Se le potenze arrivano prima di noi. Genocidio in Sudan

L’ennesima guerra dimenticata. Dall’aprile 2023 lo Stato dell’Africa nord orientale è precipitato di nuovo nella guerra. Ma il conflitto non richiama alcuna attenzione. Le potenze arrivano prima di noi perché assai interessate alle ricchezze di quel sottosuolo. Intanto ogni giorno si aggiorna il numero dei morti, dei bambini rapiti, delle donne violentate. Epidemia e carestia sono in agguato. Una tragedia che dovrebbe riguardare tutti. E invece…


5 luglio 2024
Editoriale

Quel che il mondo non vuole vedere è quel che noi non vogliamo vedere. Nessuno si senta escluso da questa cecità. Cercare giustificazioni, non aiuta nel tentativo di riaprire gli occhi. C’è un paese, il Sudan, che dall’aprile 2023 è precipitato di nuovo nel rito macabro della violenza diffusa. Si dirà, con i conflitti in corso in Ucraina e a Gaza, è nelle cose, funziona così. E poi, l’Ucraina è Europa, Gaza è Medio Oriente, il Sudan è uno Stato dell’Africa nord orientaleche non scalda particolarmente i cuori. Scalda, però, gli interessi geopolitici e di chi sa trafficare per perseguire i propri affari visto che quel Paese molto grande dispone di notevoli ricchezze nel sottosuolo. Il quadro della situazione è terribile, dobbiamo conoscerlo, per essere come diceva Luzi  : migliaia e migliaia di morti, milioni di sfollati, circa venti milioni a rischio di carestie ed epidemie. E ancora: centinaia di bambini presi in ostaggio, un numero imprecisato di donne vittime di stupri e violenze. Questo è oggi il Sudan dimenticato. Come detto, risale a poco più di un anno fa, l’avvio della guerra. In principio, è interessata la capitale Khartoum, con le fazioni rivali a fronteggiarsi cimentandosi con scambi di artiglieria. Quella è stata la miccia. Di lì a poco il conflitto si è esteso alla regione del Darfur occidentale, terra che da decenni vive il dramma della violenza periodica. Ora, la guerra si è frammentata in una miriade di scontri fra milizie, gruppi ribelli ed esercito regolare. Per i mercanti delle armi un’occasione assai ghiotta. Già, quando gli affari sono un malaffare.  

Il metodo del mondo: pulizia etnica e genocidio

Le due principali fazioni in lotta fanno capo al generale Abdel Fattah Al-Burhan, presidente de facto, e i paramilitari delle Rsf, guidati dal vicepresidente Mohamed Hamdane Daglo, detto «Hemeti», che ha guidato la rivolta nell’aprile 2023. Nel Darfur le forze paramilitari delle Rsf hanno recentemente lanciato un terribile attacco. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), a causa del blocco imposto dalle Rsf, più di 800.000 civili sono rimasti intrappolati nella città mentre divampavano i duri combattimenti. L’inviato speciale americano per il Sudan nei giorni scorsi ha parlato di uno Stato tecnicamente fallito. Tuttavia, quel fallimento è qualcosa di più un fallimento tecnico. C’è un fallimento umano. Alessia De Luca, analista dell’ISPI ha scritto che «nella regione occidentale del Darfur sono in corso violenze sistematiche dietro cui gli osservatori Onu, allarmati, riconoscono elementi di pulizia etnica e genocidio. Con gran parte dell’attenzione mondiale focalizzata sulla Striscia di Gaza, il Sudan, teatro di un’altra drammatica carestia portata in dote dalla guerra, sta rapidamente scivolando verso un disastro umanitario di proporzioni storiche, nel silenzio e nell’indifferenza». Come ha scritto il giornalista del “Corriere della Sera” Massimo Nava, sebbene il crimine di genocidio non sia ancora stato qualificato penalmente da un’organizzazione internazionale, “Foreign Policy”sottolinea che «gli esperti legali sono d’accordo sul fatto che la campagna della Rsf nel Darfur occidentale costituisca effettivamente un genocidio, secondo la Convenzione del 1948 sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio».
«Il rischio di genocidio in Sudan esiste. È reale e aumenta di giorno in giorno», ha avvertito Alice Nderitu, consigliere speciale delle Nazioni Unite, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 21 maggio. «Non c’è una copertura mediatica significativa e nessuno si preoccupa di ciò che sta accadendo qui», dice Abu Muhammad, un uomo d’affari sudanese, al Communication Centre for Peace (Cpc).


La mancata risposta

Questa mancanza di risposta internazionale è illustrata dalla risoluzione adottata dalle Nazioni Unite in un anno di conflitto, che chiedeva di fermare i combattimenti durante il Ramadan. È stata ignorata. Una seconda risoluzione è stata approvata lo scorso 13 giugno e anche questa, fino ad oggi, ha avuto lo stesso destino. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto ai paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) di mettere fine all’assedio di Al Fashir, capoluogo dello stato del Darfur Settentrionale, nell’ovest del Sudan, dove sono intrappolati centinaia di migliaia di civili. La risoluzione, presentata dal Regno Unito, è stata approvata con 14 voti a favore e l’astensione della Russia. La risoluzione chiede «il ritiro di tutti i combattenti che minacciano la sicurezza dei civili» e invita le parti a «permettere agli abitanti che volessero farlo di lasciare la città». La crisi sudanese, dunque, presenta il volto della tragedia quotidiana. Antony Blinken, segretario di Stato degli Stati Uniti ha parlato di un dramma umanitario senza precedenti in quel Paese. E ha puntato l’indice contro le Rfs e i suoi alleati accusandoli di aver commesso crimini contro l’umanità e pulizia etnica.

La coraggiosa minoranza cattolica

Il Sudan è una realtà a larghissima maggioranza musulmana. La Chiesa cattolica è una minoranza, una presenza piccola, intorno al due per cento (circa un milione di persone). Tuttavia, la testimonianza di fede mai è venuta meno. Anche in questo momento assai drammatico. Recenti fonti missionarie dicono che la domenica gruppi di fedeli si ritrovano per pregare insieme ai catechisti seppur i bombardamenti sono costanti. Quel che sta mancando è la celebrazione delle Messe e l’accesso ai sacramenti perché la situazione di guerra ha ridotto ad appena trenta il numero totale dei religiosi presenti sul territorio. Insomma, il mondo, cioè tutti noi, deve svegliarsi. Prendersela solo – quando va bene – con le distrazioni interessate dei potenti di turno è un esercizio vizioso. Parte ingombrante del problema che siamo noi.