Francesco Guccini: “Vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande”

Cinquant’anni fa usciva l’album “Stanze di vita quotidiana”. Un disco intimo, nebbioso, sanguinante. Il suo più doloroso. Magari stilisticamente imperfetto però vero, con canzoni struggenti e lontane dalle parole d’ordine. Don Giussani si accorse di quel lavoro così sincero e nel percorso del “Senso Religioso”, al capitolo ottavo (lezioni disponibili in podcast) cita una canzone di quel 33 giri: “Canzone per Piero”.  


19 luglio 2024
Dar aria alle stanze
di Walter Gatti

Di questi tempi c’è un podcast in cui don Luigi Giussani (nel percorso del “Senso Religioso” al capitolo ottavo) cita una canzone che risuona così:

Chi glielo dice a chi è giovane adesso
di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare
perché ogni volta è poi sempre lo stesso


Già chi glielo dice che la vita è fatta anche così? Speranza e delusione, giustizia e sconfitta, essere giovani ed essere adulti, guardare le cose dal punto di vista dell’orgoglio o della misericordia. È Francesco Guccini ad aver scritto quelle parole, che stanno dentro a “Canzone per Piero”, uno dei brani del suo disco più faticoso e doloroso,Stanze di Vita Quotidiana”.

Fuori da ogni retorica

Uscito nel 1974, quando Guccini ha 34 anni ed è già il cantautore di riferimento della musica italiana (si gioca la palma del numero uno con Fabrizio De Andrè), il disco si compone di sei canzoni struggenti, intime, nebbiose come una pessima giornata autunnale. Due anni prima aveva pubblicato il suo capolavoro, “Radici”, (quello di “La locomotiva”, “Il vecchio e il bambino”, “Canzone della bambina portoghese…) e i suoi concerti erano eventi politico-sociali più che artistico-musicali. Di colpo, con Stanze, Francesco scoperchia il disagio sanguinoso del minuto-dopo-minuto, giorno-dopo-giorno. La citata “Canzone per Piero”si conclude in modo insospettabile per quegli anni movimentisti (...dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso/ più mi ritrovo questo vuoto immenso e per rimedio soltanto il dormire/E poi ogni giorno mi torno a svegliare e resto incredulo, non vorrei alzarmi/ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande, il mio niente, il mio male... ).

Gli altri brani del 33 giri seguono la stessa atmosfera ed aprono ad ogni strofa nuove questioni. Anche se arrangiata in un modo bislacco, quasi come un pop-latino americano, “Canzone della triste rinunciaapre un abisso di questioni faticose e di immagini autentiche svuotate da ogni retorica:

Non ho la voglia o la forza per poter cambiare
Me stesso e il mondo che mi vive addosso

E forse sto morendo e non lo so capire
O l’ho capito e non lo voglio dire
Rimangono le cose senza falso o vero
E la rinuncia triste a quello che io ero

A modo suo la canzone che apre l’album, la celebre “Canzone delle osterie di fuori porta”, sancisce la fine di un mondo:

Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta
Ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta
Qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore
E insegue una maturità, si è sposato, fa carriera ed è una morte un po’ peggiore

E come se non bastasse a coronare il tutto c’è “Canzone della vita quotidiana”, che mette malattie, sesso, carriera, sogni, poteri, soldi, vecchiaia e amori nel gran calderone del senso mancante, di uno smarrimento metropolitano, quasi come citasse Pavese o anticipasse il chiodo fisso di Houllebecq e dei suoi romanzi:

I piccoli malanni sempre più numerosi
Più dolorosi col passar degli anni
La lotta vuota e vana, patetico tentare
Di rimandare un poco la vecchiaia
E poi ti trovi vecchio e ancor non hai capito
Che la vita quotidiana ti ha tradito

@Alberto William Allard

“Ma il senso della vita dove lo rintracciamo”

Il disco, nel suo complesso, è affascinante e tetro e Guccini stesso lo ha giudicato nel tempo un prodotto non proprio riuscito, anche per via di una situazione personale pesante. Ma la bellezza di alcune canzoni non è stata di sicuro colta dalla critica, che in quegli anni con Guccini non era sempre benevola (senza contare che lui stesso era oggetto degli attacchi del movimento studentesco perché “faceva i soldi con i concerti”). Resta da capire se le critiche fossero indirizzate al disco nel suo complesso oppure al senso di imbarazzo nei confronti di una “star” del nuovo mondo giovanile e del movimento studentesco, che scombina i piani togliendo il velo dell’ipocrisia dicendo “possiamo pure essere rivoluzionari, ma il senso della vita dove lo rintracciamo? Dove andiamo a cercarlo?”. 

Uno degli attacchi frontali più caustici era verso Stanze era stato quello di Riccardo Bertoncelli, che in pratica dice “non abbiamo certo bisogno di un disco all’anno da Guccini”. Incazzato come una iena il cantautore bolognese si mette al tavolino con la chitarra e pochi mesi dopo scrive “L’avvelenata” (Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni/ Voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni/ Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete/
Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate/

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso/
Mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso/
E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare/
Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto
)

“Ma il senso del vero non trova”

“Stanze di vita quotidiana”rimarrà per sempre un disco inconcluso. Il produttore, Pier Farri, aveva idee musicali insolite ed anche se i musicisti erano eccellenti (Vince Tempera, Ellade Bandini, Tony Esposito…..) il prodotto complessivo suonava come un po’ bislacco. Più o meno con gli stessi suonatori il cantautore bolognese negli anni successivi realizza “Via Paolo Fabbri 43” e “Amerigo”, sicuramente più equilibrati nei suoni ed anche più noti, stemperando il “racconto del proprio io” con i racconti della realtà (“Piccola storia ignobile”, “Il pensionato”, “Eskimo”, ma anche la già citata Avvelenata…). Guccini continuerà a scrivere canzoni su canzoni (e lo fa ancora, pur in modo ritirato e appartato, alternandole a libri e romanzi), ma il malessere quotidiano, il dolore di sé e del mondo riaffiorerà più tardi, soprattutto in “Quello che non…. album potente del 1990. Un altro disco in cui non c’è trucco e non c’è inganno: quello che l’uomo è Guccini lo racconta e lo sbatte in faccia senza ritegno, ma con grande forza letteraria e capacità poetica. Siamo tutti mancanti. Siamo tutti pieni di quel disgusto di ricominciare. Perché siamo più o meno tutti come un Mozart stonato che prova e riprova/Ma il senso del vero non trova (Quello che non…).Allora, negli anni ‘70, come oggi, l’epoca di Taylor Swift. Finché non accade qualcosa che scombina le carte. E dà aria alle stanze dove si vive la vita quotidiana, per quanto disgustosa possa essere.

@Uliano Lucas