattore di aggregazione e collaborazione in queste realtà che potevano essere le più varie, quanto vari sono gli interessi e le circostanze della vita. Quindi a declinare l’esperienza comunitaria del “movimento” in una varietà di “microclimi” di coinvolgimento con persone e circostanze diverse.
Il tentativo di descrivere questa varietà occuperebbe molto spazio e sarebbe sicuramente lacunoso e parziale. L’esempio personale aiuta la comprensione. Mi trovai rapidamente preso in una varietà di coinvolgimenti.
“Incaricato” del raggio Berchet, dove si trattava di traghettare il gruppo attraverso lo sfacelo di GS, dove molti incaricati si erano trasformati in indottrinatori del verbo della rivoluzione proletaria.
Presente con uno sparuto gruppo di amici all’Università Statale di Milano, protagonisti del primo volantinaggio nella culla del Movimento Studentesco, incubatrice di svariati gruppi di lotta armata. Da-tse-bao (dal cinese, giornale a grandi caratteri, identificava un grande cartello scritto al pubblico) nell’atrio strappato nel giro di venti minuti e volantini tolti di mano con argomenti molto convincenti. Incolumità salvata da un Mario Capanna intervenuto a placare i “compagni”, a patto che togliessimo gentilmente il disturbo. Ad altri, negli anni successivi, andò decisamente peggio. Comunque il gruppo crebbe e prosperò. Pochi lo sanno, ma una volta la settimana si celebrava la Messa comunitaria nel cuore della corazzata rivoluzionaria.
A 19 anni primi viaggi oltrecortina con il gruppo dell’Est nell’ambito di CSEO. Soprattutto i viaggi di avanscoperta furono oggetto di racconti appassionati alle assemblee del Péguy. Un Giussani entusiasta era sicuramente il primo fan di queste imprese e attinse largamente alle testimonianze di cui ci facevamo portatori, facendosene spesso ispirare. L’impegno con l’Est è poi durato molti anni e, in qualche modo, sta ancora miracolosamente continuando.
Studente lavoratore dipendente part-time di Jaca Book. L’incarico era decisamente tecnico, ma Jaca era a sua volta una comunità, un ambito di amicizia, un modo di essere parte del “movimento”. Difficile non farsi contaminare dal clima di entusiasmo che faceva dimenticare la fatica e le difficoltà che si incontrano in ogni ambiente di lavoro dove bisogna garantire la produzione e cercare di far quadrare i conti. Cosa particolarmente acrobatica nell’editoria, soprattutto se fuori dal main stream. Inoltre si trattava di un crocevia dove passavano personaggi di grandissimo interesse con cui non era raro intrattenersi per qualche motivo. Non si trattava solo di visite connesse all’attività editoriale, ma anche di curiosità per il nascente movimento che sempre più spesso faceva parlare di sé. Notevole, da questo punto di vista, il lavoro preparatorio per la nascita della rivista internazionale di teologia “Communio”, edita in diverse lingue e con il contributo dei teologi più prestigiosi dei vari paesi. Un progetto che ha avuto una grande risonanza, che purtroppo da qualche anno ha cessato la pubblicazione in italiano, che tra i tanti buoni risultati ha avuto probabilmente anche il merito di creare un clima di familiarità verso la nascente CL. Alla redazione partecipavano Josef Ratzinger, Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac e tanti altri.
Esperienze legate a una fase della vita, cui altre fecero seguito negli anni a venire.
Colpi di pennello, questi. Dettagli di un affresco che altri potrebbero completare con un’infinita serie di contributi. In effetti alla pur legittima domanda “Ma, in concreto, voi cosa fate?” non ho mai ritenuto di poter rispondere con una lista di iniziative. Il Péguy è stato il luogo che ci ha aperto gli occhi su cosa sia una compagnia guidata al destino. E le vite guidate al destino sono lì da guardare, sono la risposta.